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Autore: Ciarax    29/11/2021    0 recensioni
«...Ma perdere un soldato, e un amico, senza aver provato tutto per salvarlo è anche peggio. Il senso di colpa ti divorerà dall'interno, più di tutta questa devastazione che si sta per abbattere sulla Terra...»
«Sei giovane, ma hai perso già tanto e spero che tu riesca a trovare pace alla tua guerra interiore prima che ti logori, Sophia»
...
Ma quando la lotta non è combattuta con le armi ma è una guerra intestina che ti logora dall'interno... Non sei più sicuro di sopravvivere.
Ritornare alla vita civile dopo anni di servizio nell'esercito non è un viaggio facile e le cicatrici che sembrano rimarginate riprendono all'improvviso a sanguinare.
Ritrovatasi in mezzo alla vita degli Autobot, Sophia fatica a ritrovare il suo posto in una realtà che non sente più sua. Un'altra guerra non era certo quello che cercava e già esausta dall'affrontare le sue battaglie interne... Non è certa di sopravvivere.
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Warning: menzione e descrizione di scene di violenza, perlopiù negli ultimi capitoli.
Menzione di salute mentale alterata e disturbo da stress post traumatico anche se non nei dettagli è comunque un aspetto importante della storia.
Genere: Angst, Azione, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO 7 – NUOVO INIZIO
 

            «Hey, piccoletta»
Sophia socchiuse gli occhi, infastidita dalla luce del mattino mentre tentava di coprirsi il viso con una mano, senza successo. Una bassa risata metallica riecheggiò nelle sue orecchie, intravide l’enorme figura di Ironhide che la osservava mentre era inginocchiato di fronte a lei.
            Con movimenti lenti la donna si stiracchiò lungo il muro su cui si era appisolata, facendo scrocchiare la schiena e alcune ossa, accettò poi l’aiuto silenzioso dell’Autobot che le offrì l’enorme mano metallica per aiutarla a rimettersi in piedi.
Si massaggiò il collo leggermente indolenzito vista la posizione scomoda in cui si era addormentata e le deboli ondate di fastidio che le temperature rigide della notte infliggevano sulla pelle sensibile di quello che rimaneva del suo arto destro.
            Sophia si lasciò depositare nell’incavo della spalla di Ironhide mentre l’Autobot si dirigeva a passo moderato verso l’hangar dove avevano installato una provvisoria base medica.
            «Ratchet non sarà felice di sapere che ti sei ricaricata in mezzo al freddo dell’hangar senza alcuna attenzione»
Sophia storse il naso ma l’occhiata di sbieco che le rivolse l’Autobot le impedì di fare alcun commento a riguardo.
Ironhide era ancora in apprensione per lei anche se non lo dimostrava apertamente.
Un mese e mezzo dalla morte di Megatron e la distruzione dell’AllSpark e l’Autobot non la mollava un attimo, tenendola costantemente nel raggio del suo controllo. La pozza di sangue in cui l’aveva trovata probabilmente era stata la visione più orribile a cui aveva assistito, nonostante i secoli di guerra in cui aveva combattuto senza sosta.
L’Energon che gli correva nelle valvole si era fermato in quel momento. Tra le macerie e blocchi enormi dei palazzi antistanti che erano crollati e vicino al corpo senza vita del Decepticon c’era il corpo malridotto di Sophia.
            A terra supina come una bambola di pezza gettata via con troppa forza, la testa gettata di lato dove dalla tempia sinistra lacerata c’era sangue incrostato sul volto e sui capelli.
Il fianco destro, dalla linea del seno fino alla coscia era completamente bruciato, i vestiti anneriti e strappati a causa del calore da contatto in quei punti che lasciavano in bella vista la pelle completamente sanguinolenta, sensibile e pulsante. Gli arti non avevano nessuna ferita apparente o alcun osso che sporgeva in una frattura scomposta, ma ne mancava uno.
Il braccio destro non c’era più. Ed era proprio da lì che uscivano fiotti di sangue che imbrattavano l’asfalto, l’omero rimasto intero solo per metà e la pelle e la carne che sembravano essere finiti nella morsa di un animale selvatico tanto era frastagliato e violento il contorno di quella ferita.
            Il moncherino stava guarendo ma la pelle attorno la fine dell’osso, dove si richiudeva, era ancora parecchio sensibile e bastava un non nulla per mandare scariche di dolore al corpo di Sophia che non gridava altro che un po’ di meritato riposo. Vestita solamente con una canotta e un paio di pantaloni cargo, la pelle martoriata ancora non era guarita completamente: il fianco destro strusciava contro il cotone dei vestiti e le provocava fastidiose irritazioni.
