Anime & Manga > Le bizzarre avventure di Jojo
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Autore: macabromantic    02/12/2021    3 recensioni
[ SPOILER ALERT: Stardust Crusaders / Stone Ocean / Diamond is Unbreakable || TW: ptsd / depression / flashbacks ]
[ Jotaro Kujo x Kakyoin Noriaki ]
...
Kakyoin aveva camminato fino alla stazione di Shibuya immerso nei propri pensieri. Arrivato al grande incrocio nel quale si snodavano numerose strade del quartiere alzò lo sguardo verso il semaforo.
Fu in quel momento che lo vide.
Alto, immensamente alto, sarebbe stato impossibile non riconoscerlo anche in mezzo a tutta quella gente. Sebbene fosse di un bianco smagliante, illuminato dai colori al neon che si mescolavano in piazza fra i toni del turchese e bluette, Kakyoin avrebbe riconosciuto quel cappello dovunque. Un cappotto lungo fino a terra, una pesante catena che scivolava dal lato sinistro del petto. Una sigaretta accesa tra i denti, la mano sinistra vicino alle labbra, quella destra infilata in tasca, una grossa busta di carta che pendeva dal polso.
Jotaro Kujo si trovava dall’altro lato della strada, con la fronte corrugata e gli occhi fermi sulle strisce pedonali. Quando il semaforo scattò dal rosso al verde, Jotaro sollevò lo sguardo e in quell’istante incontrò gli occhi di Kakyoin.
Il cuore gli si fermò nel petto, la sigaretta gli cadde dalle mani.
...
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi, Slash | Personaggi: Jolyne Kujo, Joseph Joestar, Jotaro Kujo, Noriaki Kakyoin
Note: Lemon, Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Capitolo 12

La prima stella


 
 
Jotaro li aveva seguiti stando tre passi dietro di loro, le mani ferme nelle tasche e nel petto un calore che non ricordava di poter provare. L’ultima volta che si era sentito in questo modo era stato quando aveva visto Jolyne per la prima volta. Piccolissima, con gli occhi ancora chiusi, stretta tra le fasce e le braccia stanche della madre. Ricordava di essersi sentito pervadere dalla sensazione di una fiamma che dal cuore lo aveva scaldato in ogni anfratto del corpo, sigillando nelle memorie ogni dettaglio di quel minuscolo essere umano che gli avrebbe cambiato la vita, la persona per la quale, da quel momento in poi, avrebbe combattuto affinché la sua vita potesse essere migliore. Solo un’altra persona, nel corso della sua vita, aveva avuto un impatto talmente forte sul cuore, ed era la stessa che adesso stringeva la mano di Jolyne.
Non credeva che un’immagine del genere si sarebbe mai presentata davanti i propri occhi. Sebbene ne fosse stato perseguitato per anni, non credeva che i fantasmi si potessero manifestare in carne e ossa, malinconici, eleganti, eppure pieni di vita.
Nel chiacchiericcio soffuso dei visitatori, di tanto in tanto si sentiva schizzare una risata o un’esclamazione di Jolyne e in quel momento gli occhi della gente andavano su quel trio dal bizzarro assortimento. Allora Jotaro abbassava lo sguardo, poi si rifugiava nei dipinti che li circondavano. Alzando le iridi, poco distante da sé trovò le rilucenze di Silver Chariot. Rallentò nei propri passi, con sguardo attento scrutò le braccia del Carro distese in un affondo e nelle pennellate di rosso che si perdevano nello sfondo Jotaro riconobbe gli orecchini di Polnareff. Non poté fare a meno di domandarsi come stesse. L’ultima volta che lo aveva visto era stato per una spedizione indetta dalla Fondazione Speedwagon.
Era capitato abbastanza spesso, nel corso di quei dieci anni, che a casa dovesse mentire sui motivi che lo spingevano a partire. A volte si trattava davvero di ricerca scientifica sui fondali dell’oceano, altre, invece, era perché in un mondo dove esistono i portatori di stand non sei mai realmente al sicuro. E Jotaro aveva promesso a sé stesso che Jolyne sarebbe stata al sicuro, che la voglia a forma di stella che aveva sulla spalla non se la sarebbe costata la vita se lui fosse stato capace di prevenire i prossimi mali. Così aveva incontrato Jean Pierre nel suo cammino, la Fondazione non aveva perso i contatti con lui ma aveva la terribile abitudine di parlare solo con nomi in codice o, ancora, di non informare sul serio i suoi dipendenti su quali colleghi avrebbero trovato una volta giunti sul luogo.
