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Autore: time_wings    28/11/2021    0 recensioni
[AtsuHina]
In una città schiacciata dal silenzio e dal suo grigio, basta una sola nota per accendere un colore. Casualità e forza di volontà si scontrano e forse, se si presta attenzione, si riescono a udire le crepe nel muro.
Una storia in cui, alla fine, il silenzio conta tanto quanto la musica.
Nel mezzo si incontrano frigoriferi quasi-parlanti, errori di numerazione, consegne noiosissime, fotografie, cactus, muraglie cinesi, saggi in incognito, soglie da spazzare e spuma di mare.
Hinata suona il violino e Atsumu fotografa solo quello che gli piace.
Genere: Commedia, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Atsumu Miya, Osamu Miya, Shouyou Hinata, Yachi Hitoka
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Fase 3 - contrattazione



“Sì, la borsa la porto domani quando vengo” mormorò Atsumu, infilando le chiavi nel portone e alzando gli occhi al cielo. “Ma è inutile che torno al ristorante, ‘Samu, la consegna è praticamente a casa mia.”
Il suono del portone che si richiudeva, grazie al cielo, rese inudibili le parole di suo fratello all’altro capo del telefono.
“Va bene, ciao.” Osamu disse qualcosa, ma Atsumu allontanò il telefono dall’orecchio, se lo portò alla bocca e disse: “ciao, ciao, cia-cia-cia-ciao” poi riagganciò.
Si avviò all’ascensore, controllò un’ultima volta che l
’ultimo ordine del giorno fosse corretto, poi schiacciò il tasto marcato 5 e ascoltò i piani scivolare sotto di lui.
Cercò la porta 508, poi sollevò due dita, le piegò e bussò con le nocche.
“Sì?” disse una voce dall’interno.
“La cena.”
L’uscio si aprì lentamente e Atsumu incontrò gli occhi del mandarino. Cercò di dissimulare la sorpresa, mentre gli porgeva il cibo, cosa che lui non si disturbò di fare. “Tu sei…”
Atsumu sollevò un sopracciglio. Tu sei il vicino troooppo carino? oppure forse voleva dire: Tu sei quello che mi mangerei prima con gli occhi, poi con la bocca, poi di nuovo con gli occhi?
Invece lui assottigliò gli occhi e accettò il cibo con diffidenza. “Tu sei quello che ha provato a rubarmi la bicicletta!”
“Cosa? Non ho provato a…”
“Sì, invece. Bastava dirmelo, che ti serviva per le consegne. Te l’avrei prestata, non c’era bisogno di rubarla.”
“Fai sul serio?” domandò, notando solo distrattamente che lui gli stava infilando dei soldi nella mano con cui gli aveva porto i sacchetti.
La testa di Yachi, la ragazza che Atsumu aveva conosciuto quando si era trasferita lì, qualche giorno prima, fece capolino oltre l’angolo di un muro. “Oh, ciao!”
Atsumu sollevò una mano, vagamente disorientato, ma Shouyou era già partito con tutti i convenevoli che precedevano un congedo. Era tardino, in effetti, e anche Atsumu aveva fame. Quindi accettò i soldi, sorrise per la mancia e tornò a casa.

