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Autore: JSGilmore    02/12/2021    1 recensioni
Rachele ha sedici anni e due fratelli, Elia e Filippo, che non potrebbero essere più diversi tra loro. Elia è avventuroso, indipendente, un viaggiatore con l'ossessione per il mare, e dopo la morte del padre gli hanno affibbiato il ruolo scomodo di capofamiglia, forse è per questo che ha sempre quel fastidioso atteggiamento paternalistico. Filippo, d'altro canto, è legato visceralmente alla terra ferma, alla sua casa, alla famiglia. Entrambi hanno una passione in comune: Rachele, la sorella, che di sorella sembra aver ben poco. Tutto comincia quando Elia torna a casa dopo tre anni passati in mare a girare il mondo in barca a vela, le cose a casa sono cambiate, Rachele è cresciuta e Filippo è diventato più possessivo nei suoi confronti...Quasi quanto lui.
Qual è il mistero che si cela dietro la loro famiglia? Di quali segreti Rachele sembra essere all'oscuro?
Un'avventura, un segreto, un mistero, un amore impossibile. Sullo sfondo una meravigliosa Isola d’Elba.
"E ricordati di non avere paura del vento, perché muove il mare e lo preserva dal diventare melma".
Escape vi aspetta in questa versione "inedita" con contenuti extra non presenti su Wattpad.
(Crediti: storia Liberamente ispirata a Georgie e Outer Banks)
Genere: Avventura, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Incest | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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La luce splendente del primo mattino, la barca, il cielo di latte, e una radio che trasmetteva dolci canzoni americane erano tutti elementi di uno strascicante risveglio: forse stavo ancora sognando.

Sul ponte c’era uno zaino militare aperto, da cui sbucava un binocolo, e sopra, appoggiate malamente, un paio di Vans Old Skool logore, numero quarantacinque.

Elia mi aveva salvata da un incubo come si tira fuori dall’acqua un naufrago, nel bagliore rosato dell’alba; la prima cosa che avevo visto erano i chiarori che entravano a fiotti dalla finestra, la federa lillà del cuscino corpulento, il paralume impolverato, poi il suo sorriso sghembo: «Ti porto a pescare, dormigliona.»

Nostra madre ci aveva chiesto dove stessimo andando. «Al porto», aveva detto Elia, e mi aveva fatto scudo con il suo corpo. Mi ero sentita gracile e nuda, avevo indosso abiti di cui in un’altra circostanza lei avrebbe riso. Avevo guardato il salotto, alle spalle della figura sconsolata di mia madre. Sedie imbottite, uno scrittoio antico, una lampada a stelo, mobili raffazzonati, disposti arbitrariamente come in una vendita ad asta. Un posacenere strabordante di sigarette sul tavolo: Filippo, forse, aveva passato l’intera notte sveglio a fumare.

«Che ci andate a fare?», mamma non si muoveva.

«A pescare», aveva detto Elia, «Che ti importa?»

Nessuna risposta, solo una rapida occhiata nella mia direzione, un’impercettibile alzata di spalle, che avrei ricordato per sempre. «Prima o poi, voi figli mi farete dannare.»

Non si riferiva a me mia madre, era come se mi avesse già perso, era come se non mi avesse mai avuta, una figlia invisibile, mai esistita, una profuga in una terra febbricitante. Lei parlava ai suoi figli, ai maschi, di cui temeva la perdita, l’abbandono, e ne parlava con gli occhi spiritati nel cranio, con la persecuzione di una madre sofferente.

Mia madre, Sandra, portava le calze anche d’estate, anche con l’afa, con il caldo umido che scrostava l’intonaco delle case, sotto vestiti deformi e scuri, rammendati, casti, deterrenti contro gli scandali. Non buttava via mai niente. Nemmeno le scarpe scalcinate. Ogni cosa presente in quella casa, persino le crepe dovute alle infiltrazioni, diceva, se l’era guadagnate con sacrificio. Cosa ne sapete voi dei sacrifici che compie una madre. Il suo viso era tirato dal dolore, il suo viso era ceduto prima del tempo, crollato senza preavviso, tutto insieme, ma lei non se ne era accorta.

Suo figlio. Elia. Una faccia da schiaffi, un sorriso arrogante, bello, con un cerchietto d’oro all’orecchio sinistro da zingaro, un me ne frego gigantesco scolpito in viso: quella vita che gli scorreva dentro la sbatteva in faccia a chiunque osasse guardarlo.

Elia.

Dalla sua fronte ramata piovevano ciuffi dritti e scuri, i tratti del viso affilati, congestionati, gli occhi che sondavano il mare come se vi leggesse qualcosa. Io non vedevo altro che un gran deserto, un’immensa tela di diverse gradazioni di azzurro estesa all’infinito, acqua che scorreva sorda come il sangue nelle vene, un luogo da sorvolare come i gabbiani che nitrivano e si levavano a raffiche nel vento.

