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Autore: Dorabella27    27/11/2021    10 recensioni
Qualche tempo fa, nel mese di luglio, pubblicai su questa piattaforma un racconto, una one shot cross over ispirata non solo ai personaggi di Ryoko Ikdea, ma anche al mio romanzo preferito, quello che mi ha fulminato sin da quando ero poco più che bambina, tanto da tradurmelo io stessa da sola dal francese, quello che, da sempre, ho associato a Oscar e André, quando immaginavo di vedere addirittura i personaggi dell'anime sbucare tra le inquadrature del film tratto dal libro, visto e rivisto sino allo sfinimento.
La one shot, "Aveva uno scopo", è stata accolta da un insolito favore, e molti mi hanno chiesto, anche in privato, un seguito, in cui ho cercato e cercherò, come spesso faccio, di alternare toni e sfumature. E dunque, ecco qui: la one shot diventa il primo capitolo di una long - non molto long, se mi conoscete bene, ormai - e, di seguito al primo capitolo, che qualcuno di voi conosce già, troverete subito il secondo. Come vi ricorderete, ci troviamo in una mattinata nevosa del dicembre 1782, e, in quel clima ovattato e fatato, il Comandante delle Guardie Reali, Oscar François de Jarjayes riceve una singolare richiesta ...
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: André Grandier, Nuovo Personaggio, Oscar François de Jarjayes, Victor Clemente Girodelle
Note: Cross-over, What if? | Avvertimenti: nessuno
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I - AVEVA UNO SCOPO
 
        Appena entrò nel suo ufficio di Comandante, girò la chiave nella serratura e, con un gesto di impazienza, gettò il tricorno piumato sulla scrivania. Poi, con mani tremanti, senza nemmeno togliersi i guanti di capretto candido, andò allo stipo olandese intarsiato, ne prese un bicchiere e una bottiglia di brandy, e se ne versò una dose generosa, buttandone giù un paio di robuste sorsate, così com'era, in piedi accanto alla scrivania di legno di rosa. A chi l'avesse vista, avrebbe detto che il brandy le serviva per scaldarsi: in effetti, la mattinata di dicembre era gelida. Si sedette alla sua scrivania, posò il bicchiere e, sempre tremando, aprì il primo cassetto, e ne trasse un voluminoso incartamento. Glielo avevano consegnato la sera prima, poco prima che decidesse di tornare a casa, dopo una giornata inutile, di stanche esercitazioni e di nervosismo squallido, in cui era stata ancora più severa del solito con le reclute.
 
        Non aveva osato portarsi a casa quell'ingombrante involto, e così ci aveva pensato tutta la notte: nelle ore di veglia, rigirandosi nel letto, aveva in mente solo quel cassetto, in cui c'erano quei fogli, che in quel pomeriggio buio di dicembre non aveva avuto il coraggio di consultare, e la cui lettura aveva rimandato al mattino dopo, pur sapendo di garantirsi così una nottata infame. Non pregava più da anni, forse da poco dopo la sua Cresima, nonostante la sua presenza alla Messa domenicale nella Cappella Reale fosse sempre puntuale e regolare, come si conveniva al Comandante delle Guardie Reali di Sua Maestà il Re Cristianissimo, e nonostante si comunicasse anche, nelle festività di precetto; pure, quella notte, da qualche recesso della memoria, le salirono alle labbra le parole dell'Ave Maria, e le aveva sussurrate, turbata e sconvolta, consapevole anche di non avere, lei, forse nemmeno  il diritto di chiedere.
 
Del resto, era tutta colpa di André: da quando, quella sera, alla taverna, le aveva ricordato che gli elenchi dei caduti e dei dispersi in guerra sono pubblici, e vengono periodicamente aggiornati, era stata presa dalla smania di controllarli; e ora, ogni tre mesi, l'attendente del generale Bouillet le consegnava un faldone che Oscar leggeva con il respiro rotto e un senso di vertigine crescente, sino a quando, arrivata all'ultima riga, una volta appurato che il nome di Fersen non c'era, si accasciava sulla sedia, stremata come dopo una marcia sotto il sole o dopo un duello particolarmente impegnativo.
 