 
***
 
Shouyou sbadigliò e tracciò col dito l’orlo della bottiglia di birra semivuota. Aveva una gamba stesa davanti a sé e il braccio che non si era dedicato alla birra era appoggiato su un ginocchio piegato.
Non si era preoccupato di coprirsi la bocca, ma a Yachi era sembrato un gatto più che un maleducato. Hinata aveva un po’ questa cosa. Questa cosa che non sembrava mai maleducato.
“E come ti stai trovando?” stava dicendo lei. Si riferiva all’università a distanza e al fatto che, negli ultimi tempi, non lavorasse più part-time in un negozio di musica. Non era un lavoro complicato e, a essere del tutto onesti, non lo pagavano granché bene, ma a lui piaceva. Non entravano più tante persone, ma quando lo facevano sembrava che a sentire odore di legno e corde di chitarra per la prima volta fosse lui e non i clienti.
Era bello indirizzarli nella sezione che cercavano, era bello vederli impacciati, quando confessavano di voler imparare a suonare e di essere completi principianti, era bello vedere uomini e donne in giacca e cravatta, di ritorno da un ufficio, che facevano vibrare qualche corda di qualche violoncello in un angolo remoto del negozio, era bello vedere i bambini con una mano allacciata a quella dei genitori e l’altra lasciata cascare su un tasto di un pianoforte, uno solo, una nota possente che si allargava nel negozio come perturbazioni nell’acqua.
“Sto dando lezioni di musica online per arrotondare” rispose, sorridendo con gli occhi ancora incollati alla bottiglia. Era ipnotico. “Non sai quanta gente si è trovata strumenti dimenticati in cantina. La noia li sta spingendo a suonare.”
Yachi sgranò gli occhi “Davvero?”
Shouyou rise. Hinata aveva un po’ questa cosa. Questa cosa che anche se prendeva qualcuno in giro sembrava sempre che gli fosse concesso. “Sì, sono tutti scordati.”
Lei rise e radunò i cartoni del cibo perché fosse più facile sbarazzarsene in seguito. Lui osservò quel gesto e si illuminò con un attimo di ritardo.
“La butto io!”
Yachi scosse la testa e agitò forte le mani. “Non devi! Non devi proprio, la butto io domani!”
Ma Shouyou si era già tirato su con un salto e aveva raccolto una busta da terra per radunare cartoni e involucri di vario genere. “Figurati, tanto è quaggiù.”
E aveva ragione, perché in fondo bastava prendere un ascensore e raggiungere il retro del parcheggio. Quindi dopo sorrisi, saluti e ringraziamenti da parte di entrambi (uno per l’ospitalità, l’altra per la questione spazzatura), Shouyou prese le scale e si diresse ai bidoni.
Ovviamente, sulla rampa tra il quarto e il terzo piano, nuovi passi si unirono ai suoi e lo schiacciatore laterale fece il suo ingresso tamarro nel suo campo visivo.
“Oh!” disse Shouyou, maestro di retorica.
Il ragazzo si voltò a guardarlo, la mascherina gli copriva metà della faccia e, per qualche ragione, indossava anche degli occhiali da sole. Alle dieci di sera. Ma a Hinata bastò l’inclinazione delle sopracciglia per capire che doveva indossare un sorriso impietosito, quello di uno che guardasse una creatura molto tenera ma anche molto indifesa, ignara del leone alle sue spalle.
“Ancora tu” aggiunse, perché forse Hinata aveva questa cosa che non sembrava mai maleducato, ma sapeva esserlo.
Impassibile, il ragazzo si strinse nelle spalle e alzò entrambe le mani, quella che reggeva la busta dell’immondizia un po’ più bassa. “Che ti devo dire, ci abito, qui.”
