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Autore: RuWeasley    30/11/2021    0 recensioni
ripenso che ogni 'come stai?' tu mi abbia chiesto sia servito solo a riuscire a legittimarti in un posto poco confortevole, come le mie gambe, come il divano di casa, come il sedile della mia macchina.
dodici racconti autoconclusivi di epiloghi imbarazzati, romanticismo abbozzato, cuti sfiorate, sguardi sommessi - un manifesto sulle emozioni lievi, su come non ci sia niente da imparare.
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Raccolta | Avvertimenti: Tematiche delicate, Threesome | Contesto: Contesto generale/vago, Universitario
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su instagram sembrava molto semplice e molto politico anche se io onestamente non lo sono veramente così tanto. ho solo letto due libri della minimum fax di maschi bianchi cis-etero dall’ego un po’ troppo espanso su come l’industria culturale è un braccio del neoliberismo. lei è molto di sinistra in ogni caso, e ogni volta citava i filosofi come se fossero delle band molto famose dei primi duemila - nel senso che non ne coglievo davvero i riferimenti. io mica ho letto niente di bakunin. lei usa tantissimo rate your music, conosceva tutte le cose che le ho mandato. mi ha fatto una playlist, drip woop splash, in realtà non mi ha detto che c’era solo shoegaze e mi ha colto impreparato ma mi è piaciuta ed io sapevo cosa fare: le ho chiesto di uscire. era estate e domenica, ed io ero piccolino, avevo il mio fedelissimo centoventicinque recuperato da una discarica e dei caschi un po’ rotti, e mentre lo tiravo fuori dal garage guardavo il cielo turchese senza nemmeno una nuvola. una bellissima giornata! normalmente quello che accomunava tutte le domeniche senza i miei genitori era sempre la noia, il mio non voler mai mangiare da solo. alla fine però non sapevo mai a chi scrivere, chi chiamare - di domenica è proprio facile sentirsi di troppo. però quella domenica era diverso! lei mi aveva risposto! sempre su instagram. credo che non avessi ancora sentito la sua voce, lei la mia non l’aveva sentita di sicuro perché io gli audio non li faccio mai. quindi ho chiuso il garage e ho iniziato a correre, con la mia t-shirt eccessivamente grande che si gonfiava per il vento. lei abita un po’ lontano, ci ho messo dieci minuti e poi le ho scritto

hey! io sto qui

mettevo ancora la h per scrivere ‘ei’ alle persone, un dettaglio che ho cambiato per ragioni non troppo precise. forse ora sono solo più pigro, forse ho capito qualcosa. quando lei è scesa di casa ci siamo salutati ed era super imbarazzata. non mi ha riconosciuto immediatamente e io le ho fatto un po’ un cenno con la mano, avevo ancora il casco. io le ho guardato molto il naso e poi ci siamo abbracciati e la cosa non è sembrata molto naturale.

come va?

lei mi ha risposto, io non ho veramente elaborato la risposta. le ho dato uno dei caschi un po’ rotti. avevo due caschi: uno nero e uno grigio, entrambi dei mezzi che se malauguratamente avessi fatto un incidente mi sarei crepato il cranio facile facile, però quello nero aveva il laccio che funzionava bene e per questo senza pensarci era sempre quello che mettevo io. quando partivo da casa ero sempre da solo, dopotutto. dopo nemmeno tre isolati, in un incrocio che normalmente è pieno di macchine, persone, ansiette, di quelli che in bici non li vuoi veramente fare, ho sentito un urto e lei mi ha fatto