Jotaro scosse via i ricordi con un sospiro, dopodiché tornò a guardare Kakyoin e Jolyne. Ma erano spariti tra la gente, doveva essersi perso nell’ombra di Jean Pierre più del previsto. Decise allora di proseguire con il percorso suggerito dal museo, certo che avrebbe incontrato di nuovo la chioma scarlatta del suo ideatore. Voltandosi tra i pannelli che creavano l’intricato labirinto fatto di divinità dell’antico Egitto e arcani maggiori, Jotaro dovette fermarsi quando la sua attenzione venne catturata da una tela che brillava. Si trattava del quadro che rappresentava Death 13, sadica e deridente, con la falce stretta fra le mani e il corpo slanciato verso l’alto di un parco-giochi. I cambi prospettici utilizzati nel dipinto ricordavano il surrealismo escheriano, messo in evidenza dai luccicori delle foglie d’oro applicate in punti strategici, coriandoli che riflettevano l’ambiente circostante. Jotaro si ritrovò a pensare a quanto fu traumatico per Kakyoin l’incontro con quello stand, come lo avesse scalfito nel fondo dell’anima. Riprese a camminare con un sospiro, ma non passò molto prima di fermarsi di nuovo. Accadde perché in una di quelle tele riconobbe la chioma di Dio. Doveva trattarsi senza alcun dubbio di The World, eppure non riconosceva le sagome dello stand. Nel dipinto c’era Dio Brando, accartocciato in quella stessa posa che innumerevoli volte si era impressa nelle polaroid scattate da Hermit Purple e ciò che sembrava essere un intricato roseto si estendeva al cielo fino a fondersi con l’orologio spezzato di un campanile. Più lo guardava, più Jotaro aveva la sensazione che gli occhi di Dio brillassero, e mentre scrutava con attenzione la tela si accorse di un altro dettaglio: la presenza di acqua che bagnava le rose. Come una cascata, leggera e fredda, che in rivoli si insinuava tra i petali, trovando la sua fonte tra le crepe dell’orologio.
«È l’unico di cui non conosco l’aspetto.» Jotaro sobbalzò. Si era immerso così tanto nel dipinto da non essersi accorto della presenza di Kakyoin alla propria sinistra. Si voltò a guardarlo con uno scatto e questi rise a bassa voce. «Scusami, non ti volevo spaventare.»
Jotaro non disse nulla, abbassò le spalle in un respiro profondo e di nuovo tornò a guardare il dipinto. Lo sguardo traverso di Dio Brando, beffardo e arrogante, aveva una sensualità tale da mettergli i brividi.
«Perché le rose?»
La risposta di Kakyoin non arrivava e gli occhi di Jotaro cercarono i suoi. Non li trovarono, però, poiché intenti a ripercorrere le pennellate che avevano segnato ogni goccia d’acqua tra i boccioli.
«Perché...» Perché ogni volta che mi veniva vicino sentivo l’odore pungente di quei fiori. Perché nei miei ricordi c’è l’ombra confusa di un roseto e l’aria ghiacciata delle notti egiziane. Perché tutte le volte che sento la puzza delle rose nella mia testa torna il suo sorriso che si prende gioco di me. Ma le parole rimasero incastrate in gola. Trattenne il respiro, poi scosse il capo. Infine si voltò verso Jotaro per rivolgergli un sorriso gentile. «A volte non c’è un perché, nell’arte.»
Jotaro scelse che quella risposta gli andava bene, anche se non era la verità. Guardando i quadri di Kakyoin aveva notato che in ognuno di essi c’erano rappresentati simboli chiarissimi, richiami reali ai cinquanta giorni di quel pellegrinaggio indesiderato. Le rose non potevano essere un caso.
Il silenzio li accompagnò ancora per qualche momento, intiepidito dal leggero chiacchierare degli ospiti che godevano della mostra.
«Quindi,» ricominciò a parlare Kakyoin. Jotaro spostò l’attenzione su di lui quel tanto che bastava per uscire dal campo visivo di Dio, restando dritto nella schiena. Si accorse che per un attimo gli occhi di Kakyoin si erano abbassati al pavimento e in quello stesso istante con il peso del corpo oscillò tra le punte delle scarpe e i talloni, gravando per un attimo sul bastone da passeggio.
«Quindi?», ripetette Jotaro inarcando un sopracciglio, senza distogliere lo sguardo. Vide le labbra di Kakyoin arricciarsi negli angoli e di nuovo le pupille che sembravano petali di glicine caddero sul pavimento, sollevate da una folata di vento che le fece arrivare infine sul volto di Jotaro.
«Quindi non hai intenzione di chiedermi se vengo in Europa con te?»
