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Autore: Enchalott    29/11/2021    3 recensioni
Questa storia è depositata presso lo Studio Legale che mi tutela. Non consento "libere ispirazioni" e citazioni senza il mio permesso. Buona lettura a tutti! :)
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Dopo una guerra ventennale, i Salki vengono sottomessi dalla stirpe demoniaca dei Khai. Negli accordi di pace figura una clausola non trattabile: la primogenita del re sconfitto dovrà sposare uno dei principi vincitori. La prescelta è tanto terrorizzata da implorare la morte, ma la sorella minore non ne accetta l'ingiusto destino. Pertanto propone un patto insolito a Rhenn, erede al trono del regno nemico, lanciandosi in un azzardo del quale si pentirà troppo tardi.
"Nessuno stava pensando alle persone. Yozora non sapeva nulla di diplomazia o di trattative militari, le immaginava alla stregua di righe colorate e numeri su una pergamena. Era invece sicura che nessuna firma avrebbe arginato i sentimenti e le speranze di chi veniva coinvolto. Ignorarli o frustrarli non avrebbe garantito alcun equilibrio. Yozora voleva bene a sua sorella e non avrebbe consentito a nessuno di farla soffrire."
Genere: Avventura, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Cuore di guerriero
 
Shaeta soffocò una colorita imprecazione e portò alle labbra il dito forato dall’ago da ricamo. Aveva perso il conto delle volte: guardò sconsolato l’indice, pensando che un taglio di spada sarebbe stato meno fastidioso e soprattutto più onorevole.
Gettò un’occhiata al ghirigoro perfetto di Evlare e si chiese come le sue piccole mani fossero in grado di riprodurre il modello con tanta maestria. Le donne erano capaci in tutto: pensando alla madre, sola a guidare i Minkari, ne convenne.
«Ehi, Aladi!»
Il richiamo dell’amica lo distolse dall’ennesimo attacco di malinconia. Sollevò il viso, incontrando un’espressione tra il divertito e lo scandalizzato.
«Hai sporcato la stoffa di sangue.»
Shaeta alzò gli occhi al cielo e tentò di rimediare ottenendo un netto peggioramento.
«Non così! Usa un batuffolo con un po’ d’aceto, la macchia andrà via.»
«Grazie» borbottò lui, squadrando i nodi sghembi assiepati al centro del cerchio che tendeva il tessuto.
L’altra lo fissò con insistenza. Cacciò il naso nel lavoro per paura che notasse i peli che talora gli spuntavano sul viso.
«Stai bene?» gli domandò Evlare.
«S-sì certo! Perché?»
«La tua voce è strana.»
Oh dei!
«Ehm… ho preso freddo.»
La scusa funzionò. La compagna gli posò la mano sulla fronte, facendolo arrossire.
«Non hai la febbre. Forse sei in periodo?»
«Che periodo?»
«Beh, quello femminile.»
Shaeta la guardò con panico crescente. Si mosse nervoso sulla sedia senza avere la minima idea di cosa stesse parlando.
«Scusa, Aladi, non voglio metterti in imbarazzo. Sei riservata ma con me puoi parlare, siamo amiche» sorrise Evlare.
Lo farei, se capissi cosa diavolo vuoi sapere!
«Sei gentile a preoccuparti» balbettò controllando la voce, che stava acquisendo un timbro troppo maschile «È che sono un disastro senza speranza.»
«Se non sei portata per il ricamo, non significa che tu sia un fallimento su tutti i fronti. Qualcuno potrebbe comprare il tuo lavoro così differente dagli altri.»
«Un cieco in vena di sperperi?»
La ragazza rise e posò l’ago, ravviandosi la chioma bruna.
«Vedi? Nessuna di noi è autoironica!»
«Forse sono l’unica ad averne bisogno.»
«Non dire così. Pare tu provenga da un altro mondo, ma non sei presuntuosa o pettegola e sai ascoltare. Mi ricordi mio fratello.»
Shaeta si trapassò di nuovo.
Dannazione!
«Oh, beh…» bofonchiò.
«Non l’ho detto per offenderti. Voglio bene a Nova, è il mio preferito! A casa siamo in otto, non c’è un attimo di pace, eppure adoro quel chiasso! Quando troverò l’uomo giusto, creerò una famiglia numerosa! Tu desideri dei figli?»
