Era una bambina che credeva nelle favole, ma non c’era nessuno che gliele raccontasse. Ci credeva e basta. O meglio, sperava che una volta uscita da quelle mura ne avrebbe vissuta una.
Da piccola era convinta che se fosse entrato un ladro in casa avrebbe potuto fargli capire che non stava facendo la scelta giusta, parlandogli avrebbe risolto ogni cosa.
Con lui voleva fare lo stesso, ma aveva paura.
Quando loro due erano ancora una squadra infallibile era convinta che ridere insieme, cucinare fino a tardi, amarsi, fosse tutto ciò che nella vita avrebbe dovuto fare per essere felice. Ora però, dopo aver sofferto così tanto, non sa più se amare le convenga.
Aveva circa otto anni quando se ne rese conto. Quei mille fazzoletti che le portava assorbivano le urla, i singhiozzi, la speranza. Presto o tardi però sarebbero finiti.
Un semplice mal di testa.
Lo stesso mal di testa che un giorno avrebbe provato anche lei. Quel mal di testa che ti fa sentire inadeguata, inutile, incapace di sperare in una favola, ma convinta che se non fossi esistita forse sarebbe stato meglio.
Era una bambina che credeva nell’amore, non c’era nessuno che le insegnasse come amare. Ci provava e basta, ma come potete immaginare non era mai abbastanza.
Nella vita non avrebbe mai raggiunto i suoi obbiettivi. Era colpevole di sognare, così parlava alla luna di nascosto, convinta di ricevere una risposta. Quel silenzio talmente fitto, però, le faceva credere che forse lui avesse ragione. Non era altro che un pezzo di un puzzle dimenticato, inutile.
Parole così affilate, quelle cicatrici. Lui voleva cancellarla. Non c’era altra spiegazione. Era una bambina che si fidava di suo padre, l’unico uomo della sua vita. Una vita in cui a suo avviso non c’entrava molto. Era la sua, si, ma lei era sempre sopraffatta, impotente.
Non poteva fare altro che guardare, così lo osservava mentre rinchiudeva ogni suo desiderio in un cassetto, mentre a poco a poco soffiava su quel dente di leone spogliandolo della sua bellezza, da ciò che lo rendeva unico.
Era una ragazza che credeva nelle persone, ma nessuno credeva in lei.
Perdeva le sue giornate cercando quello sguardo familiare in mezzo a una folla priva di volto. L’inerzia della vita, la monotona esistenza, avrebbe voluto cambiare il mondo, ma in mezzo a quel mazzo di chiavi non trovava quella giusta e continuava imperterrita a cercare, inconsapevole del fatto che non sarebbe mai capitata nelle sue mani.
Era una ragazza sola, del resto suo padre l’aveva sempre detto. Ricordava vagamente che un tempo aveva così tanti sogni, ridicola.
Aveva trovato un uomo. Somigliava molto a suo padre, forse era per questo che lo amava. Pretendeva tanto da lei, voleva che desse il meglio. Lei però non era all’altezza, così per renderla migliore la puniva. Se lo meritava. Lui le aveva dato uno scopo nella vita e ora lei doveva ripagarlo.
Oggi è una donna, non crede più in niente. Non si aspetta nulla da nessuno. La vita l’ha distrutta, l’apatia l’ha portata con sé in un vortice buio. La senti? Sta urlando, chiede aiuto, ma non le esce nemmeno un filo di voce.
Speranza, un termine così ingannevole. Speri quando ti arrendi, quando l’unica soluzione è aggrapparsi a un’illusione. Se solo se ne fosse resa conto prima adesso non sarebbe qui. I fazzoletti sono finiti, lo specchio si è rotto, sul suo viso bagnato di indifferenza scorrono pezzi di ricordi. Immobile gli sussurrerà addio. E, rendendosi conto che non tutte le favole hanno un lieto fine, libera, a catene spezzate, finalmente volerà.