fra fra fra guarda che mi è caduto il casco

credo di aver inavvertitamente fatto una faccia un po’ brutta un po’ stupita, ho accostato in un punto veramente criminale ed ho recuperato il casco. non c’era neanche una macchina. di domenica in estate non c’è veramente un cazzo in questa maledetta città. lei è rimasta vicino alla moto e le ho dato il mio casco. tremava e la sua voce aveva i nodi. l’ho guardata per pochissimo, mi sentivo tantissimo a disagio, ma sembrava proprio un ragazzino. lei aveva i capelli corti da pischello, il viso un po’ magro però tondo abbastanza da sembrare piccolino. le labbra sottili e un naso molto molto buffo. credo che proprio tutto quel giorno le ho guardato troppo il naso, era come gonfio sulla punta però pallido pallido, come la sua carnagione un po’ delicata. si insomma, da ragazzino mi ha guardato e da ragazzino ha deglutito quando è risalita sulla moto ed io, con il casco grigio, andavo piano. da quel giorno il casco grigio me lo sono sempre messo io. ho buttato prima il motorino di quel casco, fino alla fine. quando siamo arrivati al garage ho messo la moto dentro e dato che ancora non sapevo che cosa avrei cucinato - le alternative erano poche e precotte, ugh - ho deciso che avremmo potuto mettere della musica e decidere insieme sul divanetto un po’ lercio del mio garage. il garage ha quattro angoli e basta, è questo buffo quadrato-scantinato dalle mattonelle lerce e il soffitto alto, altissimo. poggiato alla destra del divanetto verde c’è un giradischi. era poggiato lì per terra e accanto stava una cassetta della frutta con dentro tutti i miei vinili. saranno stati una ventina, tutte ristampe. il più vecchio sarà uscito dalla fabbrica cinque anni fa. le ho fatto vedere che però ho tutta la discografia dei radiohead, perché volevo fare un po’ lo sgargiante e lei mi ha preso in giro. ci siamo sorrisi con una naturalezza che a me è scemata in fretta. faticavo a immaginare che con lei ci avessi passato così tante ore a chattare. però poi penso che di parlare parlavamo sempre di musica quindi avrei fatto meglio a mettercelo un vinile a riprodurre. ho tolto in rainbows dalla sua custodia in carta e accovacciato ho acceso il giradischi per poi abbassare la teca di plastica. quando mi sono alzato ho guardato per qualche istante la composizione calzini-giradischi-ciabatta-stereo-cavi ed ho realizzato che forse ci provavo un po’ troppo a sembrare sciatto. però poi è partita 15 step e mi sono seduto di nuovo sul divano, ho alzato il volume ruotando il piccolo potenziometro del mio impianto di fortuna e tutto è diventato più liscio, più piacevole, e la chiacchiera a metà di cinque minuti prima ha iniziato a funzionare bene. era un’ora da quando la sono andata a prendere, quaranta minuti da quando siamo entrati nel garage e otto minuti dall’inizio dell’album. è partita nude, lei mi ha poggiato la testa sulla spalla ed io mi sono semplicemente sentito fuori luogo perché lei non mi piaceva. una conclusione lineare che realizzo solo ora. stavo ascoltando nude e non l’ho nemmeno guardata negli occhi, sono solo sprofondato sul divano e le ho porto la guancia e senza averle guardato le labbra più di una volta ci siamo baciati ed io nella mia testa avevo ancora l’immagine di lei che mi guarda come un ragazzino spaventato. mi sembrava aver senso che le cose andassero così. da all i need in poi mentre ci baciavamo io avevo gli occhi aperti. lei non li apriva mai ed io mi sentivo strano e non capivo. le ho guardato le gambe e ho poggiato una mano sulle sue ginocchia. i jeans erano di quelli un po’ sottili, dalla stoffa invecchiata chimicamente dei negozi fast fashion. le cadevano strani sulle sue dr martens basse e, mentre le guardavo con la coda dell’occhio, ho pensato che anche le sue scarpe avessero senso così. quando le ho messo le mani sui fianchi ho avuto la decenza di chiudere di nuovo gli occhi e lei all’improvviso ha deciso di essere intraprendente e decisa e provando a posarsi su di me mi ha dato una ginocchiata. non mi sono fatto male ed abbiamo continuato per qualche minuto però la ginocchiata allo stomaco mi ha ricordato che dovevamo mangiare. mangiamo cordon bleu e insalata, su a casa, ricetta preparata in un quarto d’ora netto che lascia spazio a una discussione veramente inaspettata/dubbia su hegel. io non ce l’ho di certo un’opinione su hegel, perché l’abbagnano è un libro di merda e il liceo l’avevo appena finito. anche basta. mi piaceva di più parlare di musica, mi piaceva di più parlare e basta, mi piaceva scriverle quando mi annoiavo. mentre le stavo riempiendo un bicchiere d’acqua ho guardato fuori dalla finestra della cucina e il cielo turchese mi è sembrato soffocante invece, ho pensato che mancano ancora tantissime ore al tramonto e il sole mi aveva già rotto il cazzo. non avevo un’idea molto chiara di cosa mi stesse davvero turbando in quel momento, evidentemente. il salotto di casa dei miei è piccolo e subito dopo pranzo è particolarmente buio. metto la musica dalla cassa del telefono e ci stendiamo sul divano per pomiciare come i ragazzini, senza che si vedesse granché. le ho toccato il culo perché ormai eravamo stesi e più toccavo i suoi jeans e meno pensavo a lei. ho riaperto di nuovo gli occhi a un certo punto ed ho solo ascoltato la musica: a quel punto ho realizzato di odiarmi un pochino - non posso baciare una persona solo perché ci sono i radiohead di sottofondo. lei si è tolta la sua camicia a quadri ed io ho ignorato la cosa. quella sera non l’ho riaccompagnata a casa, non me la sentivo.

siamo andati a piedi insieme fino in stazione, ci siamo baciati ed io mi sono innervosito da morire: questa è l’ultima volta che non ascolto tutto, che non metto insieme tutti i pezzi, che mi faccio fregare da buffe angolazioni nelle foto, che esco con una ragazza del classico, che parlo di chomsky con una tipa su instagram. mi sono fatto tutta una lista di cose stupide che mancava di una cosa: non posso farmi qualcuno solo perché mi piace la musica che ascolta.
c’era una parte del concetto però che non ho afferrato, qualcosa della giornata, su cui non mi sono fatto abbastanza domande; un punto della lista che se avessi sviscerato abbastanza avrei capito davvero qualcosa di me! come mi vivo davvero i rapporti? che significato hanno davvero le mie conversazioni con le persone? avrei potuto capire, avrei potuto capirmi! bastava poco!
un giorno lei ha cancellato il suo account di spotify. da lì ho smesso di pensarci.

 // bent (roi’s song): la canzone che usciva dal telefono quando decido che non avrei continuato ad avere gli occhi chiusi durante il limone sul divano di casa mia. l’ho ascoltata con molta attenzione
   
 
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