Storie originali > Storico
Ricorda la storia  |      
Autore: Cladzky    27/11/2021    1 recensioni
Gli ultimi pensieri del primo uomo nello spazio, dalla sua infanzia, alla sua morte, all'ascesa.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Il Novecento
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Sapevo già che la mia tomba sarebbe stata una fusoliera sin da quando mi alzai in volo sulle fresche pianure di Saratov. Oltre la carlinga del Yakovlev la Volga pareva un taglio insaguinato fra i dorati campi di cereali, che si rimarginava con ogni metro in più nell’altimetro. Volando verso nord potevo scorgere alla mia destra, levarsi indistinti nella foschia, macchie scure sulla linea spumeggiante di nuvole all'orizzonte, i monti Urali. Mi sforzavo di guardare verso sinistra allora e sapevo che la natìa Klušino fosse lì da qualche parte, ma si perdeva fra le steppe che si appiattivano sempre di più, in una massa indistinta di chilometri racchiusi in millimetri di prospettiva. Più in alto, mi dissi, dovrei andare più in alto, dove la terra non mi parrà più un tavolo da biliardo, ma una luna bagnata in eterne notti di dicembre. Poi l’istruttore ringhiava. Dovevo pur far atterrare  l’apparecchio o non ci sarebbe stato carburante sufficiente per tornare indietro. Certo, pensavo invertendo la rotta e spingendo la cloche, inclinando il muso di lamiera verde bronzo, è dura salire così in alto. Se neppure i cigni d’irlanda e i grifoni di Rüppell possono alzarsi oltre gli undicimila metri, a raschiare il bordo della troposfera, dove l’aria si fa rada, il cielo cobalto e le nuvole cirri, come poteva una scimmia scampare alla gravità che da ere la incatenava nella sua culla?

Sembrava che gli auspici di Ciolkovskij fossero caduti nel vuoto, lo stesso vuoto in cui galleggiava la terra, ma non vagarono a lungo che in neanche un decennio furono buscati dai tedeschi e le loro V2. Ma anche questo non bastava. I missili balistici con cui potevano deturpare Londra non potevano comunque raggiungere la velocità di fuga necessaria per sganciarsi dall’attrazione gravitazionale terrestre. Gli americani rubarono poi i loro razzi, i loro scienziati e gli prese lo sghiribizzo di fare foto dallo spazio. Quelle immagini di una piana bianca su sfondo nero circolarono per tutto l’autunno del ‘46 anche al di qua della cortina di ferro. Avevo appena dodici anni, i miei fratelli erano freschi dei lavori pesanti in Polonia sotto la svastica e avevo finalmente ripreso la scuola media nelle più calde terre di Gžatsk. Se ora cercaste quella verde cittadina, fatta di canne in riva al fiume e betulle a bordo strada, non la trovereste più sulle mappe, perché fu rinominata unanimamente Gagarin nel 1968. Un gesto di ridicola idolatria e mancanza di personalità propria, se volete il mio parere. E insomma, in un modo o nell’altro quelle foto trovarono il loro spazio sui giornali e furono in molti, nei grandi, a vedere la possibilità che presto, quelle V2, sarebbero passate da macchine fotografiche a vettori di bombe atomiche. Non sbagliarono affatto, ma non era mio interesse pensarci. All’epoca poteva solo affascinarmi che finalmente gli umani avessero trovato un modo per infrangere la barriera di dio. Quelle immagini non avevano nulla di naturale: la terra era illuminata a giorno, in un oceano ribollente di nuvole, eppure, il cielo là dietro, era nero come inchiostro. Attraverso quella stampa a bassa risoluzione io avevo una finestra su milioni di uomini, congelati nell’istantanea di una foto e troppo piccoli a vedersi a cento chilometri e passa di altezza, dove appena l’ombra di una catena montuosa era distinguibile. Incredibile che io debba ringraziare i tedeschi invasori, perché se mai scelsi la strada verso lo spazio lo devo alla loro tecnologia che mi aprì gli occhi sul possibile. 