            L’ambulatorio era rimasto pressoché invariato da quando le avevano finalmente permesso di poter tornare a muoversi dove voleva, perlopiù li aveva costretti lei esasperando al limite Ratchet che non riusciva più a concentrarsi su altro se non a cercare di tenerla a riposo a letto. Ironhide era diventata la sua ombra da quel momento, una enorme, metallica e rumorosa ombra che la seguiva dove poteva. Quella era l’ennesima visita di controllo e anche se riluttante non aveva potuto fare altro che accettare passivamente quelle piccole torture quotidiane. Ratchet l’aveva presa particolarmente a cuore e ne seguiva i progressi con perizia e attenzione.
Sophia si lasciò mettere a terra da Ironhide e diede un piccolo colpo su una placca metallica del piede di Ratchet, attirando la sua attenzione. L’Autobot si abbassò alla sua altezza e passò uno dei suoi scanner sulla figura dell’umana che aspettava paziente con il braccio sinistro sul fianco.
            «Mi sembrava di averti detto di tenerla d’occhio» borbottò Ratchet nella sua holoform umana dopo aver rimesso delle nuove garze sulla pelle ustionata di Sophia che si ostinava a togliere dopo nemmeno un paio d’ore.
Ironhide grugnì borbottando qualcosa in un ammasso di ronzii e rumori metallici in cybertroniano mentre aspettava fuori, troppo grande per mettere piede lì dentro e decisamente restio ad usare il suo ologramma quando c’erano altri esseri umani in giro.
            «Se continui ad esagerare le ustioni non guariranno bene. Potresti perdere ancora più mobilità» la rimbeccò nuovamente l’ufficiale medico degli Autobot controllando anche l’estesa ustione che si stava lentamente cicatrizzando sul fianco di Sophia che spostò con una smorfia la fascia del reggiseno per permettere a Ratchet di controllare con cura ogni punto della ferita.
Lì purtroppo non c’era molto che il medico potesse fare, se non garantire la più alta percentuale di guarigione senza intoppi e cercare di prevenire che una volta guarita la ferita si cicatrizzasse in un lembo di pelle rigido come il cuoio. Riapplicò per l’ennesima volta uno strato di garza sterile e imbevuto di analgesico che diede un po’ di sollievo a Sophia, stoica nel non lamentarsi nonostante fosse evidente come quell’estesa ustione di secondo grado fosse particolarmente dolorosa.
            Sophia annuì distrattamente alle ennesime raccomandazioni che sarebbero state prontamente ignorate, anche senza farlo apposta. L’Autobot si era accorto dell’impercettibile deterioramento della salute mentale dell’umana anche se non le aveva detto nulla riguardo questi suoi controlli quando la visitava giornalmente. Aveva presto imparato come quello fosse un delicato argomento per lei e soprattutto in quel momento non aveva intenzione di spingerla troppo o avrebbe probabilmente solo peggiorato la sua salute.
            «Hai una mira pessima» fu il secco commento di Ironhide dopo il terzo proiettile andato un metro troppo al di là del bersaglio.
Sophia sbuffò spostandosi di poco alcune ciocche di capelli dal viso e sistemandoli con un paio di occhiali da sole sulla sommità del capo, scartò la cartuccia vuota con un movimento fluido dal caricatore del fucile di precisione e si sistemò meglio il calcio dell’arma sulla spalla destra. Sdraiata pancia a terra sotto il sole cocente e con uno stupido bersaglio ad appena un chilometro e mezzo da lei e i due Autobot che l’avevano accompagnata.
«Prova tu a ritrovarti senza la mano dominante per sparare, ammasso di latta» commentò acida ed esasperata, facendo irrigidire Ironhide a quel commento che non replicò dopo uno sguardo eloquente di Ratchet che li aveva seguiti per assicurarsi che i due non esagerassero.
            «Voi umani avete un arto dominante rispetto all’altro, giusto?» domandò il medico bot con una punta di curiosità guardando Sophia annuire alla sua domanda, ma anche mosso dal bisogno di abbassare i suoi livelli vitali che in quel momento erano troppo alti nelle sue condizioni.
            «C’è anche chi come me non ha preferenze e può usare entrambe senza problemi - si interruppe un attimo, -o che almeno poteva» senza aggiungere altro tornò a fissare la propria attenzione sul bersaglio che aveva inquadrato nel mirino.