Un nodo lo strinse nel cuore. Il viso di Kakyoin, intagliato nella madreperla, gli rivolgeva un sorriso leggero, accogliente come ci si immagina possa esserlo solo in sogno, e da sotto le ciglia si intravedeva uno sguardo al contempo dolce e di sfida, un ossimoro capace di convivere solo in una persona come quella che Jotaro si trovava davanti. Nonostante il fiato sospeso tra le labbra, Jotaro era pronto a rispondere, ma venne interrotto dallo squillare del cellulare.
Il momento si ruppe insieme ai loro sguardi, alle mani impacciate che andavano a cercare quel suono che strideva nell’ala del museo o a sistemare una ciocca di capelli scarlatta dietro l’orecchio.
«Scusami, devo...» mugugnò incompleto Jotaro sentendo il cuore pizzicare di una strana vergogna.
«No, no, fai pure,» provò a rassicurarlo Kakyoin, il quale a sua volta sentì l’imbarazzo scaldarlo in viso.
Sul display verde del cellulare a conchiglia brillava in pixel nerissimi il nome della Fondazione Speedwagon. Jotaro strinse i denti, non trattenne un sospiro mentre scuoteva il capo.
«Devo rispondere,» e come se cercasse l’approvazione di Kakyoin, i suoi occhi cercarono una risposta in quelli dell’altro. La risposta arrivò in un cenno del capo e quello accomodante della mano sinistra. Infine l’antenna fu allungata e la chiamata trovò capo nella voce di Jotaro che adesso si allontanava dando le spalle, una mano in tasca e le spalle più gobbe di un paio di centimetri.
Kakyoin lo seguì con lo sguardo finché quelle spalle bianche non si confusero tra i colori della mostra. Le proprie, invece, si abbassarono insieme alle iridi, insieme a un respiro profondo. Non riusciva a capirne il motivo, ma la vergogna di avere dato voce a quella domanda continuava a fargli sentire il sangue bollire sul viso. Scosse il capo, persino si massaggiò il ponte del naso con due dita, chiuse gli occhi. Quando li riaprì, dopo aver incontrato di nuovo la beffa nello sguardo di Dio, decise che era il momento di andare altrove. Allora si mosse tra i dipinti, tra le persone che si soffermavano per un complimento o per un saluto, ma Kakyoin decise di non dare loro troppe attenzioni. Dopo tutte quelle ore passate in piedi, appoggiato sul suo perno laccato di nero, il dolore alle vertebre si era fatto più insistente e nasconderlo diventava sempre più difficile. Mascherare l’andatura zoppicante era pressoché impossibile, per ogni passo Kakyoin aveva la sensazione che la gamba destra si stesse sganciando di un millimetro in più dalla sua articolazione; il dolore pungente si diffondeva tra i nervi biologici, amplificato poi tra quelli creati dalla scienza tedesca. Ciò nonostante Kakyoin raggiunse l’obiettivo che si era posto: Hierophant Green.
Una pioggia di smeraldi verdi faceva da cornice a un’ombra nera. All’interno di quell’ombra, nella quale era facile distinguere lo scettro papale, le fluorescenze di Hierophant si diramavano in tentacoli che disegnavano una rete articolata sul terreno, i suoi occhi gialli ieratici sullo spettatore.
Guardò il dipinto come fosse la foto di un vecchio album di famiglia, con la testa inclinata e un sorriso malinconico.
«Meritavi di meglio,» disse a bassa voce. Nel petto ebbe la sensazione di avvertire il gerofante brillare, spostarsi quel tanto che bastava per fargli sapere che era lì. L’ennesimo sospiro si fece strada tra le sue labbra.
«Perché?»
Un sussulto scosse ogni capello di Kakyoin; se fino a poco prima sentiva il fuoco della vergogna bruciarlo in viso, ora il gelo dello sgomento si era fatto largo tra le viscere. Era la voce di Jolyne, piccola e acuta, che con due occhi pieni di domande si faceva largo tra i suoi pensieri.
«Ah, Jolyne...» Un sorriso sollevato gli alleggerì la voce. «Mi hai spaventato.» E stava già pensando a che risposta inventarsi per lei, ma Jolyne aveva già dimenticato.
«Scusa. Papà mi aveva detto di non gridare, ma a volte parlo forte e non me ne accorgo.»
«Non fa niente, non stavi gridando. Ero io ad essere distratto.»
Il volto della bambina si illuminò di un sorriso a trentadue denti. Trentuno, in realtà, perché uno degli incisivi non c’era più.
«Ah, ma ti è caduto un dente!»
