In the still of the night
41.
…intravvedo
Cressida e Pollux che ci precedono a una trentina di metri, arrancando insieme
alla massa. Allungo il collo e mi guardo intorno per vedere se riesco a
localizzare Peeta. Non ce la faccio, ma ho colto lo sguardo di una bambina
dall’aria curiosa che indossa un cappotto giallo limone. Do una gomitata a Gale
e rallento appena il passo, perché tra noi e lei si formi un muro di folla…
…quello
che riesco a vedere, tra stivali di pelle color lavanda alternati ad altri
verde menta, è una via piena di cadaveri. La bimba che prima mi fissava,
inginocchiata accanto a una donna immobile, grida e cerca di scuoterla.
Un'altra raffica di pallottole attraversa il suo cappotto giallo, macchiandolo
di rosso e facendo cadere lei riversa sulla schiena. […] sono ipnotizzata da
quel cappotto giallo limone…
…un
baccello, attivato proprio davanti a noi, rilascia un getto di vapore che
ustiona chiunque si trovi sul suo cammino e lascia cadaveri rosa come intestini
scoperti. Poco dopo, svanisce anche quel po' di senso logico che ancora
resisteva…
…mentre
arriviamo all’angolo seguente, l’intero isolato davanti a noi si accende di un
bagliore viola intenso. Facciamo marcia indietro, ci accucciamo nel vano di una
scala e strizziamo gli occhi per guardare nella luce. Sta succedendo qualcosa a
quelli che ne sono illuminati. Vengono assaliti da… cosa? Un suono? Un’onda? Un
laser? Si lasciano cadere le armi di mano, si afferrano il volto con le dita,
mentre il loro sangue sprizza da ogni apertura visibile: occhi, naso, bocca,
orecchie…
…lungo
il centro dell’isolato si è aperta una fenditura. I due lati della strada
piastrellata si stanno ripiegando all’ingiù come ribaltine di un mobile,
facendo precipitare lentamente chiunque ci si trovi sopra verso l’interno di
ciò che sta sotto, qualunque cosa sia…
…Gale
si dà una spinta e varca la soglia, atterrando con un balzo sul pavimento. Per
un attimo provo l’esultanza del suo salvataggio. Poi mani guantate di bianco
calano su di lui…
…mi
giro e mi allontano di corsa dal baccello. Completamente sola, ormai. Gale prigioniero.
Cressida e Pollux potrebbero essere morti già dieci volte. E Peeta? Non lo vedo
da quando abbiamo lasciato il negozio di Tigris. Mi aggrappo all’idea che possa
essere tornato indietro…
…penetro
subito tra la folla. Comincio a zigzagare da una parte all’altra in direzione
della villa, inciampando su tesori abbandonati e membra ricoperte di neve. Più
o meno a metà strada, mi accorgo del recinto di cemento. […] Dentro il recinto,
sono tutti bambini. Compresi tra i primi passi e l’adolescenza. Impauriti e
congelati. Che si stringono l’uno all’altro o si dondolano per terra con
espressione confusa. […] Tutto questo serve a difendere Snow. I bambini sono il
suo scudo umano…
…su
di loro piovono moltissimi paracadute argentati. Persino in mezzo a questo
caos, i bambini sanno cosa contengono quei paracadute. Cibo. Medicine. Doni. Li
raccolgono, entusiasti, lottando per districare i fili con le dita gelate.
L’hovercraft scompare, trascorrono cinque secondi, e a quel punto circa venti
paracadute esplodono nello stesso istante. Un gemito si leva dalla folla. La
neve è rossa e cosparsa di brandelli umani troppo piccoli. Molti bambini
muoiono subito, altri giacciono agonizzanti al suolo…
…prima
intravedo la treccia bionda che le scende lungo la schiena. Poi, quando si
strappa di dosso il cappotto per coprire un bimbo che si lamenta, noto la coda
da paperella formata dal lembo di camicetta che le è uscito dalla cintura. […]
Cerco di gridare il suo nome sopra il frastuono. Sono quasi arrivata lì, ho
quasi raggiunto il recinto, quando credo che mi senta. Perché per un attimo mi
scorge, le sue labbra formano il mio nome.