Tre rapidi centri, due dritti al cuore e uno alla testa. Sophia espirò solo dopo che l’ultimo proiettile colpì il bersaglio, scarrellando la cartuccia vuota fuori dal fucile e tornando a guardarsi intorno.
            Era primo pomeriggio e i tre erano nel mezzo del deserto del Nevada, lontani da occhi indiscreti e sotto il sole cocente di inizio estate. Anche con l’abbigliamento estivo più leggero che aveva trovato, Sophia stava morendo di caldo, abituata alle temperature del Montana e quelle più acclimatate del Wisconsin. Quella non era stata un’uscita particolarmente pianificata ma a breve, forse prima della fine della settimana, tutti si sarebbero mossi verso una nuova base stabilita apposta per la neo-squadra finalmente ufficializzata.
La base del NEST sarebbe stata dislocata a Diego Garcia praticamente dall’altra parte del pianeta e tutti erano indaffarati nel preparare tutto quello che c’era da organizzare per riuscire a trasportare in modo sicuro tutti gli Autobot.
Optimus raramente si vedeva in giro, sempre impegnato con il Capitano Lennox a discutere i dettagli di tutta quella nuova dinamica di collaborazione tra le due razze mentre gli altri Autobot cercavano di occupare il tempo nel miglior modo possibile.
            Sophia si sorprese di vedere infatti Ratchet accompagnare lei e Ironhide in quella scampagnata fuori porta, visto quanto lo aveva visto chiuso in quel laboratorio improvvisato da cui non usciva praticamente mai. Aveva costantemente la testa occupata da chissà quale progetto e lei non se la sentì mai di intromettersi a curiosare, sapeva quanto potesse essere fastidioso e perciò lo lasciava in pace quando lo vedeva concentrato su quello.
            «Dobbiamo rientrare, piccoletta» la voce di Ironhide la destò dai suoi pensieri, scuotendo la testa e passandosi la mano sulla fronte per asciugare un minimo il sudore che sentiva appiccicarle ciocche di capelli sul volto.
Si alzò lentamente e si sistemò il fucile su una spalla mentre la fondina dove teneva la pistola era sempre saldamente ancorata, anche se ora era saldamente ancorata alla coscia sinistra dove aveva ancora qualche difficoltà a tirarla fuori con un buon tempismo.
            Il viaggio di ritorno fu abbastanza veloce e silenzioso anche se una volta rientrati per poco Sophia non venne investita dalla figura di Shawn che la prese di peso per portarla nell’unico luogo di quella base improvvisata dove ci fosse un telefono in grado di prendere segnale, quando per sicurezza erano stati installati dei disturbatori di segnali tutt’intorno al campo.
            «Myers si può sapere che diamine ti prende?» strepitò Sophia colpendolo violentemente alla schiena quando venne messa finalmente a terra e facendo tossire un paio di volte Shawn a causa del forte colpo.
            «Calmati, non saresti venuta altrimenti»
            «Perché non sarei dovuta…»
            «Sento che sei ancora in buona forma, Gracie» Sophia si ammutolì. Ecco il perché di quelle maniere brusche.
            Scoccò un’occhiata furibonda a Shawn che gli fece l’occhiolino sistemando gli occhiali e salutandola con un cenno della mano lasciandola sola. Nella stanza non c’era nessuno a parte la chiamata avviata e messa in vivavoce, con l’unica persona che Sophia stava evitando da quando gli aveva lasciato quello stupido biglietto.
            «Ho pensato che dopo quasi due mesi avrei dovuto iniziare a preoccuparmi, specialmente dopo che mi avevi lasciato scritto che saresti stata via per massimo una settimana o giù di lì» il tono non era arrabbiato ma anche tramite il telefono Sophia sentì la sua voce rigida come quando da piccola combinava un casino e finiva nei guai, «Non rifilarmi delle scuse perché sai che non servono, sei viva e questo mi basta»
Un sospiro sollevato lasciò le sue labbra quando si decise ad abbandonarsi su una delle sedie presenti, poggiando la fronte nel palmo della mano e stringendo il ponte del naso pensando a cosa dire.
            «Sarei dovuta rimanere lì in Wisconsin»
            «A fare cosa? Sentirmi parlare tutto il giorno dei miei incontri con gli altri veterani del circolo?» la domanda ironica dall’altro capo del telefono le strappò un sorriso.