«Non è un dente, è una stella!» Esclamò la bambina, la quale subito dopo mostrò il suo tesoro fino a poco prima tenuto stretto stretto nella mano destra. Quella correzione si stampò nel viso di Kakyoin con una sorpresa che lo riportò alle notti trascorse fra i deserti, alle terrazze, a Castore e Polluce.
«Ma certo, come ho fatto a sbagliarmi,» si corresse mentre guardava quel dentino bianco, piccolissimo e brillante.
«Stavo cercando papà per chiedergli se può tenerla lui in tasca.»
«Non hai tasche nel tuo vestito?»
Jolyne scosse il capo con la fronte tutta crucciata.
«Quasi tutti i vestiti da femmina non hanno le tasche, è una seccatura.»
«Sì, lo immagino.»
«Infatti chiedo sempre alla mamma perché non possiamo comprare le gonne nel reparto dei maschi. Loro le tasche ce le hanno di sicuro anche nelle gonne.» La verità dietro le parole di Kakyoin lo portò a voler ridere di gusto e tenerezza. In un attimo pensò a quanto fosse genuino il pensiero di quella bambina, a quanto sarebbe stato facile vivere in un mondo che non faceva differenza di genere, almeno per i bambini. «Hai visto il mio papà?»
Kakyoin alzò lo sguardo tra la gente, passò rapidamente in rassegna tra una persona e l’altra alla ricerca di un berretto bianco.
«Forse è uscito, stava parlando al telefono.»
«Mi aiuti a cercarlo?»
«Certo.»
I due si avvicinarono verso l’uscita del museo.
«Prima stavi parlando con un quadro?», chiese Jolyne mentre gli porgeva la mano, libera del dente da latte che ora stringeva insieme al palmo sottile della sua sirenetta.
«Sì,» rispose Kakyoin dopo qualche momento. Pensò che mentire a una bambina sveglia come Jolyne non avrebbe avuto senso, specie perché era stato beccato in pieno.
«E lui ti ha risposto?» Nella voce di Jolyne c’era un enorme interesse. Kakyoin le rivolse un mezzo sorriso, poi scosse la testa.
«No. Gli parlo sempre, ma lui non risponde mai. Non credo sappia parlare.»
«Mh... forse perché non gli hai disegnato la bocca!»
«Sì, può darsi,» ridacchiò.
Dalla porta a vetri rientrò Jotaro Kujo, con lo sguardo irrequieto e la mano ancora indaffarata a riporre il cellulare in tasca. Kakyoin si accorse che qualcosa non andava dalla sfumatura diversa nei suoi occhi, dall’ombra bruna disegnata dalle sopracciglia aggrottate.
«Papà, papà!», esclamò Jolyne con forza, correndo da lui come se non lo vedesse da un mese.
«Jolyne, non gridare,» la rimproverò con calma. La bambina, abituata ai toni freddi del padre, saltellò da lui tutta contenta.
«Guarda, guarda!» E anche a lui mostrò con fierezza il suo dente. «Mi è caduta la prima stella da latte!»
Bastarono quelle parole per riportare luce sul volto del padre.
«Ma pensa te... allora stanotte dobbiamo tenere la finestra aperta, per la fatina.»
Jolyne rimbalzò sul posto, annuì con tanto entusiasmo da scombinare i capelli che le aveva acconciato la mamma.
«La tieni tu in tasca?»
«Certo.»
«Non la perdere! Ah, vieni, ti devo fare vedere un’altra cosa!» E corse via. Entrambi la guardarono mentre si allontanava, poi Kakyoin si voltò verso Jotaro. Lo trovò di nuovo con lo sguardo torvo, perso tra le mattonelle, le mani nelle tasche.
«Ehi, tutto bene?»
Jotaro chiuse gli occhi, scosse il capo.
«Si tratta del vecchio
«...il signor Joestar?», ripetette Kakyoin con una nota incredula nella voce.
Jotaro annuì.
«Pare che da diverso tempo avessero iniziato a manifestarsi i sintomi dell’Alzheimer. I medici della Fondazione Speedwagon lo tenevano continuamente sotto controllo, ma sembra che nelle ultime settimane la situazione sia peggiorata. Dicono che stia iniziando a non riconoscere più le persone, ha passato tutta la giornata a chiamare Tomoko nonna Suzie Q. Adesso stanno aspettando che rientri in un momento di lucidità per potere stendere il testamento.»
«Jotaro, mi dispiace un sacco...»
Questi sospirò.
«Mi hanno anche chiesto di salire sul primo volo per New York, nella speranza di accelerare il tutto.»