Scesero altre due rampe di scale in silenzio. Il problema di quando ci si ritrovava costretti a percorrere una strada senza scorciatoie con una persona che si detestava, era che la cosa diventava imbarazzante in pochissimo tempo.
“Perché porti gli occhiali da sole, comunque?” domandò Hinata che, davvero, non aveva dimenticato che lo schiacciatore aveva provato a rubargli la bicicletta, ma doveva saperlo!
Il ragazzo si voltò a guardarlo (presumibilmente, era difficile dirlo con solo le sopracciglia come indicatore di espressione), poi sospirò. “Shouyou, giusto?” chiese. Il tono stava dicendo, ‘so che è questo il tuo nome, devi solo confermarlo così che la mia distrazione e il mio disinteresse mi rendano affasciannte’ e Hinata gli sorrise, perché era questo che gli veniva naturale fare quando qualcuno faceva il prepotente.
“Giusto” soffiò, accelerando il passo.
Senza esitare, il ragazzo prese il suo ritmo e anzi lo incrementò appena, come a sfidarlo. “Bene, Shouyou. Io porto gli occhiali perché mi stanno dannatamente bene e, di questi tempi, questo è il massimo sfoggio che posso farne.” A Hinata diede fastidio la maniera in cui disse Shouyou. Sembrava miele e ferro e immaginò le sue labbra arricciarsi attorno alla sh nel suo nome. No, aspettate. Non era questo a dargli fastidio, era la reazione involontaria che aveva innescato.
“Ma sembri un criminale, se non ti si vedono neanche gli occhi.”
“E tu mi sembri un barbone, vestito così, ma mica te lo vengo a dire.”
“L’hai appena fatto.” Shouyou aggrottò le sopracciglia perché non riusciva a capire se questo tizio fosse un idiota o un passo avanti a lui, e la cosa stava diventando frustrante. Il fatto che facesse un commento tagliente prima e che quasi cascasse per le scale perché non vedeva niente poi, non aiutava a sciogliere l’enigma. “E comunque sto portando fuori la spazzatura, non sto andando a una sfila…”
“È questo il problema.”
Shouyou lo guardò. Veramente, non stava capendo. Lo schiacciatore laterale aprì il cancello e si spostò di lato per farlo passare. Galante o ironico? Impossibile dirlo. “Che problema?”
“Che non è la spazzatura, che dovresti portare fuori.”
Passò qualche momento di silenzio. Shouyou aveva sempre questa cosa che non era mai maleducato, ma non si poteva dire che non fosse schietto, quindi alzò un braccio, depositò i suoi rifiuti nel cassonetto e disse: “Ma ci hai appena provato con me?”
Atsumu sospirò e imitò il suo gesto. “No, la verità? Cioè sì, ma no, non mi stai neanche simpatico, sono solo un po’ frustrato” ammise, togliendosi finalmente gli occhiali.
Shouyou sorrise, ma fu attento a non farglielo notare. “Ma poi anche volendo non possiamo andarci, fuori.”
“Sì, lo so.”
“Era una battuta terribile per rimorchiare.”
“Ho capito, puoi non rigirare il dito nella piaga?”
Per la prima volta nella sua vita, Shouyou pensò di essersi sbagliato. Forse era più un opposto. Non ne era certo, doveva pensarci bene, voleva pensarci bene. Era cruciale capire il ruolo di quello sconosciuto.
“Ci si vede in giro” gli disse invece quello, alzando le sue chiavi e facendole tintinnare. Hinata ebbe giusto il tempo di notare un pupazzetto a forma di volpe stilizzata attaccato all’anello di ferro, poi il ragazzo gli fece un occhiolino e lo abbandonò vicino ai bidoni, come se lasciarlo indietro fosse una prova del fatto che l’avesse stregato e imbambolato, fulminato dal suo fascino.
No, era proprio uno schiacciatore laterale.