        Certo, poteva accadere che il nome di qualche caduto non risultasse negli elenchi, perché il corpo era irriconoscibile, per esempio: nella sezione della biblioteca di Palazzo Jarjayes sull'America del Nord, sempre più nutrita, da quando aveva dato ordine di acquistare tutti i libri pubblicati sul tema, aveva letto con raccapriccio delle pratiche di guerra dei nativi di quel continente, di come trattassero il corpo del nemico vinto, della pratica di "prendere gli scalpi"... Leggeva la notte, di nascosto, nel suo letto, al lume della candela, per timore che qualcuno la vedesse così stravolta e impaurita; leggeva tremando, interrompendosi più volte lungo una stessa pagina per l'ansia e il disgusto, prendendo fiato e pregando che a lui non toccasse mai nulla di simile; del resto, si rassicurava, forse il nome di un soldato semplice poteva anche sfuggire ai solerti rilevatori dell'esercito francese; ma quello di un ufficiale, e quello di lui, poi, no, di certo, quello non poteva sfuggire.
        Si ripeteva che lo faceva per la sua Regina, perché, se quel nome fosse comparso nell'elenco dei caduti, avrebbe voluto comunicarglielo lei, con la dovuta delicatezza. Ma sapeva anche che quella era una sciocchezza, che si stava raccontando una storia,  e che non era in questo diversa da quelle donne che hanno un rapporto molto fantasioso e libero con la realtà: ne aveva viste tante, nei suoi anni a Versailles! Donne, anche sensibili e intelligenti, che si raccontano sciocchezze, che vivono ingannandosi in maniera più o meno consapevole, credendo -  volutamente e tenacemente - che il loro marito le adori, che il loro innamorato sia loro fedele, che se l'amante lontano non scrive loro periodioche lettere piene di passione dalla Martinica sia solo perché è tanto occupato nelle piantagioni di famiglia, e non certo perché si sta godendo la compagnia di seducenti creole dalla pelle profumata.... Del pari, Oscar sapeva bene che quello che lei definiva mentalmente uno "scrupolo gentile" per la sua Regina non aveva senso né ragione di esistere: da quando, infatti, l'anno prima, era nato il Principe ereditario, il Delfino Joseph, Sua Maestà sembrava avere completamente dimenticato il suo rovinoso amore per Fersen, e sembrava essere ormai completamente dedita ai suoi doveri di madre, del futuro sovrano e della Francia. Vedendola con i figli, osservandola giocare con Madame Royale e coccolare il piccolo Delfino, così serena e felice, così lontana dai tormenti del suo sentimento clandestino per Fersen, Oscar si sentiva rincuorata: era giusto che Maria Antonietta assaporasse finalmente, dopo oltre dieci anni in Francia, un assaggio di quella felicità che la corte le aveva negato per troppo tempo. Ma, insieme, quando prendeva per mano Madame Royale o le insegnava i primi passi di danza, si sentiva stringere il cuore in una morsa di ghiaccio. Non voleva indagarne il motivo, non voleva fare chiarezza nei suoi sentimenti, non li voleva conoscere: voleva ignorarli, questo sì, e, non potendolo fare, li subiva.
 
        Quella mattina, dopo aver letto l'ultimo nome sull'elenco, tirò un sospiro di sollievo, chiuse il faldone, e poi si prese il volto fra le mani. Per effetto della tensione accumulata, si mise a piangere. Piangeva, perché era sollevata, e perché immaginava la tensione bruciante che, di lì a tre mesi, avrebbe ancora provato, e si chiedeva perché, perché, perché mai dovesse essere condannata a piangere, lei che odiava sentirsi il volto bagnato di lacrime e farsi vedere con gli occhi lucidi, perché la sua vita doveva essere una sequela di giornate tutte ugualmente grigie, inframmezzate, ogni novanta giorni, da una scarica di paura, di ansia, di fiato corto, e, insieme, dalla preghiera che tutto continuasse così, con Fersen vivo, ma lontano; lontano, ma vivo; non morto, no, non ferito, no; vivo e vegeto, sano, ma lontano, così da risparmiarle il tormento di vederlo, di essere per lui solo un amico con cui tirare di spada, bere, giocare a scacchi, parlare di libri...prima di vederlo salire a cavallo per andare da lei.
 