Ah! Quel periodo! Alla faccia delle definizioni scientifiche che ho imparato!
Shaeta tentennò. Essere l’unico erede minkari avrebbe implicato precisi doveri, ma sognare non era vietato e la reggia era lontana.
«È presto per decidere, ma perché no. Se i Khai saranno sconfitti.»
Negli occhi scuri di Evlare passò un’ombra di sconforto.
«La capitale resisterà e in ogni caso la vita continuerà.»
Lui rimase colpito. Pensare al futuro era sua responsabilità in quanto principe della corona, non poteva eliminare l’angoscia per le sorti della madre e del suo popolo. Tuttavia concentrarsi sulla forza della vita più che sulla disfatta lo rasserenò.
«Confidi nella nostra regina?» domandò.
«Più che in suo marito. Come vestale della celeste Azalee non dovrei parlare così, ma il re aveva una nomea orribile.»
All’udire la reputazione del padre messa alla sbarra, Shaeta trattenne il fastidio. A prescindere, era l’occasione perfetta per investigare ciò su di cui non era stato messo al corrente e rinvenire notizie esterne sull’uomo arcigno e freddo che lo aveva messo al mondo. Per essere certo che amasse l’Irravin e i suoi sudditi.
E anche me.
«Orribile?»
«Sono chiacchiere.»
«Sono curiosa, raccontami.»
Evlare sussultò: la mano che all’improvviso le aveva serrato il braccio aveva una forza insospettabile.
«Me ne ha parlato la mamma per mettermi in guardia. Qualche anno fa sono sparite alcune nostre coetanee. Hanno oltrepassato le mura della reggia e non ne sono mai uscite. Namta ha garantito che se ne sarebbe occupato, ma non ne è venuto a capo.»
«Quale colpa avrebbe, dunque? Incompetenza?»
Evlare rabbrividì, dimostrando che non li considerava semplici pettegolezzi.
«Si vocifera di strani riti all’interno delle sue stanze private.»
Shaeta aggrottò la fronte, seccato da quel cumulo di idiozie.
Ho vissuto lì! Non è accaduto alcunché di sinistro!
«Cioè?»
«Sacrifici di vergini.»
«Cosa!? E che prove ci sono?»
Dovette mascherare il tono brusco e mascolino con un paio di colpi di tosse. L’altra non parve farci caso e continuò.
«Nessuna, ti ho anticipato che si tratta di voci. Le scomparse si sono fermate dopo che Namta ha preso moglie e anche sul matrimonio corrono dicerie raccapriccianti.»
Il principe si levò, lasciando cadere il ricamo. Quando Danyal gli aveva raccomandato di tenere i nervi saldi, non aveva immaginato che sarebbe stato tanto difficile. Poteva accettare le insinuazioni sul caratteraccio del padre, mai su sua madre. Deglutì un groppo di saliva e tentò di raffreddarsi.
«Scusa, ho bisogno d’aria. Non mi sento bene.»
«Mi dispiace di averti turbata. Parliamo d’altro.»
«No, continua. È colpa del… ehm, periodo. Respiro male.»
Evlare aggrottò la fronte, sicura di non aver sentito sintomi del genere. Ma Aladi era una ragazza strana, forse così la sua femminilità.
«So solo che Amshula era davvero giovane e che il re avrebbe dovuto sposare una sua parente.»
Shaeta conosceva la vicenda. Suo padre era stato colto da un colpo di fulmine per sua madre e l’aveva preferita alla cugina. Quella si era chiusa nel tempio di Amathira per la vergogna e la famiglia, offesa dalla rottura del fidanzamento, aveva sparso accuse infamanti.
Ascoltò con discreta noia, mugugnando fra sé che non sarebbe venuto a conoscenza di un bel niente. Appoggiò il gomito al davanzale e scrutò il cielo plumbeo. Un’ombra sfrecciò tra le nubi, celata dalla coltre grigia che sfiorava il suolo. Gli si gelò il sangue. Indietreggiò ansimando, inciampò nell’orlo della gonna e ruzzolò a terra.
«Dobbiamo nasconderci! Adesso!»