 
***
 
Rimanete a casa e non uscite e questa non è un’esercitazione e tutta la fuffa degli altoparlanti si era già estinta da un paio d’ore.
Poi era calato il silenzio. Quel silenzio che non era silenzio. Quel silenzio di gomma, feltro, ovatta, mille altri materiali assorbenti. Quello immanente. Quello incolore. Quello che faceva dimenticare perfino alle orecchie di fischiare quel loro inganno più celebre.
Atsumu non udì il sibilo dell’accendino né la brace della sigaretta che si accendeva. Si lasciò cadere con la schiena sul letto e fissò il soffitto spoglio del suo appartamento.
Era uno strazio. Andava tutto alla grande. Era tutto un grande strazio, forse. Soffiò via una nuvola di fumo e pensò che più andava avanti, più quella casa diventava un macello, a partire dal frigorifero. Suo fratello aveva un ristorante in cui lui, tra l’altro, lavorava, eppure il frigorifero di Atsumu era banale – un modo stupido, veramente cretino, di dire che era vuoto.
Atsumu non era depresso. Era troppo figo per essere depresso, troppo fortunato, troppo talentuoso, troppo arguto. Atsumu era tutto l’opposto di depresso, perché aveva la sua vita in pugno e la stava stringendo così forte che stava finendo comunque per colargli fra le dita.
Forse Atsumu era un po’ depresso, ma solo per questa dannata pandemia.
Avreste dovuto vederlo prima: stava un fiore.
Proprio in quel momento, sullo scoccare di un altro tiro, il violinista al di là della parete cominciò il suo concerto. Atsumu chiuse gli occhi e lo lasciò fare per qualche minuto, come se gliel’avesse concesso, come se non ci fosse stato più alcun muro tra loro e lui gli avesse semplicemente domandato di bucare quel silenzio.
Non seppe spiegarsi perché, ma quella mattina il violinista lo squarciò, quel silenzio, sembrava un fottuto quadro di Fontana, rosso fuoco e incazzato nero.
Se qualcuno gli avesse detto, qualche settimana prima, che sarebbe arrivato un violinista a condividere con lui il muro, Atsumu si sarebbe messo a urlare dal fastidio. Non un grido virile e possente, no, si sarebbe picchiato le mani sulle orecchie e avrebbe iniziato a strillare lalala, se non lo sento non è vero. Invece in quel momento pensò che non fosse poi così male. Non piacevole, non era piacevole, ma non male.
Aprì gli occhi, abbandonò la sigaretta in bilico tra le sue labbra e si tirò a sedere. 
Da quella posizione (una solita, abitudinaria posizione) notò per la prima volta una scatola alta e sottile incastrata tra la scrivania e l’infisso del balcone. Inclinò il viso su un lato nell’istante in cui una nota arancione si trasformò in un vibrato, poi si alzò e, senza pensarci troppo, tirò fuori il cartone dal suo nascondiglio.
Nel caso in cui vi steste chiedendo seriamente che cosa ci fosse dentro, era un comodino, ma questo era ovvio. Il giovanotto reggeva sveglia, cellulare, bottiglie d’acqua e alcune volte anche un PC su una precaria pila di libri e questo perché non aveva mai avuto voglia di montare quel comodino (e perché non leggeva i libri).
Quel comodino impacchettato aveva già due anni, è importante specificarlo.
Atsumu afferrò il posacenere dalla scrivania, lo poggiò a terra, si impossessò del cartone e sbucciò lo scotch che lo teneva chiuso.
Poi si mise a sedere sul pavimento, si armò di cacciavite e istruzioni e cominciò ad assemblare il comodino mentre il vicino si esercitava.
Il foglio delle istruzioni, comunque, ebbe vita breve. Atsumu aveva già messo insieme due assi di legno e, fino a quel momento, era stato molto fiero di sé e soprattutto molto amico delle istruzioni. Poi, però, si era sporto col busto di lato per leggerle meglio, aveva allungato il braccio destro, picchiettando col dito sul filtro della sigaretta per scrollare la cenere dalla brace, e infine aveva perso la testa, perché, secondo le istruzioni, le due assi che aveva montato non erano quelle giuste.
Atsumu prese il foglio in mano, si allontanò col viso come se il problema fosse stato di tipo oculistico, poi diede un’occhiata alle sue due assi. Tornò con lo sguardo sulle istruzioni, lo spostò di nuovo sull’aspirante comodino, poi di nuovo sulle istruzioni. Questo flipper andò avanti per altri tre o quattro turni, infine Atsumu scrollò le spalle e si liberò delle istruzioni. “Io ho quello a grandezza naturale” mormorò, sbattendo la cicca nel posacenere, “cosa vuoi che ne sappia un disegno?”
E così lavorò per qualche altro minuto, dando le spalle al muro del violinista.
Se si concentrava completamente sul suo comodino, Atsumu riusciva a dimenticare che non si conoscevano, che non erano neanche nella stessa casa. Aveva un sapore confortevole, quel genere di intimità che si guadagnava con qualcuno dopo anni di intesa, il senso di sicurezza che si provava quando si facevano cose completamente diverse in spazi comuni, senza confini.
Fu sollievo.
Per qualche minuto, Atsumu si concesse di assecondare quell’illusione e immaginò che non ci fosse alcun muro a separarli, che il vicino fosse semplicemente dall’altra parte della stanza, a un colore di distanza, in piedi davanti a un leggio, tranquillo e a suo agio, mentre lo guardava costruire un comodino.
Il violinista sfiorò all’improvviso una nota altissima, uno stimolo che quasi lo accecò, e Atsumu batté il pugno su una spina di giunzione per farla andare giù, poi lo alzò in alto e si lasciò scappare un “woh-oh” acuto. Un attimo dopo assottigliò gli occhi e fissò con diffidenza il comodino e i pezzi rimasti. “‘fanculo” mormorò e setacciò il pavimento alla ricerca delle istruzioni.