Il bussare di nocche discrete la fece riscuotere. Si ricompose e aprì la porta: Girodelle le rivolse un saluto impeccabile e le lanciò uno sguardo velato di curiosità, diretto soprattutto alle mani ancora guantate, mentre la ragguagliava brevemente sulle necessità della giornata: "Madamigella Oscar, la nostra presenza è richiesta in Place de Vosges: sembra che in un duello un nobiluomo sia rimasto gravemente ferito".
 
"Che cosa insolita. Se è stato un duello regolare, non serve la nostra presenza. E se davvero lo sconfitto è stato ferito gravemente, potremmo arrivare dopo la sua morte. A che pro, dunque? La legge, in ogni caso, protegge il vincitore".
 
"Ecco, Madamigella, il medico che ha assistito al duello ha pregato di farvi pervenire questo", e così dicendo Girodelle consegnò nelle mani di Oscar un biglietto ripiegato a metà, su cui erano vergate poche parole, disordinatamente svolazzanti, evidentemente scritte da una mano malcerta o che poggiava su un sostegno instabile.
Oscar lesse in fretta, con aria grave, poi, ripiegò il foglio, lo mise nella tasca interna dell'uniforme e disse solo: "Andiamo".
Uscirono insieme dall'ufficio, il passo non affrettato, ma deciso.
"André, prepara i cavalli: dobbiamo andare in Place de Vosges", disse asciutta, appena messo piede nella piazza d'armi.
"Che è successo Oscar?", chiese André, mentre montavano a cavallo.
"Il visconte di Valmont è stato gravemente ferito in duello e ha chiesto al medico che ha presenziato allo scontro di convocare il Comandante delle Guardie Reali", e così dicendo trasse dalla tasca il biglietto e lo porse ad André, che lo scorse in fretta.
"E per quale motivo dovresti accorrere in Place de Vosges?".
"Non lo dice".
"Se il duello è regolare, la legge non ha voce in capitolo"
"Infatti, André: dunque non mi spiego il motivo di questa richiesta. Ma, poiché il medico sostiene che il ferito sia intrasportabile e ha chiesto esplicitamente di me, credo che sia mio dovere andare sul posto".
Dalla mattina presto la neve cadeva a intermittenza. Una volta arrivati a Place de Vosges, però, i fiocchi turbinavano fitti e soffici nel vento: sarebbe sembrato un paesaggio da fiaba, se non fosse stato per la lunga scia di sangue che imbrattava la neve. Semiriparato sotto un arco del porticato che correva lungo il perimetro della piazza, il visconte di Valmont giaceva, sostenuto dal suo staffiere. Accanto a lui, il medico, e un giovane con il mantello nero e la croce dell'ordine di Malta, in lacrime. I due padrini, discretamente, si tenevano in piedi, poco distanti. Non molto più lontano, un prete, che aveva appena dato l'estrema unzione al moribondo, osservava la scena, tenendosi il breviario stretto al petto con entrambe le mani.
"Siete arrivata", mormorò in un soffio Valmont. Il volto era già scomparso, ma gli occhi erano ancora vivi, ed erano la sola cosa che si era mossa quando Oscar si era avvicinata. Sul panciotto bianco il sangue aveva lasciato una brutta chiazza e, come il medico le sussurrò all'orecchio prima che si chinasse sul ferito, continuava a scorrere, benché rallentato dal freddo della mattinata invernale.
André e Girodelle si erano tenuti a qualche passo di distanza.
"Visconte de Valmont", mormorò Oscar, sfiorandogli il petto con la mano.
"Comandante de Jarjayes", sussurrò lui, e pronunciare quelle poche sillabe gli fece uscire un fiotto di sangue scuro dalla bocca. Oscar si tolse di tasca un fazzoletto di lino ricamato e gli tamponò le labbra. "State tranquillo". Accanto a lei, il giovane in mantello scuro piangeva sommessamente, tirando su col naso: "Io non volevo, visconte...."
"È facile piangere, adesso!", sibilò in tono severo lo staffiere di Valmont, indirizzando al ragazzo uno sguardo protervo, in cui si mescolavano ira e rimprovero.
"Lascialo stare, Azolan", sussurrò Valmont, facendo uscire quelle parole di bocca con gran fatica, sorretto ormai anche da Oscar, i cui capelli biondi gli ricadevano sulla fronte e gli sfioravano la fronte e la bocca insanguinata. "Lascialo stare: non è colpa sua. Anzi...Colonnello, per favore, io non riesco più a muovere le braccia, ma voi potreste mettere una mano nella tasca interna della mia marsina? A sinistra...."