Evlare gettò un’occhiata all’esterno, ma non vide che boschi tinti di rosso e giallo: il paesaggio familiare che abbracciava il tempio di Azalee, le fontane, i sentieri di pietra e il patio con l’ara bagnata di pioggia.
«Si può sapere che ti prende?»
Lui prese a tirarla, guardandosi intorno a caccia di una via d’uscita.
«Non devono sentirci! Dobbiamo mascherare il nostro odore!»
«Così mi fai paura!»
«Meglio averne. I Khai sono qui!»
 
Sheratan scambiò un sogghigno con la reikan che lo affiancava: erano sulla strada giusta da quando si erano scervellati sul luogo meno interessante del regno.
«Sei diabolica, Taygeta. Non ci sarei mai arrivato.»
«Mia figlia Dasmi ha ascoltato i discorsi degli schiavi giù al campo. È stato sufficiente capire quale fosse il loro principale assillo.»
Il generale abbracciò con lo sguardo la valle che ospitava il santuario di Azalee: non era difeso e al suo interno si trovavano soltanto persone inermi.
«Rispetteremo l’edificio, la dea della Pioggia è stata preziosa al sommo Belker.»
Lanciò il segnale d’attacco. I cavalieri alati planarono sulla costruzione, innescando le erbe urticanti: in pochi minuti il fumo saturò gli ambienti, stanando anziani, donne e bambini, che si riversarono nello spiazzo antistante acciecati dai miasmi.
«Cercate il principe!» ordinò la reikan.
Schierarono i ragazzini davanti al primo generale, agguantandoli per i capelli per indurli a sollevare i visi terrei. Costrinsero sulle ginocchia le vestali, che non opposero resistenza.
«Prestate ascolto, shitai!» tuonò Taygeta «Consegnate l’erede al trono e non vi sarà tolta la vita! Tacete e morirete!»
Gli ostaggi si guardarono senza capire, ma non osarono aprir bocca temendo che il loro negare avrebbe provocato l’adempimento della minaccia.
«Chi tra voi è la prima sacerdotessa?» li interrogò Sheratan.
L’interpellata trasalì nel farsi avanti. Tremò davanti alla sua imponenza, alle corna nere, al luccicare feroce delle zanne, allo sguardo di ghiaccio verde. La cicatrice che lo sfregiava era l’unico segno che lo avvicinava a un essere umano, ma non lo rendeva meno spaventoso.
«Non si trova qui, lo giuro sulla dea!»
Le labbra di lui ebbero una contrazione. La afferrò per il collo e le affondò gli artigli nella carne: un rivolo di sangue scese lungo la gola e si perse nello scollo della veste.
«Quelli come voi non hanno onore. Perché credere alla tua parola?»
«Mio signore, non ho ragione di mentire! Vi prego, risparmiateci!»
«Si tratta di capire il tuo ordine di priorità, pithya. È più preziosa la vita del tuo principe o quella di questi mocciosi? Ogni negazione comporterà un sacrificio, magari sarà il tuo frutto il primo a offrissi al divino Belker.»
Al cenno del generale, un reikan sguainò la spada e la posizionò al collo di un bambino, che si rattrappì a terra congelato dalla paura.
«Non fategli del male! Il principe è a palazzo!»
«O forse» riprese asettico Sheratan «Vedendoti perire, si farà avanti qualcuno più collaborativo di te.»
 
Celato tra i cespugli, Shaeta avvertì il gelo di invisibili artigli. Era sbucato da un passaggio secondario appena in tempo per sfuggire alla caccia, gli occhi arrossati dal fumo e il respiro accelerato dall’angoscia. Rannicchiata al suo fianco, Evlare tremava, il volto e gli abiti sporchi di terra per fuorviare il fiuto di quei mostri assassini.
Se non avesse riconosciuto la sagoma del vradak, sarebbero stati catturati con gli altri. Per la prima volta non si pentì di aver disobbedito alla madre, che gli aveva vietato di assistere ai combattimenti. Si sentì invece in difetto a celarsi come un vile, consentendo che la sacerdotessa venisse seviziata.
Lei non lo sa! Non sa che Aladi è Shaeta!
Fremette di rabbia, facendo scricchiolare le foglie. La compagna lo afferrò per una manica, posandosi un dito sulla bocca. Un nulla e sarebbero stati scoperti.