Ma leggendo l’articolo mi rimaneva sempre un senso d’insoddisfazione: il razzo si era schiantato rovinosamente a terra in completa caduta libera. Tutti quei litri di carburante erano solo riusciti a tenerlo a galla il tempo necessario per scattare quelle foto prima di distruggersi. Era sbagliato proprio il metodo, mi dicevo. Se io prendessi un arco e lanciassi con tutte le mie forze una freccia verso l’alto questa ricadrà comunque a terra, senza che io possa manovrarla come desidero una volta che la scocco. E lanciare costosi razzi solo per distruggerli al rientro non era poi così dissimile. Abbiamo archi e frecce contro dio, non avevamo speranza. In questo momento di confusione io stringo una cloche, che ora non risponde, ma se non si fosse guastata mi permetterebbe di inclinare gli alettoni del mio Mig come desidero. Ma questo è solo possibile perché esiste l’aria con cui fare attrito e quando da bambino mi feci insegnare la sua completa mancanza oltre l’orbita terrestre, finalmente capì perché era così difficile trovare un modo di scappare dal pianeta. Avevo sempre considerato ogni volatile, dal più grazioso stormo di rondini al più grosso piccione, come un essere libero di spaziare dove voleva, ma più apprendevo e più la terra si sentiva stretta come una boccia di vetro. Guardavo il cielo e mi pareva di soffocare, di sentire un grosso occhio beffardo sopra di me, di una terra carceriera, una sant’Elena su cui si nasce già esiliati dal resto dell’universo. Fu un sentimento che mi portai dietro per tutta la giovinezza. 

Tentai invano di lasciare andare quelle sensazioni opprimenti iscrivendomi a un aeroclub, ma anche a bordo di biplani e monomotori da residuato bellico la magia era incompleta. Sempre il cielo era una cupola persistente sopra di me. Non importava se sfrecciavo a duecento, duecentocinquanta chilometri orari, sempre sulla terra rimanevo. Lo trovai comunque preferibile che rimanere coi piedi al suolo, sulla maledetta terra su cui erano morte tutte le forme di vita che vi erano mai nate sopra. Mi faceva ribrezzo pensare a un sistema talmente chiuso, come sotto la lente di un microscopio. Io non ero un ameba, non sarei rimasto nella mia boccia di vetro asettica, sarei scappato e avrei contaminato lo spazio esterno. Ma come? Non vi era soluzione: ogni singolo oggetto che l’uomo sputava al cielo gli tornava in faccia come un ammasso di ferraglia, novello Icaro. 

Ma ecco finalmente, che quando gli americani e i tedeschi tacquero, Korolëv parlò. L’ingegnere, idolo di qualunque meccanico, genio del nostro secolo, espose alla nazione la sua idea. Avrebbe inviato una sonda nello spazio, ma non solo. Questa non sarebbe rimasta attaccata al suo vettore, come le apparecchiature precedenti, ma si sarebbe sganciata fino a rimanere sospesa in un’orbita attorno la terra. Pareva una follia da Jules Verne, eppure quella stella cadente tracciò un tragitto all’incontrario sopra i cieli del mondo. Il suo nome era Sputnik, era il 4 ottobre del 1957 e il primo satellite umano stava ora circolando a bassa quota sopra ogni continente, irraggiungibile. Era scappato alla gravità e ci sarebbe rimasto per oltre tre settimane. Quel pazzo di Korolëv era riuscito ancora una volta a trasformare i sogni di Verne, Wells e Salgari tutti insieme in una realtà, quella in cui vivevo. Credevo, come molti, che i viaggi spaziali sarebbero rimasti inaccessibili all’uomo ancora per molte generazioni, che sarei morto, come un babilonese sulla ziggurat, solo sognandolo il cielo esterno, ritenendole fantasie da cinematografo e ora non ero mai stato più felice di essere smentito. 

E presto cominciarono i preparativi, si diffuse la notizia. Servivano non più vettori, non più sonde o computers o carburanti. Servivano uomini. Uomini disposti a chiudersi in abitacoli stretti e attutiti come uova ed essere lanciati oltre la barriera del suono fuori dalla nostra atmosfera. E potevo non provare? Certo, forse l’incidente di Valentin Bondarenko avrebbe dovuto farmi desistere. Se l’aviazione non poteva garantire la nostra sopravvivenza a terra come avrei potuto fidarmi che non sarei morto durante l’ascesa? Ma non avrei mai voluto avere rimpianti, di diventare vecchio senza aver dato una sbirciata allo spazio e di certo non mi saziavano le foto che la missione Luna 3 aveva raccolto del lato oscuro di Selene, anzi, aumentavano la mia voglia di andare lassù di persona. Con oltre duecento ore di volo e le mostrine da tenente, venni considerato sufficientemente idoneo per essere selezionato insieme ad altri compagni. Mi portarono cinquecento chilometri a nord-ovest, ad allenarmi presso l’aerodromo di Khodynka, nei sobborghi di Mosca, e lì, nel massacro delle eliminazioni, dei lanci col paracadute, le corse e le vasche olimpioniche, conobbi Alexei Leonov e Gherman Titov. Senza di loro non sarei mai resistito agli esperimenti di rimozione dell’ossigeno e le camere anecoiche. Ma fra noi tre venni scelto io per la missione Vostok 1. Mi sentì quasi in colpa ad accettare questo incarico dopo tutto ciò che avevano sacrificato. Era così che ripagavo il loro supporto? Ma non dipendeva da me. E forse, nessuno osava dirlo, erano quasi sollevati di non essere loro i primi uomini nello spazio. I loro turni sarebbero arrivati più tardi e io non ero altro che una cavia per aprire loro la strada in maniera sicura. Dopotutto erano ben più competenti di me e preziosi per l’’unione sovietica. Mi venne il dubbio. Che il mio incarico fosse destinato a fallire? Che fosse fatto solo per misurare ogni errore da correggere per i successivi? Sarei rientrato nell’atmosfera in un ammasso informe come lo Sputnik? 