Ed
è allora che i paracadute rimasti esplodono…
Il
velo creato dalla morfamina svanisce, e poi ritorna. Sprazzi di luce invadono i
miei occhi solo per pochi istanti, ed è così diverso dagli interi giorni di
buio in cui sono costretta a sprofondare ogni volta. Nel buio, l’incubo
ritorna. Torna con immagini sgranate, altre volte ancora con immagini più
nitide, più chiare. L’incubo non mi lascia in pace, non mi lascia morire in
pace. Mi costringe a rivivere gli ultimi istanti di vita di mia sorella,
accompagnati dal resto delle atrocità a cui ho assistito. Prim che si trasforma
in una vera ragazza di fuoco, il risultato di tutto ciò che non sono riusciti a
fare su di me. Prim che brucia, Prim che tentava solamente di salvare delle
vite innocenti. Bambini che esplodono, bambini che muoiono. Bambini che
raccolgono paracadute. Una bambina crivellata di colpi, avvolta in un cappotto
giallo limone…
Quando
il velo creato dalla morfamina svanisce, la mia mente torna più chiara. Divento
vigile, ed improvvisamente conscia di ciò che mi circonda, ma insieme ad essa
torna anche il dolore. Il dolore delle ustioni, quello della carne bruciata, il
dolore che ho già sentito nella prima arena, ma amplificato per dieci, cento,
mille volte. Il dolore che mi fa urlare, che mi fa implorare la morte. Vorrei
morire ogni volta che sento questo dolore, ed ogni volta che ricordo di aver
perso anche Prim.
A
cosa è servito tutto questo dolore? Offrirsi volontaria per salvare la vita ad
una sorella, la mia sola e unica ragione di vita, per salvarla dalla morte e
permetterle così di vivere una vita intensa, e degna di essere realmente vissuta?
A cos’è servito vincere gli Hunger Games, affrontare il ritorno a casa, le
sommosse dei Distretti, tornare di nuovo in un’arena, perdere un figlio? A
cos’è servita la guerra, la rivoluzione, l’assedio di una città, la morte di
amici e compagni, la perdita di vite innocenti? A cos’è servito affrontare
tutto il male presente al mondo se poi la sorella che hai tentato così
disperatamente di salvare all’inizio di tutto muore comunque davanti ai tuoi
occhi? A cos’è servito allungare la sua vita di un anno, un solo anno,
per poi vederla bruciare davanti alla casa del tuo nemico?
-
Prim – non ho voce mentre chiamo il suo nome. Non ho più voce, non ho più aria,
e forse non ho più nemmeno un corpo. Non lo sento più, il mio corpo. Cerco di
alzare le braccia, le mani, le dita. Ci provo, ma non si muove niente. – Prim –
provo ancora. Stavolta sento del male.
È
un altro di quegli istanti di lucidità prima dei giorni di oblio. È un altro
istante in cui sono consapevole della morte di mia sorella. La mia paperella.
La mia paperella non c’è più. Qualcosa che si muove, qualcosa di rumoroso, accanto
al mio letto. Vorrei sorridere dal sollievo perché sono sicura che sia Prim.
Prim ha sentito che la stavo cercando ed è arrivata. Non è morta, è viva!
È viva, ed è accanto a me. È qui.
-
Prim – dico di nuovo.
-
Katniss – sono delusa: questa non è la voce di Prim.
Ed
è come se il mio corpo lo percepisse: questo strano corpo che hanno spacciato
per mio si ribella davanti alla voce che mi sta parlando. Esplode in ondate di
rabbia, di dolore graffiante che arriva sin dentro ai miei polmoni. Apro gli
occhi, lottando contro le palpebre che non rispondono al mio volere. Lotto
contro la luce che invade le mie iridi, lotto contro il dolore che mi invade il
cervello.
L’uomo
che ho di fronte non lo riconosco. Solo gli occhi sembrano familiari: occhi
chiari, occhi azzurri. Un mare di azzurro in cui potrei immergermi, nuotare,
affogare. Affogare per non tornare più.
-
Katniss, tranquilla. L’infermiera sta arrivando e tornerai a stare bene. Non
sentirai più male, te lo prometto – dice l’uomo dagli occhi azzurri in cui
potrei affogare.
-
Prim – è tutto ciò che dico all’uomo.
-
Sono Peeta, amore mio. Prim… Prim non c’è. Non è qui.