            «Forse sarebbe stato meglio»
            «Qual è il problema, Gracie? – ci fu un attimo di silenzio, -non è da te rimuginare così tanto sulle cose. I notiziari sono affidabili tanto quanto la mia vecchia Colt 1911 che non spara un colpo dagli anni settanta. Sono vecchio ma non stupido, ragazza mia»
            «Mi hanno chiesto di riprendere servizio» il silenzio cadde da entrambe le parti dopo che Sophia sputò fuori quelle parole senza neanche pensarci su un attimo.
            «Non posso darti molti dettagli, specialmente al telefono, ma è una cosa particolare… me l’hanno chiesto quasi due mesi fa dopo… dopo il disastro in quella città del Nevada. Anche Myers e Jax sono qui»
            «Ti sei pentita?»
            «Cosa?» Sophia era confusa.
            «Ti senti pentita di non essere rimasta qui a fare la muffa col tuo vecchio nonno?»
Quella domanda la colse alla sprovvista, quando in quasi un mese e mezzo non aveva mai pensato a come si sarebbe sentita se avesse preso l’altra alternativa: come si sarebbe sentita se non avesse seguito Ironhide, conosciuto gli Autobot… perso così tanto di sé ma guadagnato altrettanto. La perdita era stata enorme e anche se lo nascondeva bene, faticava ancora immensamente ad accettare tutto quel cambiamento improvviso che stava avvenendo attorno a lei, eppure, ora c’era qualcosa per cui valeva la pena andare avanti.
            Non c’era più solamente la prospettiva di sopravvivere un altro giorno in una vita da civile in cui non riusciva più ad immedesimarsi, in quel momento era scattata una scintilla che aveva provocato l’incendio che le aveva svoltato la vita, che l’aveva costretta in una nuova, improvvisa direzione. Per una volta muoversi avventatamente le aveva portato qualcosa di buono in quella vita che non aveva più uno scopo preciso.
Accennò un piccolo sorriso quando abbassò la testa, sconfitta, lasciando che le ciocche di capelli ramati le coprissero gli occhi leggermente lucidi.
            «No. Probabilmente non avresti sentito la mia voce in questo momento se non me ne fossi andata dal Wisconsin»
            «Gracie…»
            «Grazie nonno, di tutto – tagliò improvvisamente corto Sophia tentando di troncare quella chiamata, improvvisamente indisposta ad approfondire l’argomento, -probabilmente dovrò spostarmi entro il fine settimana ma ti richiamo appena ne ho la possibilità» troncò la chiamata senza aspettare una risposta e con un gesto stizzito sbatté il pugno sul tavolo con un rumore secco.
            «Non hai ancora dato una risposta a Lennox?» domandò Ironhide tramite gli speaker della sua forma alterata.
Sophia scosse la testa senza aggiungere altro, sapendo come l’Autobot l’avesse vista lo stesso. Era stesa tra i due sedili anteriori dell’enorme pickup nero, le gambe allungate e la schiena poggiata contro la portiera del guidatore mentre col naso all’insù fissava distrattamente il cielo notturno, lontani dall’inquinamento luminoso della città.
            «Non sei costretta ad accettare se le condizioni che ti hanno imposto non ti piacciono» commentò semplicemente la radio sapendo di toccare un tasto dolente.
            «Pensi che il problema sia accettare? Non mi interessa nulla di essere seguita da uno di quegli strizzacervelli, se li fa sentire più al sicuro che facciano pure – sbuffò Sophia con irritazione, -Di quello non mi interessa nulla… ma non capisco quale aiuto posso dare in queste condizioni» parlò poi a voce più bassa, portando le ginocchia al petto e stringendosi leggermente in sé stessa.
            «Lo sai che...»
            «Non metterti anche tu a dire quelle stronzate di circostanza! Non possono essere un soldato senza un fottuto braccio e loro lo sanno… saresti incazzato anche tu se non avessi più i tuoi cannoni, ‘Hide» lo zittì con rabbia Sophia battendo leggermente la testa contro il vetro del finestrino e lasciando che il silenzio calasse tra i due.
Non era sua intenzione essere così dura ei confronti dell’Autobot ma era veramente esasperata dalle continue occhiate che alcuni soldati le rivolgevano come se la sua presenza lì non fosse altro che un peso, anche se a detta del Capitano Lennox molti di loro non avrebbero avuto possibilità in uno scontro a mani nude con Sophia anche se menomata di un braccio. Lui l’aveva vista in azione e il coraggio e la testardaggine erano due cose che di certo non le mancavano, ed era segretamente sicuro che avrebbe trovato il suo posto in quel nuovo progetto.