Inghiottì un groppo d’ansia. Le gambe erano pesanti come tronchi di quercia. Distolse lo sguardo per non vedere gli artigli del demone squarciare la gola alla donna.
Evlare soffocò un grido e si piegò tra i cespugli, scossa dai conati di vomito. Shaeta la sorresse, sforzandosi di tenere a bada la nausea.
«Perché l’hanno uccisa? Perché non li portano via e basta?» ansimò disperata.
Cercano me. Sanno che sono qui. Forse qualcuno ha tradito.
Le strinse la mano in un rassegnato dolore. Se si fosse rivelato, sarebbe stato usato come arma di ricatto e giustiziato a titolo esemplificativo. Se fosse rimasto al sicuro, la sua gente sarebbe morta a causa della sua pusillanimità.
Che devo fare!? Qualcuno mi aiuti!
«No!»
Il gemito dell’amica lo riportò alla realtà. Si tese allo spasmo quando vide che il guerriero con la spada stava calibrando il colpo sul ragazzino raggomitolato ai suoi piedi. Le vestali imploravano mercede con grida strazianti, ma quello non ne pareva toccato.
Nessuno di loro conosce la verità! Moriranno senza una ragione!
Shaeta si levò, il fiato che usciva dalle labbra tirate in rapidi sbuffi bianchi.
«Aladi! Che vuoi fare!?»
«Non muoverti! Promettilo, Evlare. Qualunque cosa accada, fuggi. Avvisa il generale Danyal!»
La ragazza sbalordì: la schiva compagna era così diversa, così decisa. Le iridi brune, ombreggiate dalle ciglia imperlate di lacrime, scintillavano irate sul viso imbrattato di fango. Persino la voce aveva acquisito una sfumatura dura e autorevole. Era un’altra persona o era impazzita per la paura.
«Non capisco» balbettò intimidita.
«Lo so. Perdonami.»
Shaeta schizzò fuori dal nascondiglio, sollevando l’abito per non inciampare.
 
Taygeta lo prese alle spalle prima che raggiungesse al recinto.
«Rientri dalla passeggiata o vuoi crepare con le tue amiche?»
«So dov’è il principe, piantatela di spargere sangue!»
La reikan inarcò un sopracciglio. Poi gli rifilò un ceffone che lo scaraventò a terra.
«Questo per la tua insolenza. Ne verranno altri se mi prendi in giro.»
Lo spintonò in avanti, facendo cenno al suo superiore. Shaeta era troppo impegnato a invocare gli dei per cogliere il lampo di consapevolezza nel suo sguardo.
«Parla!» tuonò il demone.
«L’erede al trono è al tempio di Amathira. È abbandonato, nessuno lo ricorda.»
«Quale disinvoltura nel riportarcelo» sogghignò il generale «Gli altri erano disposti al sacrificio pur di tutelarlo.»
«Quel moccioso viziato era arrogante con noi servitori, invece al santuario sono stati gentili. Preferisco che siano loro a sopravvivere.»
«Ti vedo decisa, ragazzina. O dovrei dire ragazzino?»
Shaeta impallidì sotto lo strato di mota. Aver inteso che era un maschio non avrebbe comportato nulla, se non avesse carpito la sua identità. Non c’erano prove.
La reikan gli stracciò la parte superiore della veste per accertare l’informazione. Fece per colpirlo, ma Sheratan la fermò.
«Sono curioso di ascoltare il motivo per cui si è infilato tra le adepte di Azalee. Se lo scrolli troppo, rischio di tenermi il dubbio.»
Il principe annaspò in cerca di una scusa, con la netta sensazione di essere un verme al cospetto di un serpente.
«Ho scommesso con un gabelliere. Ho bisogno di soldi.»
Il generale socchiuse le palpebre con una certa ammirazione.
«Inventi delle fandonie niente male. Complimenti, altezza.»
«Io non…»
«Basta! Sei il ritratto di tua madre, persino il tuo odore ricorda il suo. Forse, se fossi rimasto nei tuoi panni, non ti avrei riconosciuto e saresti durato. Taygeta!»
«Conosco il luogo adatto a mettere alla prova il suo coraggio» intervenne lei, irritata per aver mancato il colpo «In fondo ha il cuore di un guerriero.»