Venne il giorno. Non potevo più scappare ormai dal mio destino che mi ero fatto in preda all’eccitazione. Fui condotto al cosmodromo di Bajkonur. Fui rinchiuso nell’abitacolo compresso in cima al vettore. Fui lanciato. Fui pilotato per radiocomandi. Nulla dipendeva da me, ero sballottato in giro senza poter influire minimamente sul mio viaggio. Ero stato addestrato solo a sopportarlo, non condurlo. Quantomeno significava che avevo tutto il tempo di guardare fuori dal mio abitacolo. Le salite verticali erano decisamente una novità per me. Partendo da terra attraversai l’atmosfera strato per strato. Prima il cielo azzurro, poi le nuvole a diecimila metri e di nuovo un cielo più intenso, cobalto, che sfumava nel viola. Continuai la salita. L'accelerazione gravava sul mio corpo come un ottovolante continuamente in curva. L’inclinazione si fece più accentuata. I muscoli della faccia mi facevano male. Non potevo muovermi anche se fossi stato assicurato al sedile. E poi realizzai. Non ero mai stato così in alto. Ormai ero a ventimila metri, in neanche cinque minuti. Era un cielo che non avevo mai visto. Vidi l’orizzonte bianco, poi, salendo, i fori dei grossi banchi di nuvole. Sotto di me potevo vedere l’intera regione del Kazakistan. Là si levavano, bruni e sfumati, i picchi di Khan Tengri, bianchi di neve che li scambiai per cirri. Da un’altra parte il fiume Ural, scintillante come il riflesso in una pozzanghera. La terra si faceva lontana, l’accelerazione si faceva meno sentire e la curvatura dell’orizzonte si accentuava e poi il cielo si anneriva, sfumando in un’azzurro sempre più tenue. Una luce accecante mi nascose tutto alla vista. Vidi il sole, privo di un’atmosfera che potesse filtrarlo, non giallo o arancio o roseo, ma pallido, seppure tramontava ormai alle mie spalle, verso l’Africa. L’africa? Quando riuscì di nuovo a vedere mi realizzai che non potevo più calcolare in regioni, o nazioni, ma continenti. Ecco sotto di me scorrere delle cime che non riconoscevo. Dalla radio di bordo m’informarono essere l’Hymalaya. Il mio viaggio verso Levante proseguì. M’inoltrai nell'immensa steppa di Barabinsk, sorpassai immediatamente la sua città e proseguì come un pattino sulla transiberiana fino a scorgere l’atteso stretto di Bering e le onde del Pacifico. Non volai sull’Alaska, ma il mio tragitto prese un’improvvisa curva a destra verso Sud. Saltai l’intero continente americano, ma lo potevo vedere lontano nella sua interezza, dal golfo di Juneau, accanto lo Yukon canadese, oltrepassando i fiordi e avvistando le coste dello stato di Washington, le isole di San Juan, i grattacieli abbozzati di Seattle, scendendo giù fino alla California, passando Capo Mendocino e giù fino alle spiagge di San Francisco e la capitale. Se fossi stato appena più vicino avrei potuto riconoscere il Pacific Telephone Building o la Los Angeles City Hall. Si faceva buio, calava il violetto della sera. Ero ormai in orbita a ventottomila chilometri orari. La costa ovest si tinse di nero e apparvero le lucciole delle strade a otto corsie, delle pubblicità, dei cinema, dei teatri e dei campi di baseball. Quindi era questo il capitalismo. Ero in viaggio ormai da un’ora. L’America si fece lontana di colpo quando il Messico s’incurvò verso l’Atlantico e io continuai verso il capo Horn. Nel rumore assordante dell’aria, ovattato dalle spesse pareti della mia capsula, il vettore si era staccato già da un bel pezzo, lasciandomi in caduta libera, senza perdere quota. Avevo raggiunto la velocità di fuga. Ero scappato alla presa avida della gravità. Ero il primo uomo ad essere fuggito dalla terra in un miliardo di anni d’evoluzione. Ero a più di trecento chilometri d’altezza. La terra non era più un piano ma una sfera azzurra, con il pacifico scintillante come il lago Ural che mi ero lasciato alle spalle. Era grande, molto più grande di quanto dei numeri potessero farmene rendere conto. Dodicimila chilometri di diametro