Oscar, con delicatezza, mentre il medico e Azolan la aiutavano a sostenere il ferito, che si lamentava piano per quel minimo cambiamento di posizione, frugò nella tasca interna. Ne trasse un fascio di lettere, legate da un nastro di pizzo bianco, e tutte insanguinate.
"Venite, Danceny", sussurrò Valmont. Il ragazzo si avvicinò. "Colonnello, consegnategli le lettere".  Oscar obbedì.
"Fatene quello che riterrete più opportuno, Danceny. Ma sappiate che in questa faccenda noi siamo stati manipolati da una intelligenza molto più sottile e malvagia della nostra, una intelligenza per cui siamo stati tutti sempre e solo pedine sacrificabili". La lunga frase lo aveva sfiatato, e le ultime sillabe vennero pronunciate fra colpi di tosse e fiotti di sangue. Il fazzoletto con cui Oscar gli ripuliva la bocca era ormai un'unica macchia rossa. 
Il Cavalier Danceny si allontanò, e poi, dopo pochi passi, incassò la testa nelle spalle e cominciò a piangere senza ritegno; Girodelle, senza una parola, coprì la distanza di due passi che li separava e gli passò un braccio sulle spalle, mentre il ragazzo continuava a versare lacrime con il volto sul suo petto.
André osservava immobile, ricordando l'ultima volta - la sola volta - in cui, non senza provare antipatia per lui, aveva seguito con lo sguardo Valmont insieme a Oscar: era il tardo pomeriggio di una calda giornata di maggio, al calar del sole, e Oscar e il visconte avevano percorso fianco a fianco un lungo tratto dell'Allée d'Apollon[1].
Valmont, con le ultime energie, volse lo sguardo sopra di sé, incrociando gli occhi color fiordaliso di Oscar, china su di lui: "Chi avrebbe mai detto che sarei morto fra le braccia di una donna tanto bella...", e scontò quell'estrema, malinconica galanteria con due colpi di tosse sanguinolenta.
Poi, fattosi serio, sussurrò, il volto vicinissimo a quello di Oscar: "Colonnello, voi dovete andare al Convento di Santa Margherita, e chiedere di Madame de Tourvel. È malata, sta morendo: per colpa mia. Dovete andare da lei e dirle che non so spiegarle per quale motivo io l'abbia allontanata da me, ma che da quando ho rotto con lei la mia vita non ha più avuto alcun senso. Lo farete?".
Oscar annuì. Pochi secondi dopo, il Visconte di Valmont chiudeva serenamente gli occhi.
Oscar si allontanò, turbata, insieme con André, dopo aver scambiato un veloce cenno con Girodelle.
"Vieni, Oscar", disse André, mettendole il suo mantello bordato di volpe bianca sulle spalle, e assicurandosi che il cappuccio le coprisse i riccioli biondi già umidi.
"Che spreco!", disse, lei, rompendo il silenzio; ma fu subito rimbeccata da André, che aveva osservato dolcemente: "Aveva uno scopo. Cosa che si può dire di poche persone, al mondo".
"Dobbiamo andare al convento di Santa Margherita", disse lei subito dopo, e gli riferì in poche parole l'incarico affidatole.
"Sarebbe interessante capire per quale motivo il più celebre libertino di Parigi abbia scelto proprio il Comandante delle Guardie Reali per portare una simile ambasciata", disse André, senza ottenere risposta. Oscar non parlò per tutto il tragitto, e André capì che, per quanto egli fosse tutt'altro che un uomo loquace, aveva perso una buona occasione per tacere.
Il convento era un'oasi di silenzio nel chiasso di Parigi. Furono fatti entrare e, dopo che Oscar ebbe bisbigliato poche parole all'orecchio della suora della foresteria, una piccola monaca pallida, dall'età indefinibile e dall'espressione soave, li guidò lungo un dedalo di corridoi freddi e spogli.
Mentre li percorrevano, Oscar si guardò le mani, e si accorse di avere ancora i guanti, completamente chiazzati del sangue di Valmont. Li tolse con delicatezza e li infilò nella tasca interna dell'uniforme.
Una volta entrati nella cella occupata da Madame de Tourvel, André restò sulla soglia, mentre Oscar, non senza una piccola esitazione, che solo lui colse, si fece coraggio ed entrò. La giovane donna giaceva supina, la schiena magra e nuda ricoperta dalle coppette delle vescicazioni applicate da due monache zelanti. La piccola suora che aveva guidato Oscar fin lì disse loro qualcosa che né lei né André colsero, tanto sottile fu il suo sussurro, ma tutte e tre dopo un attimo uscirono, dopo aver salutato con un profondo inchino Oscar, e con un lieve cenno del capo André. 
 