L’uomo
che dice di chiamarsi Peeta mi chiama amore. Perché mi chiama amore? E perché
dice che Prim non c’è? Oh, allora deve essere vero: Prim è morta. Prim è davvero
morta. L’ho persa per sempre, così come ho perso per sempre mia figlia, il mio
piccolo fiore di lillà. Prim deve essere con lei, adesso: sono insieme
nell’aldilà? Si prenderà cura di lei? Non starà più da sola! Ho sempre avuto
paura che fosse da sola, in quel posto misterioso e lontano in cui non posso
raggiungerla… ma adesso non lo è più. C’è Primrose con lei. Per sempre insieme
a lei…
-
Prim – ripeto, quasi ringhiando, agitando ancora le braccia. Le mie braccia
bruciano, protestano, fanno male. – Prim… Lilac…
-
Chi è Lilac, Katniss? – chiede l’uomo che dice di chiamarsi Peeta.
-
Prenditi… cura di Lilac…. – provo ad urlare. Le braccia ricadono accanto ai
miei fianchi.
Il
buio. Sta tornando di nuovo il buio. Le palpebre si chiudono, l’uomo che si
chiama Peeta svanisce dal mio campo visivo.
Prim
e Lilac svaniscono di nuovo.
Le
ustioni guariscono, la morfamina viene sospesa, altre medicine rimpiazzano
l’oppiaceo. Lascio l’ospedale rivoluzionario di Capitol City in cui hanno
rimesso a posto la parvenza di carne bruciata in cui si era trasformata la mia
pelle. È quasi nuova, adesso: le braccia, la parte inferiore della schiena ed
il fianco destro, i punti maggiormente coinvolti, hanno assunto il colore
chiaro e la delicatezza della pelle dei neonati. Lascio che mi conducano in una
stanza che condivido insieme a Peeta, l’uomo dagli occhi azzurri che non ho
riconosciuto neanche una volta, nello stato confusionale e illusorio in cui ero
sprofondata. Le cure che hanno somministrato a Peeta non sono state come le
mie: lui non è rimasto settimane confinato a letto, sedato con la morfamina per
evitare di sentire il dolore della carne che guariva. È rimasto ustionato anche
lui, ma la sua coscia è guarita meglio e più in fretta in confronto alle mie
ferite.
Seduta
sul letto della camera che condivido con Peeta, osservo un punto imprecisato
della parete che ho di fronte, elaborata, decorata, piena di quadri e dipinti.
Non riconosco questa camera, non ci sono mai stata prima di adesso. Il cielo
bianco, freddo, che vedo fuori dalla finestra, mi suggerisce che è inverno
inoltrato. L’inverno stava arrivando quando è morta Prim, e non è ancora
finito. L’inverno durerà ancora per un po'. Come la sofferenza che sento, come
il dolore che la sua morte ha provocato in me… durerà ancora un po'. Forse durerà
per sempre.
Davanti
a me, inginocchiato, c’è Peeta. Sta sfilando le scarpe dai miei piedi per
consentirmi di sdraiarmi sul copriletto dorato. Le mie mani sono ferme sul
materasso soffice, affondano e quasi sprofondano per quanto è morbida la
superficie su cui sono seduta. Al polso destro, rigido, campeggia un bracciale
argentato: una fascetta. “Mentalmente confusa” è ciò che vi è inciso. Sono di
nuovo mentalmente confusa, come dopo l’arena. Come dopo la morte di mia figlia.
L’ho
chiamata, l’ho invocata, tra la nebbia e le allucinazioni. L’ho chiamata Lilac,
me l’ha raccontato Peeta: mi ha chiesto chi fosse la Lilac di cui Prim doveva
prendersi cura. Ed io ho dovuto rivelargli il motivo per cui, nella mia mente,
la nostra bambina mai nata aveva ricevuto quel nome.
-
I fiori di lillà sulla mia torta di compleanno – ho risposto, atona.
-
Katniss – ha detto Peeta. Ha detto solo il mio nome, ed ha posato una mano
sulla mia guancia. Solo questo.
Osservo
i capelli biondi dell’uomo che si chiama Peeta, l’uomo che mi ha chiamata
amore, l’uomo che mi ama. L’uomo che ho sposato nello strano modo in cui ci
sposiamo noi abitanti del Distretto 12. L’uomo con cui ho deciso di condividere
la mia intera vita. L’uomo che presto diventerà vedovo, se riesco a portare
avanti la mia vendetta. Accarezzo i suoi capelli, immergo le dita nel biondo
dorato che tanto amo. Peeta alza il viso, mi sorride, smette di litigare con le
mie scarpe e posa la fronte contro le mie ginocchia. Mormora qualcosa che non riesco
ad afferrare.
-
Dove siamo? – domando con la strana voce che mi ritrovo.
-
Nella residenza presidenziale – risponde.