«A tuo piacimento, ma ricorda che il Kharnot lo vuole vivo.»
Shaeta sentì la paura scendere nelle viscere, ma si appellò a ciò che aveva udito.
«Risparmiate la mia gente! Lo avete promesso!»
«Un Khai ha una sola parola» ribadì Sheratan «Sceglierete se piegarvi o morire.»
Il principe avrebbe voluto rispondere a tono, ma lo tenne per sé. Seguì la reikan sotto gli sguardi sgomenti delle vestali e stabilì di sopravvivere a ogni costo. Di provocare il miracolo necessario a salvare il suo popolo dalla rovina.
 
Eskandar abbassò il cappuccio sugli occhi ciclamino. La chioma blu, tinta di corvino, si confondeva con i capelli bruni dei minkari, l’epidermide possedeva una naturale sfumatura dorata che lo avvantaggiava nel camuffamento. Nessuno avrebbe pensato a un Khai, a meno che non avesse notato il taglio verticale delle pupille e le zanne. Ma sapeva tenere la bocca chiusa e la penombra era utile a celare il resto.
Aveva faticato a trovare una divisa adatta al fisico aitante, che non fosse quella di un ufficiale o di un cavaliere per evitare le riunioni tra graduati. Le lavanderie avevano fatto al caso suo e, abbigliato come un anonimo nemico, si era messo a cercare.
Era spiacevole non sentire il peso delle spade al fianco, più ancora aver tagliato gli artigli: tutti tranne uno, celato sotto le bende che gli stringevano l’indice.
Per Mahati mi trancerei la destra.
Aveva trascorso gli ultimi giorni al quartiere degli arcieri: non aveva dubbi che l’essenza mortale fosse stata scagliata tra i dardi piovuti nel fossato, ma i soldati non ne avevano parlato e l’esame delle armi non aveva dato risultati. Così aveva deciso di indagare in un’altra direzione.
Dove diavolo saranno i laboratori in cui producono la polvere incendiaria?
Due cameriere gli passarono accanto, riservandogli un’occhiata civettuola e scambiando sorrisetti maliziosi. I commenti che giunsero al suo udito sensibile furono parecchio lascivi. Pensò fosse l’occasione per mettere alla prova la sua pronuncia.
Tutte le corti sono identiche, le serve ne sanno più dei re. Inoltre, se si accorgessero che non sono dei loro, sarebbe elementare sopraffarle e nessuno si insospettirebbe per la scomparsa.
Sapeva come sedurre una donna. Era consapevole del proprio fascino e non esitava a servirsene. Persino le dorei, che si offrivano ai vincitori solo per conservare la vita, si litigavano il suo letto.
Attirò la loro attenzione, tenendosi il dito come in preda a un dolore insopportabile e la farsa funzionò: le ragazze prestarono più attenzione ai suoi muscoli che alla sua inflessione imperfetta. Una si offrì di accompagnarlo all’infermeria, suscitando la stizza della seconda, che si allontanò seccata in un fruscio di gonne.
«Vi sono debitore, signora. Temo di essermi ferito con una punta avvelenata, il dito è gonfio, non riesco a usare l’arco.»
«Non preoccupatevi! I dispensari del palazzo sono forniti. Il responsabile mi deve un favore, vi concederà accesso prioritario agli antidoti.»
«Chissà se scopriranno di che si tratta. Vorrei tornare a combattere.»
«Non temete! Il capo alchimista è un genio!»
«Non sarà la solita vanteria degli uomini di scienza?»
«Oh no! La regina ha piena fiducia. Anzi…» aggiunse abbassando la voce e prendendolo sotto braccio «Ho sentito che sta sperimentando un composto. Se fossi un Khai, leverei le tende.»
«Davvero? Sono informazioni delicate, spero corrispondano a verità.»
«Certo che sì! Promettetemi di non dirlo in giro!»
Svoltarono per un corridoio secondario e scesero la scala che conduceva ai sotterranei, prendendo una direzione diversa da quella delle lavanderie. Superarono la porta sbarrata e la servetta salutò le guardie.
«Vi sono riconoscente, non so come sdebitarmi.»
«Un modo ci sarebbe» rispose lei «È solo il vostro dito a essere gonfio?»
   
 
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