sono una grandezza che il tuo cervello può ricordare, ma non comprendere fino a quando non ti allontani abbastanza. Sopra quella roccia bagnata, che girava nel vuoto, era dura credere che vivessero tre miliardi di persone. Pareva un calderone di elementi chimici, coperto di esalazioni bianche che formavano girandole di nubi. Tutt’intorno il niente, solo un sole accecante e altre stelle, a malapena visibili per contrasto. La terra sotto di me era buia, l’ultimo spicchio illuminato spariva verso l’Asia, lasciandomi di fronte un Cile quasi privo di corrente elettrica. Avevo superato l’equatore senza accorgermene, avendo avuto sotto gli occhi solo un oceano e ora mi appariva il suo fratello Atlantico, oltre la stretta porta della Terra del Fuoco e i gelidi monti dell’Antartide. Vedevo il mondo al contrario rispetto a ogni mappa convenzionale. Il Polo Sud era la cima del mondo. E ora inclinavo di nuovo, stavolta a sinistra, sorvolai l’arcipelago argentino e puntai verso Sant’Elena. Buscai l’alba procedendogli incontro, che sbocciava dalle coste del Ghana. Stavo compiendo il giro del mondo in neanche due ore. Fra pochi minuti mi sarei dovuto paracadutare di nuovo in Kazakistan. Le giungle del Congo e le fertili piane dell’Africa Occidentale lasciarono il posto al Sahara, giallo malaticcio. Ed ecco il Nilo, addobbato di verde lungo i fianchi, il mar Rosso e la penisola Araba. Ero ormai sopra il medio oriente. Avevo avuto il piacere di circolare la terra, ma ora l’attrazione stava chiudendo. Perdevo quota. Il bozzolo che mi aveva portato doveva ora schiantarsi come ogni satellite umano e io dovevo cercare di non fare la sua stessa fine. Eppure, quei cento minuti mi avevano cambiato. In quasi trecento ore di volo mai avevo sentito la stessa importanza dell’impresa. Avevo visto dio in faccia. Avevo visto il sole, la luna e la terra come nessun essere umano aveva mai fatto prima. La luna, sì, nella sua perlacea faccia di morte, non l’avevo mai vista così brillante e voluminosa, non un semplice disco nel cielo, ma un oggetto dotato di peso e velocissimo. Era passata sotto di me l’intera madre Russia, sorella Cina, gli Stati Uniti e le sue mai domate Filippine e Cuba, il Venezuela sabotato dalla Cia e le popolazioni incontaminate dei Karajá immersi nei veli dell’Amazzonia, le stesse strade percorse dalla motocicletta di Che Guevara e il Burkina Faso appena liberatosi dei francesi. Sotto di me non avevo nazioni, non c’erano confini disegnati come sulle mappe, nè bandiere, nè statue di generali, di re o presidenti. Solo monti, mari, stelle, sabbia e foreste. Le persone neppure si vedevano e così neanche le loro megalopoli. L’Empire State Building era l’ago in cemento armato d’un pagliaio di roccia. Per la prima volta mi sono reso conto che era tutto un gioco. Non esiste un’unione sovietica, non esiste Chruščёv o Kennedy, non esiste il comunismo. Ai padroni della terra piace pensare a quest’ultima come una scacchiera ma non si rendono conto di star solo giocando con sè stessi. E la terra continua a girare. Anche Titov, Tereškova e Leonov capirono cosa intendessi dire, ma solo quando venne il loro momento. Invidio, in un certo senso invidio che fine fece Komarov, morto giusto alla fine del suo splendido volo. Io invece sono stato portato a vivere altri anni sulla terra, abbastanza da rimpiangere di non aver conseguito altri voli. Ormai ero un simbolo da mantenere su un piedistallo, non un pilota. Non scordai mai quell’estasi ultraterrena che ora mi torna alla mente in questi ultimi attimi. Affronto la morte con calma, la stessa che avevo, di serena fratellanza, quando atterrai nella campagna Kazaka, in mezzo ai contadini. Quel giorno mi tolsi il casco del CCCP e dissi: Sono uno come voi.

Il cielo è molto nero, la Terra è azzurra. Tutto può essere visto molto chiaramente.

   
 
Leggi le 1 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Storico / Vai alla pagina dell'autore: Cladzky