 
“Woh-oh!”
Hinata si fermò con l’archetto a mezz’aria, sorrise e alzò gli occhi al soffitto, cercando di ritrovare la concentrazione.
Ora fermiamoci tutti, perché è un momento chiave.
Shouyou Hinata non era uno che se la tirava, credeva di non averne motivo. Per tutta la vita gli era sempre mancata quella cosa che tutti chiamano inclinazione naturale. Però Shouyou Hinata aveva quest’abitudine di catalogare le persone per ruoli di pallavolo e in quel momento pensò che non aveva idea di chi ci fosse dall’altro lato del muro (un uomo, una vecchia, un’intera famiglia molto silenziosa, una sola persona molto maldestra) ma sapeva per certo che era un alzatore. E Hinata, questo lo sapevano tutti, avrebbe fatto qualunque cosa per entrare nelle grazie di un buon alzatore.
Quindi anche se non se la tirava e anche se aveva una montagna di pezzi nuovi da imparare, Shouyou cambiò la disposizione delle dita sulla tastiera e suonò l’estate di Vivaldi, perché era la tipica cosa che faceva spalancare la bocca a tutti.
Non si chiese perché ci tenesse tanto a impressionare il vicino, lo stesso vicino che lo aveva svegliato per vendetta e che lo aveva costretto a suonare YMCA, ma si accorse del fatto che sperava che funzionasse e si detestò per questo.
La sfida divenne farlo esultare di nuovo.

 
***
 
Pioveva.
Tokyo si disegnò in contorni tremolanti nelle pozzanghere sparse sulla strada. Il rosso di un semaforo si rifletté malinconico nelle vetrine di negozi chiusi e bui.
Atsumu esitò in motorino a un passo dallo svincolo che l’avrebbe portato a casa, poi inchiodò e mise mano al portaoggetti. Liberò la macchina fotografica dall’otturatore e la resse per qualche secondo con l’obiettivo rivolto verso il cielo, bagnandolo appena, poi chiuse un occhio, si tirò indietro col busto e scattò.
Un uomo con una busta della spesa e un ombrello trasparente camminava ignaro e solo sul marciapiede, silhouette senza volto. Attorno a lui fari rossi, insegne al neon multicolore, semafori e finestre gialle si affannavano saltando da una superficie a un’altra e riflettendosi nella pioggia, a comporre lo sfondo di una foto che imitava un fuoco d’artificio. Sembrava che l’occhio non sapesse cosa guardare, che stesse contrattando col cervello per il dettaglio più importante. Intanto, il corpo dell’uomo era l’unica cosa che non brillava. L’obiettivo, punteggiato di gocce di pioggia, dava l’idea che quell’ombra di persona fosse l’unica cosa consistente in un mondo che sfavillava.
Atsumu guardò la fotografia in anteprima, incurante della pioggia che gli bagnava le spalle. A poco a poco, l’immagine si fuse agli schizzi caleidoscopici che bagnavano la macchina, quando impattavano sullo schermo.
Per la prima volta in vita sua, seppe cosa stava facendo.