Mentre
morivo, mentre guarivo, il regime del presidente Snow è caduto. È caduto con
l’esplosione dei paracadute, con la morte dei bambini innocenti. È caduto con
la morte di Prim. Snow è stato fatto prigioniero, la Coin si è autoproclamata la
presidente di Nuova Panem, e adesso sono tutti in attesa di conoscere l’esito
del processo per poter procedere all’esecuzione dell’ormai ex presidente. La
presidente Coin è venuta a trovarmi una mattina, poco prima che potessi fuggire
dalle attenzioni continue di Peeta per andare a nascondermi da qualche parte,
in questo posto immenso da cui Snow ha guidato la nazione per decine di anni. È
venuta a trovarmi, promettendomi che sarò io la persona che scoccherà la
freccia che lo ucciderà. Sarò io l’esecutrice dell’esecuzione.
-
Te lo sei meritato, in fondo – ha commentato, sorridendo orgogliosa. Orgogliosa
non di me, della Ghiandaia Imitatrice che ha infiammato la nazione, ma del
potere tanto agognato, tanto voluto e bramato, che è riuscita a conquistare
grazie a me. Grazie alla mia immagine usata, abusata e sfruttata fino alle
fiamme, letteralmente fino alle fiamme. E odio, adesso, il modo in cui mi osserva
con i suoi occhi gialli. Odio il modo in cui mi studia, in cui osserva lo stato
in cui la guerra e la morte mi ha ridotta. Mi osserva dall’alto in basso,
dall’alto del suo essere la signora presidente verso il basso del mio essere soltanto
una ragazza bruciata, usata, debole, e sofferente.
Mi
osserva come se mi stesse dando un contentino.
Un
contentino che però mi consentirà di raggiungere la mia vendetta.
Trascorro
ore in assoluto silenzio, ore intere, giornate intere, cercando di sfruttare
gli angoli nascosti di questa enorme villa per nascondere me stessa. Mi
nascondo dagli occhi degli altri, dagli occhi di Peeta che ha quasi assunto il
ruolo di mio guardiano. Non è più mio marito, il mio fidanzato: è diventato il
mio baby-sitter. E penso che starà meglio una volta che sarò morta, così non
dovrà più prendersi cura della moglie mentalmente confusa. Starà meglio con una
ragazza normale, con qualcuno che può garantirgli una vita normale.
Alle
volte riprendo conoscenza nella stanza che occupo con Peeta senza sapere come
io ci sia tornata, e ho sempre il dubbio che a riportarmici sia stato proprio
Peeta. Me lo immagino, il modo in cui trascorre le ore del giorno: insegue me
mentre io provo a fuggire da lui, e mi cerca dopo che io mi sono nascosta. Come
i giochi dei bambini, e non quelli destinati a due persone che possono essere
considerate ormai adulte. Mi rincorre come se stessimo giocando ad una partita
di acchiapparello e mi cerca come durante una sessione di nascondino. Ed io,
alla fine, perdo sempre.
Lui
mi acchiappa sempre.
Lui
mi trova sempre.
Ed
io non voglio essere ritrovata.
Voglio
solo essere dimenticata.
L’esito
del processo giunge dopo altri giorni di fughe, di nascondigli, di silenzio. L’ormai
ex presidente Snow è stato dichiarato colpevole di crimini contro l’umanità.
Tra meno di dieci giorni verrà giustiziato. Nella stanza che divido con Peeta,
il giorno della sentenza, arriva una scatola di legno contenente la mia divisa
da Ghiandaia Imitatrice, rimessa a nuovo come se Cinna l’avesse appena finita
di realizzare, e l’arco sottile e nero che Beetee ha costruito per me nel
Distretto 13. Non ci sono frecce, né faretra. È chiaro cosa significa tutto
questo: non sono autorizzata ad avere armi nello stato confusionale in cui sono
sprofondata. L’arco, senza le sue frecce, non può essere considerata un’arma. È
un oggetto inutile, un semplice accessorio. Avrò le armi solo quando arriverà
il momento di uccidere Snow. Ma un’arma in realtà c’è: è nascosta nella piccola
tasca sulla spalla sinistra, dove l’ho messa per non perderla. E non l’ho
persa, e per la prima volta da quando Prim è morta sorrido perché nessuno
sembra essersi preso la briga di controllare le tasche dell’uniforme. La
pillola di Morso della Notte è ancora qui, ed è adesso nel palmo della mia
mano. Potrei prenderla ora e morire in meno di un minuto. Non sarà una morte
dolorosa, ha detto Boggs quando me l’ha consegnata, ma non è un dettaglio
su cui voglio soffermarmi. Potrei morire adesso, morire e dimenticare tutto.