Eravamo sulla Rally Roger da più di due ore e non avevamo pescato nulla.

Un cappello di feltro color panna con un nastro nero, morbido, mi copriva e nell’ombra scrutavo mio fratello. Elia indossava una camicia di cotone bianca, slacciata, e arrotolata sulle maniche. Se ne stava seduto sul ciglio della barca, inerte, come una lucertola su un cornicione arroventato. La moneta centenaria che portava al petto brillò. La sua voce era roca, vellutata. «Ti stai annoiando?»

«No, ma a dire la verità non capisco cosa ci trovi di bello nella pesca. Voglio dire, mentre te ne stai qui seduto ad aspettare, non succede niente di eccezionale»

La luce stava diventando sempre più calda, tagliente e inclinata.

Alzò vagamente le sopracciglia, oppure aggrottò la fronte. «Sei seria?», scrollai le spalle e per fare qualcosa mi aggiustai il vestito blu, lui continuò, «Prima cosa: ci stiamo muovendo a millesettecento chilometri all’ora attorno all’asse terrestre, e nel frattempo in cui ce ne stiamo qui a battere la fiacca, come dici tu, l’universo si sta espandendo a settanta chilometri al secondo. Questo lo chiami niente di eccezionale, eh?»

«In questi termini, allora, anche guardare il soffitto potrebbe essere paragonato a un evento straordinario…»

«Seconda cosa, parli in questo modo perché non sei mai stata su un peschereccio thailandese.»

Thailandia: immaginavo lo spasso, dai bar bordello alle massaggiatrici speciali. «Tu sì?»

Sorrise, un po’ compiaciuto un po’ modesto, sul fondo di un’espressione lugubre. «Sì, di tanto in tanto mi imbarcavo su navi o pescherecci locali. Pagavo i capitani per farmi imbarcare, volevo scattare foto e vivere in mare realtà diverse, volevo fare esperienza. A più di cento chilometri dalla costa thailandese, una trentina di ragazzi cambogiani lavoravano scalzi fino a notte fonda. I cavalloni erano altri quattro metri e mezzo, almeno, e ci sferzavano i polpacci. Schizzi d’acqua e interiora di pesce rendevano il pavimento scivoloso come una pista di pattinaggio. Sul ponte trovavi di tutto, ma più di ogni altra cosa attrezzi pericolosi come i verricelli rotanti che mozzavano le dita ai marinai. Non importa che tempo faceva, poteva venire giù anche pioggia di sabbia, si lavorava tra le diciotto alle venti ore al giorno. Si lavorava sempre. Di notte, l’equipaggio gettava le reti perché i piccoli pesci argentati, di solito aringhe o sgombri, diventavano più riflettenti e quindi facili da pescare nelle acque scure. Di giorno, i marinai separavano il pescato, oppure riparavano le reti lacerate. Si lavorava anche con quaranta gradi, senza sosta e l’acqua potabile veniva razionata. Quasi tutti i ripiani brulicavano di scarafaggi e per andare al cesso non ti dico. C’era anche un cane spelacchiato di bordo, lo avevo chiamato Tobia, che alzava a stento la testa quando i ratti mangiavano dalla sua ciotola. I ratti scorrazzavano liberi come scoiattoli di campagna. I ragazzi cambogiani mi hanno insegnato come si cuce una ferita, anche se a bordo non me ne sono mai procurata nessuna. Loro invece avevano le mani distrutte», si guardò le sue, come a misurarne la grandezza in proporzione al mare, «Non si asciugavano mai del tutto, quindi avevano ferite aperte, squarciate dalle scaglie dei pesci e dalla frizione delle reti, se andava bene. Se andava male, come ho detto, dita mozzate. Ovviamente, niente antibiotici a bordo, solo droga. Alcuni venivano picchiati, spesso per stupidaggini, per impazienza. Erano praticamente degli schiavi. Ho conosciuto per la prima volta la disumanità del mare.»

Questi particolari sul suo viaggio non li aveva mai raccontati in presenza di Filippo, era la prima volta che ne parlava, e lo stava dicendo a me. Altro che spiagge dorate e tramonti bellissimi, il suo viaggio non era stato solo un sogno come voleva far credere. Ne fui lusingata che me ne avesse parlato. «Ma perché allora si imbarcavano?»

«Molti di loro non sapevano neanche nuotare, e non parlavano la lingua dei capitani. Venivano dall’entroterra, senza la minima idea di che cosa significasse andare per mare a quelle condizioni. Erano costretti per via dei debiti da pagare. Non si va in mare, da quelle parti, se non è l’ultima scelta che rimane.»

«Il mare non era come te l’aspettavi, non è vero?»

Sorrise, come sopraffatto da una gradevole desolazione, da una sofferenza che aveva soffocato e che stava riaffiorando all’improvviso, insensata e indecifrabile. «No, in effetti, no. Anche se può apparire sterminato e onnipotente, è anche fragile. Papà lo sapeva bene, questo, essendo un ladro di relitti.»