 
Tornò a casa fradicio e felice. Aveva la cena – in realtà aveva pregato Osamu, non avete idea di quanto l’avesse pregato. A momenti si inginocchiava – e non era solo.
No, perché il violinista non aveva smesso un attimo di suonare, quel giorno.
Atsumu meditò se travasare il cibo dalle vaschette in un piatto. Lo osservò in riflessione, mentre il violinista suonava un pezzo lento e misurato sicuramente appartenente alla tradizione e immaginato per essere accompagnato a un koto. Scrollò le spalle, si impossessò delle bacchette, abbandonò l’idea del piatto e della civiltà e infine appoggiò la vaschetta sulla scrivania.
A questo punto si decise a rassettare. Rassettare, a casa di Atsumu, significava un po’ tutto quello che significava per tutti quelli che non si chiamavano Kiyoomi Sakusa, cioè spostare i vestiti dalla sedia al letto o viceversa, secondo necessità.
Il violinista tirò una nota azzurra per le lunghe, poi la derubò di intensità, finché non morì in un sibilo bianco panna. Era la cosa più triste che Atsumu avesse mai sentito in vita sua ed era precisamente per questo – attenzione, per questo e non per altro – che, per la prima volta in vita sua, dimenticò di essere egoista.
Non aveva idea del motivo per cui il vicino suonasse il violino. Se aveva cent’anni, forse aveva perso l’amore della sua vita e credeva che quello fosse l’unico modo per comunicare. Se aveva settant’anni, forse suonava per qualcuno. Se aveva cinquant’anni, forse si esercitava per una performance, uno di quei milioni di progetti deprimenti che si vedevano online e che anche un buzzurro come Atsumu riconosceva togliere mille sfumature alla musica. Se aveva vent’anni – e Atsumu non voleva neanche immaginare un’eventualità così pericolosa, ma visto che stiamo facendo un elenco lo costringeremo a farlo – forse era uno studente.
Qualunque fosse il motivo per cui il vicino suonava, quel giorno non si era staccato un attimo da quel violino e Atsumu pensò al suo benessere psico-fisico, al fatto che dovesse nutrirsi. Soprassederemo sulla fetta sorprendentemente ampia del suo cervello che ardeva dal desiderio di vedere chi ci fosse dietro quel lamento nostalgico e ci concentreremo su quello che Atsumu fece.
Pescò il piatto che aveva scartato precedentemente dalla credenza (era uno sputo di mobile attaccato al muro, ma credenza e illusione son concetti affini), divise la sua cena a metà e poi osservò la vaschetta con aria di sfida.
Dall’altra parte del muro, il violino litigò col silenzio, lo sfilacciò e iniziò a distruggerlo, giocando tra pause ed esplosioni e provocandolo. Era assurdo che uno strumento così piccolo facesse tanto baccano.
Atsumu si scusò con il frigorifero, perché aveva un’occasione di sfuggire alla sua miseria e lui gliela stava negando, poi afferrò le chiavi e si diresse alla porta. Esitò con la mano a un passo dalla maniglia e sperimentò per la prima volta quello che per una grossa fetta di popolazione mondiale non è che normale amministrazione: il terrore di interagire col prossimo.
È tutto il giorno che suoni, ho pensato che avessi fame. Ma chi cazzo era, sua nonna?
Hai rotto le palle tu e questo violino, perché non la smetti e ti nutri, stupido idiota? Atsumu non era una cima, ma sapeva rimorchiare da Dio e sapeva anche che così non si conquistava neanche un ringraziamento.
Mio fratello è un coglione, ma sa cucinare. Ne ha fatti troppi, ne vuoi un po’? Era vera solo la parte di suo fratello che era un coglione. Ma, come al solito, mentire si rivelava sempre la scelta più saggia.
Abbassò la maniglia e si trovò faccia a faccia con due nuovi problemi: 1, perché stava sudando? 2, voleva davvero vedere il violinista?
Atsumu non s’intendeva di magie, ne provocava senza fatica anche solo con un sorriso, però quella della parete era una magia che imponeva la sua esistenza indubbiamente, ma non si spiegava. Vederne l’epicentro non era come barare?
Interrompiamo i flussi di coscienza per ricordarci che Atsumu Miya era un bugiardo.
Questo sull’imbrogliare era un malloppo di cazzate. A chi importava di vedere o non vedere epicentri, bersagli e altri tipi di strutture concentriche? Il problema era che Atsumu viveva sulla cresta dell’onda, sulla linea di confine tra quella spuma di mare e l’abisso che nascondeva e quella musica era l’unica cosa che fosse mai riuscita a punzecchiare una pellicola che lui non si era mai preoccupato di proteggere.
Specchiarsi negli occhi di chi teneva in mano l’ago, quello sì che faceva paura.
Atsumu, schiavo delle sue bugie, non ci pensò. Sostò nella spuma di mare, sulla frivolezza di un concetto da commedia romantica del calibro di ‘vedere il musicista rovina la sua musica’ e fece la sua scelta da codardo.
Tornò indietro, strappò un pezzo di carta da un quaderno che non riconosceva di avere e afferrò una penna.
Sapeva esattamente cosa scrivere.
Si diresse nuovamente alla porta, uscì, posizionò messaggio e vaschetta sullo zerbino del violinista, poi bussò e scappò.
 