Morire, raggiungere Prim e Lilac, venire dimenticata così come tanto desidero.
Ma non la prendo: per quanto allettante, per quanto io sia attratta dal
desiderio di morte, decido di attendere. Sono solo dieci giorni, penso. Dopo
averla osservata e rigirata tra le dita, rimetto la pillola nella tasca e
decido di aspettare dieci giorni ancora.
Dieci
giorni.
Allora,
dopo aver ucciso Snow, potrò morire anche io.
Durante
il mio vagare, un giorno, dopo essere fuggita dalla stanza in cui il dottor
Aurelius, lo strizzacervelli che mi ha in cura, segue le mie sedute di terapia,
mi imbatto in un’ala della residenza in cui non sono ancora stata. Un’ala
curata, come tutte le altre stanze e corridoi e aree che ho già esplorato. È
un’ala protetta, a giudicare dai due soldati Ribelli che la sorvegliano. Mi
avvicino ai soldati mentre cerco di capire cosa nasconde quest’ala quando vengo
fermata. I soldati mi sbarrano la strada con i loro fucili.
-
Non può passare, signorina – dice minaccioso l’uomo alla mia destra.
-
Non puoi passare, soldato Everdeen. Ordine della presidente – dice
quello alla mia sinistra.
Li
guardo senza dire nulla, senza neanche provare a chiedere se non possano fare
un’eccezione per me. Ci tengo parecchio a scoprire cosa nasconde questa parte
della casa, anche se è solo per trascorrere altre ore di solitudine lontana da
tutti coloro che vogliono controllarmi. Vorrei quasi implorarli, adesso, ma
continuo a restare chiusa nel mio silenzio. I soldati si lanciano occhiate
confuse e di chiaro disagio, dato che non sanno cosa fare con me. Chiamare
Haymitch? Buona fortuna, penso. È più ubriaco di quando era un
alcolizzato.
-
Lasciatela entrare – esclama una voce alle mie spalle. Mi volto e scorgo
la figura autoritaria della comandante Paylor, la donna che ho conosciuto mesi
fa al Distretto 8. – La autorizzo io.
Davanti
all’ordine della loro comandante, i soldati allontanano i loro fucili e mi
permettono di avanzare, di percorrere il corridoio che si dipana dinanzi a me.
Cammino e dopo pochi metri azzardo un’occhiata verso le persone che lascio
indietro. I due soldati della Paylor sembrano avermi già dimenticata, la
comandante invece mi osserva e sorride. Perché sorride? Cosa c’è in questa
parte della casa da portarla a sorridere? Qualcosa di bello?
Giunta
alla fine del corridoio, trovo una porta a vetri. Attraverso i vetri riesco a
vedere l’interno della stanza, che in realtà è una serra. Nella serra crescono delle
rose. Rose bianche, rose rosa, rose rosse, rose arancioni. Rose gialle. Decine
di colori meravigliosi immersi nel mare verde. Questo è il posto in cui
crescono le rose che l’ormai ex presidente Snow ama così tanto.
Ed
in mezzo alle rose, seduto di spalle, c’è proprio lui.
Snow.
Entro
nella serra, adagio, usando tutta la lentezza e la cautela di cui sono capace.
L’interno della serra è così caldo e umido da ricordarmi il clima asfissiante
in cui sono stata catapultata durante la seconda arena. Questo è l’habitat
ideale per far crescere le rose. Le foglie sfiorano le mie braccia mentre
cammino, mentre mi inoltro nel bel mezzo delle piante per raggiungere l’uomo
seduto di spalle tra le rose bianche.
Ed
è qui, in questo posto straripante del profumo di rose, che mi ritrovo faccia a
faccia con l’uomo che per un anno intero ha infestato i miei incubi. L’uomo che
per decine di anni ci ha costretto ad assistere alla morte e all’assassinio di
centinata di ragazzini. L’uomo che mi ha costretta ad offrirmi volontaria per
salvare la vita di Primrose. L’uomo che ha causato un anno intero della mia
sofferenza, l’uomo che ha rovinato la mia vita. L’uomo che ha causato la morte
di mia sorella.
È
la quarta volta che mi ritrovo faccia a faccia con l’ormai ex presidente di Panem.