        Oscar si chinò sul viso di Madame de Tourvel, che era stesa col capo piegato sulla guancia destra, gli occhi semichiusi, le palpebre delicate, di un rosa diafano segnato da venuzze azzurre, e le guance estenuate.
 
        Oscar sussurrò: "Madame de Tourvel, vengo a portarvi un importante messaggio per conto del Visconte de Valmont". Lo sguardo di Madame de Tourvel si rabbuiò, e la testa ebbe un piccolo scatto, come a significare che, se avesse potuto muoversi liberamente, si sarebbe ritratta e se ne sarebbe andata via senza ascoltare oltre; ma Oscar - André sbalordì osservandola - le fece una carezza sulla guancia e le mormorò qualcosa all'orecchio. Allora, la donna atteggiò le labbra a un lieve sorriso e disse qualcosa, che André non colse. Poi, Oscar mise una mano nella tasca interna dell'uniforme e ne trasse i suoi guanti, che lasciò accanto al volto di Madame de Tourvel. Le fece un muto cenno di saluto, e poi tornò verso di lui: era il riflesso delle candele che illuminavano la stanza oppure i suoi occhi color cielo erano umidi di lacrime?
 
Appena fecero due passi fuori dalla cella, le due suore che assistevano Madame de Tourvel rientrarono, chiudendosi subito la porta dietro le spalle, mentre la piccola monaca sorridente che li aveva scortati all'andata, e che li aveva attesi, li ricondusse all'uscita.
 
Erano appena montati a cavallo per ritornare a casa, quando sentirono i rintocchi a morto della campana della piccola chiesa annessa al convento.
Si guardarono senza dirsi nulla. La neve continuava a cadere, sempre più fitta.
 
Lei alzò gli occhi al cielo grigio e senza luce, da cui piovevano quei fiocchi candidi.
 
"A che cosa stai pensando, Oscar?", chiese André.
 
"Penso che fra una settimana sarà Natale", rispose lei.
 
"È anche il tuo compleanno", aggiunse lui in un soffio.  E se ne pentì subito, perché  sapeva che Oscar non amava festeggiare compleanni e ricorrenze. Ma, inaspettatamente, lei rispose: "È vero, André. Sai che non ci penso mai?". E poi, dopo una lieve esitazione: "Che ne pensi, se nella mia licenza natalizia andassimo ad Arras? Sotto la neve, deve essere incantevole!". Poi, senza aspettare la sua risposta, diede di sprone e si lanciò in avanti.
E André pensò che, forse, quel Natale del 1782 sarebbe stato davvero memorabile.
 
[1] Cfr. la mia prssima ff...in cui si chiarirà tutto.
   
 
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