Ma chi diavolo era il vicino? pensò Hinata, quando scoprì la vaschetta e un odore paradisiaco gli invase le narici.
Afferrò il biglietto ripiegato prima di tuffarsi nel cibo, perché da piccolo aveva visto Il labirinto del Fauno e aveva imparato che bisognava diffidare dall’accesso gratuito a certe prelibatezze.

Di tutte le curve del tuo violino, la mia preferita è quella del tuo sorriso… quando mangi gli onigiri migliori del paese. Mio fratello sa fare una sola cosa, ma la sa fare bene.
Comunque non sono avvelenati, davvero, stai solo suonando da tutto il giorno.
Il vicino del 706
 
Il sorriso di Hinata si spezzò alla fine della prima frase. L’ultima volta che aveva eletto degli onigiri ‘i migliori del paese’ era stata il giorno prima, a cena con Yachi. Voltò la linguetta di carta che teneva chiusa la vaschetta e rivelò il disegno di una volpe stilizzata.
L’immagine dello schiacciatore laterale che gli consegnava la cena in una vaschetta identica, la sera precedente, gli tornò in mente rapida e distinta come una fotografia.
Shouyou guardò gli onigiri davanti a lui in un misto di sorpresa e delusione.
Non c’era verso, modo, maniera e possibilità che uno schiacciatore laterale fosse un alzatore. Non potevano essere la stessa persona. 
Ma adesso quel ragazzo era una sfida e il tallone di Achille di Hinata era che aveva un’insana tendenza a innamorarsi delle sfide.








NotElCiaaaao, sono tornata, incredibile, chi se lo aspettava?
Mi scuso per il ritardo, ma questa storia è una cosa complicata da gestire, perché ha avuto una gravidanza travagliata e io mi innervosisco facilmente con  lei. Però siamo qui! Wow!
L'estate di Vivaldi è quella che fa ZAzazazazazazaza ZAzazzazazazazaz ZAzazazazaza TARATARATAAAAA TARATATATATAAAAAA TATATATAAAAAA e così via.
Un fatto interessante è che quando ho scritto questo capitolo ho pensato che Atsumu avesse proprio bisogno di un comodino, ma non ho pensato che ad aver bisogno di un comodino ero anch'io. Qualche mese dopo ho pensato di aver bisogno di un comodino e l'ho preso al tempio di Ikea. Poi l'ho assemblato TUTTO DA SOLA (e seguendo le istruzioni) e mi sono ricordata di questa scena a lavoro quasi finito. Avrei voluto anch'io un bel violino di accompagnamento :(
Ci si vede prestino, tanto il 4 già è pronto, il problema è l'ultimo capitolo ehm
Grazie però per aver atteso, letto, insomma fatto tutte le cose carine del caso!

El.
   
 
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