La prima volta è stato più di un anno fa, il giorno in cui io e Peeta fummo
incoronati vincitori dei settantaquattresimi Hunger Games. La seconda volta è
stato meno di un anno fa, il giorno in cui venne a trovarmi a casa, poche ore
prima dell’inizio del Tour della Vittoria, per informarmi e minacciarmi di ciò
che accadeva nei Distretti. La terza volta è avvenuta due settimane dopo, alla
fine del Tour: io e Peeta ci eravamo appena fidanzati e lui venne a farci le
sue congratulazioni più sincere. Oggi so che le sue erano solo parole vuote: i
Distretti continuavano a ribellarsi all’autorità, e lui già progettava il modo
più efficace per vendicarsi della scomoda ragazza che non era riuscita a
convincere il suo popolo.
La
terza volta eravamo proprio qui, a casa sua, quando è avvenuto l’incontro. Ed è
di nuovo a casa sua che lo incontro, la casa in cui è tenuto prigioniero mentre
attende il giorno in cui la sua vita cesserà per sempre.
Faccia
a faccia con l’uomo che ha rovinato la mia vita, scopro che non assomiglia per
niente all’incubo che ha infestato per così tanto tempo la mia mente.
Nonostante il viso alterato dalla chirurgia, nonostante le manette, nonostante
i ceppi e nonostante i dispositivi di localizzazione, tutto ciò che la sua
immagine mi rimanda è quella di un vecchio. Un vecchio ben vestito, pettinato,
curato, con una rosa all’occhiello ed inebriato dal profumo che i suoi fiori
preferiti spandono per la serra, ma pur sempre un vecchio. Ed il fazzoletto
macchiato di sangue che tiene tra le mani me lo dimostra. È solo un vecchio, un
vecchio malato.
Un
vecchio che soffre.
-
Speravo che avrebbe trovato la strada per i miei appartamenti – dice, un
sorriso stampato sulle labbra gonfie. – Abbiamo molto di cui parlare, signorina
Everdeen, ma prima di tutto voglio che lei sappia che non ho mai desiderato la
morte di tutte quelle creature. Neanche la morte della sua Primrose.
Il
vecchio si dimostra davvero dispiaciuto per la recente perdita che ho subito,
per la perdita della mia sorellina. E non è una perdita facile da affrontare,
lo capisce. Sa cosa si prova. Io non voglio crederci, non voglio credere ad una
sola parola di ciò che esce da quelle orrende labbra. Lui non può sapere cosa
sto provando, non può sapere cosa sta provando mia madre, che si è immersa
totalmente nel lavoro per affogare il suo dolore e non ha nessuna intenzione di
occuparsi della figlia uscita di testa che le è rimasta. Per questo è Peeta a
prendersi cura di me. Lui e Haymitch, ma lui non l’ho ancora visto da quando
sono qui. È troppo ubriaco per mettere anche solo il naso fuori dalla sua
camera.
Il
vecchio è dispiaciuto per la morte di Primrose. E per Lilac, invece? Non si è
pentito di aver permesso che l’Edizione della Memoria andasse avanti nonostante
la presenza di Lilac? Non ha rimorsi per aver lasciato che la sentissi morire
dentro di me?
-
Uno spreco del tutto inutile. Chiunque poteva capire che a quel punto la
partita era chiusa. In effetti, stavo proprio per dichiarare ufficialmente la
resa quando loro hanno sganciato quei paracadute – aggiunge subito dopo.
La
sua frase mi confonde, ma lui seguita a parlare e non mi dà il tempo di
assimilare ciò che ha detto. Mi spiega, invece, cos’è che voleva dire: l’ordine
dei paracadute, l’attacco esplosivo, non veniva da lui. Non veniva da Capitol
City. L’hovercraft che li ha sganciati aveva l’effigie di Panem, ma chi lo
pilotava non faceva parte delle loro forze. A Capitol City non c’erano più
hovercraft da settimane. Gli unici ad averli, ed io lo sapevo bene, erano le
forze dei Ribelli, le forze del Distretto 13. Le forze dell’attuale presidente
Coin. Ho visto decine di hovercraft identici nell’Hangar del 13 quando ero lì…
Possibile
che quest’uomo, questo vecchio, mi stia rivelando la verità?