La domanda mi uscì spontanea. «E tu cosa sei?»

Sembrò ridere di sé stesso. «Un figlio di puttana.»

Non abitare da nessuna parte, non avere una casa per anni, vivere da nomade: non riuscivo a immaginare cosa poteva aver provato, benché gli invidiassi l’audacia. Glielo avevo chiesto, ma nel profondo lo sapevo già. Lui era un marinaio, perché anche nella calma e nel silenzio, con i tratti del volto immobili e le narici appena dilatate, analizzava il mare ed era come se gridasse: un grido potente che non si disperdeva nel vento e nelle onde, ma sovrastava i fischi e i lamenti del mare, un grido da re.

«Qual è stato l’aspetto più bello che ricordi del tuo viaggio?»

«Il silenzio», disse, «perché era così pieno di cose, non ci sono vuoti quando sei solo sulla barca, esisti e basta»

«E cosa facevi per passare il tempo?»

«Pensavo. Oppure, leggevo. Non ci crederai, ma ho letto tanti romanzi, e soprattutto poesie», si schiarì la gola, «poi però ho iniziato a frequentare i porti, i locali, le ragazze. Tante ragazze.»

Non era cambiato. Mio fratello aveva sempre letto, passava spesso interi pomeriggi stravaccato sul divano a sfogliare pigramente qualche libro preso in prestito dalla biblioteca, dandosi l’aria dell’intellettuale: a Elia piaceva leggere, perché una discussione approfondita su Freud gli garantiva non poche conquiste, ma le ragazze con cui se ne andava a zonzo erano tutte uguali, sembravano fatte con lo stampino. Alte, slanciate, sportive, con lo sguardo omicida. L’adolescenza, quel periodo tristemente noto per un accumulo sconveniente di sbronze, erudizione e indisciplina, castigava all’imbecillità un po’ tutti ma Elia era sempre stato il bersaglio perfetto.

«Non guarirai mai, vero?»

«Dall’amore per le donne?», ridacchiò, «Non è così grave, si può curare. Sai invece cos’è che non si può curare?»

Scossi la testa, in direzione della costa frastagliata, della vegetazione verde scuro che incombeva su di noi.

«Il male di nostra madre», disse, «Quello non si può curare.»

Sollevai la testa e lasciai che il sole mi pizzicasse gli occhi. Il mare bagnava il cielo all’orizzonte. «Lo so.»

Forse era una malattia, o forse era un grande scoraggiamento nei confronti della stessa vita, un abbattimento contaminato dalle circostanze, che a volte era incontenibile, le infiammava gli occhi e i gesti, alle volte era più celato, più subdolo, e la ammazzava. La incatenava al buio, nel letto, tra il groviglio di coperte che sfuggivano al materasso, intorno a lei solo aridità. Non faceva avvicinare nessuno, in quelle occasioni, l’unico che poteva permetterselo era Elia, perché lei lo aveva sempre amato follemente, da ammazzarsi.

«L’importante è che lo sai», disse Elia e mi sbirciò da sotto le sopracciglia, «Non voglio che tu ci rimanga male, perché lei non cambierà.»

«Filippo dice che è ancora in lutto per papà, e che prima o poi le passa.»

«Scusa se te lo dico», però non sembrava affatto dispiaciuto che il discorso fosse uscito fuori, «Ma Filippo ne dice di stronzate.»

«Anche ieri sera? Voglio dire, cos’è che dovrei sapere, Elia?»

Si alzò e raggiunse il timone. «Oggi, mia piccola gabbianella, sei fortunata, perché ti porto a Cavoli. Basta pescare.»

La spiaggia di Cavoli era un piccolo golfo isolato dal mondo, circondato da scogli, e l’acqua era di un verde smeraldo. Lì vicino c’era la Grotta Azzurra: acqua gelata e sussurri che si propagavano inesorabili come boati.

A meno di un chilometro da noi, viaggiava uno Yacht. Estrassi il binocolo dallo zaino militare e misi a fuoco: persone con le Lacoste e gli occhiali da sole arrostivano la brace, volute di fumo si disperdevano nell’aria. Un ragazzo biondo era lontano, appoggiato al parapetto. Guardava il mare asettico, composto, ma riconobbi un certo tipo di disorientamento nel suo sguardo che era anche mio. Due iridi verdi, un casale di campagna annegato nel sole e tra il giallo dei girasoli, dipinte con pennellate di rigidità e mistero. Un paio di labbra tumide e rosse, un fiume in piena, limaccioso. Difficile dire se stesse sorridendo: gli angoli della bocca erano offuscati. Era il ragazzo biondino del Garden Beach.

«Elia», dissi, «La faresti una cosa impossibile per me?»

«Lele, niente è impossibile, se sei tu a chiedermelo», aspettò e aggiunse, «Cosa vuoi che faccia?»

«Raggiungere quello yacht, ho in mente qualcosa che ti piacerà di sicuro.»
   
 
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