            Nonostante le temperature iniziavano ad alzarsi anche di notte, l’interno dell’abitacolo si scaldò impercettibilmente senza risultare soffocante. Un sospiro lasciò le labbra di Sophia che poggiò la fronte sulle ginocchia e lasciando che il silenzio tra lei e Ironhide proseguisse ancora un po’, accennando un sorriso nel sentire anche il sedile su cui era seduta scaldarsi appena.
            Erano ancora le tre del mattino e di andare a dormire Sophia non ne voleva sapere, il sonno era passato da un pezzo e tornare indietro gli sembrata inutile sapendo che avrebbe finito solo per rigirarsi senza una fine tra le lenzuola. I due avevano lasciato da parte la questione Lennox dopo il piccolo sfogo di Sophia che aveva fatto ben intendere come quello non era il momento né il modo giusto di affrontare l’argomento.
            «Perché perdete tutto questo tempo dietro a attività così senza alcuna logica?»
Sophia sospirò tentando nuovamente di spiegare per l’ennesima volta il motivo per cui gli umani tenevano tanto a festeggiare, «Me lo chiedi ogni volta, ‘Hide. La vita di un essere umano è così facile da spegnere… queste cose anche se non hanno senso ci danno speranza. Sono quei pochi momenti in cui nessuno pensa alle cose negative e riesce per un po’ a sperare che ci sia un lieto fine»
            I due erano fuori l’hangar, a meno di un giorno dalla partenza per Diego Garcia nella nuova base per il NEST e la notte era l’unico momento della giornata in cui non si rischiava di morire dal caldo che l’inizio estate nel Nevada sembrava tenere in serbo per tutti loro. La maggior parte del personale umano era già a riposo e anche gran parte degli Autobot ne stava approfittando per ricaricarsi un po’ di più rispetto al solito.
            Sophia era stesa sul cofano del Topkick, dopo non poche difficoltà a salirci sopra, e con la testa all’insù osservava assente il cielo pieno di stelle. Ironhide le aveva indicato alcune costellazioni che gli Autobot avevano attraversato nel viaggio verso la Terra ma l’astronomia non era mai stata il suo forte anche se non disdegnava serate tranquille come quella.
            «Continua a non avere una logica…- borbottò Ironhide, - come la vostra assurda abitudine di festeggiare così rumorosamente il giorno della vostra nascita»
L’Autobot fu zittito da un colpo sul cofano che lo fece protestare in un insieme sconclusionato di insulti in cybertroniano fatti di click metallici e rumori irriproducibili di cui Sophia colse a malapena qualche significato.
            «Abbiamo a malapena ottanta compleanni da festeggiare e voi chissà quanto più a lungo vivete rispetto a noi. E poi… è un modo per stare insieme alla famiglia»
            «Sei sicura della tua scelta, piccoletta?»
            «Mio padre ha il cuore debole e l’hanno congedato proprio per la possibilità che gli prenda un infarto se ha uno stress eccessivo… Non credo che possa fargli alcun bene venirlo a sapere» rispose secca Sophia stringendo il ponte del naso.
Ironhide emise un piccolo verso di assenso, avendo incontrato solo una volta il padre di Sophia ma intuendo immediatamente la somiglianza tra i due, non solo fisica ma anche caratteriale. Se John Alder aveva anche solo la metà del carattere e dell’intelligenza della figlia, i due erano veramente una coppia tagliata per quel mestiere.
            In carenza di parecchie ore di sonno, a meno di diciotto ore dalla partenza per Diego Garcia Sophia aveva deciso. Braccio o no, invalida o meno e anche se con tutte le ferite psicologiche che ancora sanguinavano copiosamente, sarebbe andata. Il mero bisogno di riprendere servizio non era solo per la disciplina impartitale da quando aveva deciso di arruolarsi da adolescente, lì aveva ritrovato un motivo per continuare a vivere; un motivo per continuare a combattere la stessa guerra che ogni giorno la teneva in bilico da quasi due anni dal punto di non ritorno, prima di compiere la follia e mettere fine a tutto.
            Quella che aveva trovato era quanto di più simile ad una seconda famiglia, la capacità di empatia era una cosa straordinariamente intrinseca in quelle creature aliene e non avrebbe permesso loro di perdere altri compagni e amici finché avesse avuto fiato in corpo. Patire quello che lei stava soffrendo ogni giorno non doveva essere augurato a nessuno e avrebbe volentieri rimesso la vita per quelli che non erano solo compagni di squadra e commilitoni.
Erano amici, erano una famiglia.
   
 
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