Snow
continua. Tossisce, sputa altro sangue rosso sul suo fazzoletto bianco che non
è più bianco, ma continua. Mi dice che l’attacco dei paracadute è stato
trasmesso in diretta televisiva, che in qualche modo dietro a tutto doveva
esserci la mano di Plutarch, la mano di uno Stratega, e che da quel momento in
avanti anche i bruscolini di lealtà che gli erano rimasti sono caduti, sparsi
nel vento della tempesta. Dice che la Coin doveva aver avuto da sempre come
obiettivo non quello di liberare il popolo di Panem dall’oppressione di un
presidente opprimente, ma quello di essere lei stessa l’artefice di quella
oppressione. Dal 13, ha mosso le sue carte per arrivare esattamente a questo
punto. Non aveva, però, messo in conto la mia gravidanza, la morte della mia
Lilac, la morte di Primrose e la morte di tantissimi altri bambini. Non li
aveva messi in conto e, da un lato, non le è importato. Gli abitanti del
Distretto 12, quelli del Distretto 8, la morte della maggior parte dei
vincitori. La morte di Finnick… pochi ed insignificanti bruscolini, in
confronto alle altre migliaia di vite che sono sopravvissute, ma in realtà non
lo sono affatto.
Vittime
sacrificabili, vittime impreviste. Vittime che non contano nulla, se
l’obiettivo finale è il potere.
-
…dopotutto, fu il 13 a dare inizio alla ribellione che portò ai Giorni Bui.
E in seguito abbandonò gli altri distretti quando le cose gli si rivoltarono
contro. Ma io non prestavo attenzione alla Coin. Tenevo d’occhio lei, Ghiandaia
Imitatrice. E lei teneva d’occhio me. Temo che siamo stati presi in giro
entrambi.
-
Non le credo – queste sono le prime parole che gli rivolgo da quando
sono qui. Le prime parole, e le uso per negare tutto ciò che ho ascoltato
finora. Sono troppe informazioni da assimilare, da comprendere. È assurdo
pensare che questo vecchio malato possa davvero avere ragione.
-
Ah, mia cara signorina Everdeen. Pensavo che fossimo d’accordo di non
mentirci l’un l’altro – aggiunge, scuotendo la testa. È deluso da me. –
Tenga, per lei. Ne raccolgo una al giorno proprio per potergliela regalare.
Sono felice che mi abbia raggiunta oggi: questo bocciolo è il più grazioso di
tutti.
Con
timore, con lentezza, prendo con la punta delle dita il lungo stelo della graziosa
rosa che, a suo dire, ha raccolto per me. Non ha spine, lo stelo della rosa
rossa che l’ormai ex presidente Snow mi sta donando. Il rosso scuro dei petali
appena schiusi emana un profumo meraviglioso: il vero odore che dovrebbe avere
una rosa. Non è quello artificioso, chimico, stomachevole che si sente sempre
addosso al vecchio.
E
capisco, grazie a questo odore, che è tutto vero. Non mi ha mentito, non ha mai
avuto l’intenzione di farlo. Snow ha questo strano modo di comunicare con me
attraverso le sue rose, e la sua rosa mi sta suggerendo di credergli.
Snow
non ha ucciso mia sorella.
La
Coin ha ucciso mia sorella.
-
Dove hai preso quella rosa? – chiede Peeta quando torno nella camera che divido
con lui.
-
Me l’ha donata Snow – rispondo.
La
rosa è rimasta sul mio comodino per giorni, immersa in un bicchiere d’acqua. La
osservo aprirsi, sbocciare, diventare un fiore splendido, e la vedo appassire.
Un petalo è già caduto sul legno quando Gale bussa alla porta.
L’ho
chiamato io. Ho chiesto io di vederlo, di distoglierlo dai compiti in cui è
immerso per venire qui a parlare con me. Ho bisogno di sapere se ciò che mi ha
rivelato Snow sia vero, che non mi ha giocato un brutto tiro per approfittare
del debole stato in cui si trova la mia mente, e non saprei a chi altri
rivolgermi oltre a lui. Gale è mio amico, Gale continua a far parte
dell’esercito dei Ribelli vincitori, ed anche se era stato catturato quando i
paracadute sono esplosi, in seguito può aver appreso le nozioni che a me
mancano. Le ho in realtà, le nozioni, ma non so se siano giuste.
Ed
oltre a quelli che Snow ha instillato nella mia mente, c’è un altro tarlo che
mi affligge e che non riesco a scacciare. È un tarlo che potrebbe rivelarsi
vero. È un tarlo che potrebbe avere già una risposta. È un tarlo contenuto
nelle domande che feci a Gale in preda all’ira.
Quindi
è questo che fai quando parli con Beetee? Prepari trappole mortali per le
persone? Decidi qual è il modo più orribile per ucciderle?
Ho
bisogno di sapere se le risposte giuste sono quelle che mi ha già dato Snow.
Gale
entra, si chiude la porta alle spalle, ci si appoggia contro con la schiena.
Non si avvicina, resta a guardarmi dalla porta mentre io sono dall’altra parte
della stanza, seduta su una poltrona dall’imbottitura dorata in tema con tutto
il resto. Ho la rosa vicino: la rosa che potrebbe rappresentare la verità o la
menzogna, contro la verità e la menzogna che potrebbero venir fuori dalla bocca
di Gale.
-
Cosa succede, Catnip? – domanda Gale. Il grigio dei suoi occhi è scuro,
tenebroso. Sono gli occhi di un uomo tormentato?
Glielo
dico, cosa succede.
-
Ho paura che le bombe che hanno ucciso Prim siano quelle che hai progettato
insieme a Beetee.
Gli
occhi tormentati di Gale mi forniscono la risposta che, forse, non volevo
davvero conoscere. Ma la risposta non è formulata nel modo in cui mi aspetto
che lo sia.
-
Non lo sappiamo – dice. – Voglio dire, il sistema di innesco è quello che
abbiamo ideato insieme… ma quelle bombe noi non le abbiamo mai costruite.
-
Ma qualcun altro lo ha fatto al vostro posto – dico.
-
Non lo so, Katniss, non lo so – scuote la testa. – L’unica cosa che so, è che
avrei dovuto prendermi cura della tua famiglia – le lacrime scendono dai suoi
occhi grigi e tormentati.
Osservo
il volto di Gale e capisco cos’è accaduto. Capisco cos’è che sarebbe dovuto
accadere. Ai miei occhi, Gale si sarebbe dovuto trasformare nel carnefice che
non merita di diventare. Ai miei occhi, Gale si sarebbe dovuto trasformare nel
capro espiatorio sostitutivo su cui far ricadere la colpa per la morte di Prim.
Ai miei occhi, Gale non potrà mai diventare nulla di tutto questo: avrà anche
progettato l’innesco, ma se dice che la bomba non l’ha mai costruita, allora
gli credo. Perché Gale mi guarda sempre negli occhi quando parla, e non
distoglie mai lo sguardo da quello del suo interlocutore. Lo fa solo quando
mente.
E
ora non sta mentendo.
-
Hanno usato anche te – mormoro.
-
Chi mi ha usato, Katniss?
La
rosa perde un altro petalo.
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Buonasera ragazzi! Anzi, vista l’ora
forse è meglio dire buonanotte ^^’
Sono passati quasi due mesi dall’ultima
volta che ho aggiornato… spero che non abbiate già dimenticato tutto XD a parte
gli scherzi, mi dispiace davvero molto per questa mia dimenticanza. Devo riuscire
a migliorare per i pochi aggiornamenti che rimangono ancora… già. Siamo quasi
agli sgoccioli.
Ma non vi dirò ancora quanto
manca alla fine :P
In questo capitolo credo di
essere riuscita a racchiudere un po’ tutte le intenzioni che mi ero ripromessa:
abbiamo una Katniss di nuovo confusa e depressa, ferita sia nel corpo che nell’anima
dopo la morte di Prim; abbiamo la “confessione” del presidente Snow, e il tarlo
del dubbio che è riuscito ad instillare nella mente della nostra eroina
riguardo le vere intenzioni della Coin… e soprattutto abbiamo Katniss che non
se la prende con Gale per le bombe incendiarie. *plot twist*
Ci ho pensato moltissimo al
riguardo, anche per quanto riguarda questa parte nella saga originaria: in
fondo io non ritengo Gale il vero responsabile per ciò che è accaduto a Prim.
Voglio dire, va bene aver creato le bombe – il fatto che poi queste avessero come
unico obiettivo quello di fare una carneficina possiamo momentaneamente
metterlo da parte -, ma lui non poteva immaginare che quelle bombe avrebbero coinvolto
anche Prim. Prim, da quel che mi sembra ricordare, non doveva neanche trovarsi
lì davanti casa di Snow. E quindi chi altri, se non la Coin, aveva il potere di
inviarla da quelle parti?
Sono molto curiosa di sapere cosa
ne pensate al riguardo :)
Prima di lasciarvi voglio
ringraziarvi per aver letto la storia fino a qui e per aver recensito lo scorso
capitolo! Grazie mille, davvero :*
A presto!
D.