«...oh.» Il primo pensiero di Kakyoin andò all’Europa, a come in qualche modo sfumava la possibilità di aiutare Jotaro a ritrovare suo padre e sé stesso, a come stessero sfumando tutti gli scenari in cui si immaginava insieme a lui e Jolyne, a camminare tra le coste portoghesi o nei boschi di baviera. Il secondo pensiero, poi, andò all’ex moglie di Jotaro, a quante volte situazioni come quella si erano messe in mezzo alle cene saltate, gli anniversari, i compleanni, i Natali. Un crampo lo investì nello stomaco, talmente forte da farlo barcollare sul bastone.
«Kakyoin...» D’istinto Jotaro avanzò di un passo, la mano sinistra protesa verso di lui. Ma Kakyoin lo fermò subito facendo cenno con una mano.
«Non è niente, davvero,» mentì con la bozza di un sorriso. Jotaro strinse le mascelle, fece scivolare la mano in tasca.
«Papà, papà!» Di nuovo Jolyne corse verso di loro, dritta verso un lembo del cappotto del padre.
«Jolyne, ti ho già detto altre volte di non urlare nel museo.»
«Non fa niente, Jotaro, non sta dando fastidio a nessuno,» disse Kakyoin a bassa voce, una mano si posò con dolcezza sulla sua spalla mentre l’altra restava artigliata con forza al bastone. Quel contatto scaturì in Jotaro una serie di piccolissimi brividi, come se mille scariche elettriche si stessero dilagando per irrorare il cuore di vita.
Era il loro primo contatto dopo quel bacio in stazione.
«Sì, però è importante! Dai!», interruppe Jolyne con forza, strattonando con impazienza il cappotto.
Rompendo quel contatto, scambiandosi uno sguardo che lasciava sospesa la loro conversazione, i due seguirono la bambina. Facendo vari e attenti zigzag tra le persone, chiedendo scusa se urtavano qualche spalla, Kakyoin capì immediatamente dove li stava portando. E non poteva trattarsi di una coincidenza.
Jolyne li aveva portati dall’unico quadro esposto su un pannello cremisi, dai bordi dorati. Al centro troneggiava il dipinto che sarebbe stato esposto permanentemente al MOMAT: l’arcano maggiore rappresentante le Stelle. Su uno sfondo nero che si mescolava tra le galassie della sua chioma, Star Platinum mostrava il suo profilo ad occhi bassi. Le braccia muscolose accoglievano un’anfora in un abbraccio morbido e da essa scivolava una pioggia di stelle che si riversava in un fiume d’argento.
Lo stupore negli occhi di Jotaro era visibile nelle pupille dilatate e le palpebre leggermente sgranate, la bocca schiusa.
«Guarda, papà,» disse Jolyne puntando l’indice verso Star Platinum, «quello è il tuo angelo custode.»
«Cosa...» provò a dire Jotaro, ma la voce gli si asciugò in gola.
Kakyoin trattenne il respiro mentre cercava lo sguardo dell’altro. Non trovandolo, scelse di abbassarsi verso la bambina.
«Jolyne, sei sicura di riconoscere questo quadro?»
Jolyne, sicura al cento percento di quello che aveva detto, annuì con convinzione.
«Non ci sono dubbi, è l’angelo custode di papà. L’ho visto un sacco di volte vegliare su papà quando era triste o quando si addormentava sulla poltrona. Però anche l’angelo custode è triste, perché piange stelle nere.»
Per istanti interminabili Jotaro cercò di articolare qualcosa da dire, ma anche se le sue mascelle si articolavano non uscivano suoni dalla sua bocca e scuoteva il capo, rapidamente, come se i suoi occhi cercassero nell’archivio delle memorie un file che contenesse le istruzioni per quella situazione. Kakyoin, invece, respirava profondamente, in silenzio a sua volta.
«Guarda! Lì c’è un quadro di un signore di fuoco, ha la testa di un uccello buffo!»
La bambina corse via ridendo, lasciando i due sotto il dipinto delle Stelle.
Il silenzio si fece denso.
«...non posso.» A scioglierlo fu la voce di Jotaro.
«...cosa?»
Jotaro deglutì, continuò a scuotere il capo.
«Non posso lasciare che Jolyne diventi una portatrice di stand.» C’era del dolore nelle parole di Jotaro e Kakyoin sentì il loro significato trafiggerlo nel petto.
«Jotaro, non è una cosa che puoi evitare...»
«È una bambina forte, con uno spirito combattivo fuori dalla norma, se ha visto Star Platinum potrebbe voler dire che anche il suo stand si è già manifestato. È... è troppo piccola, è troppo piccola–»
«Ehi...» Le dita di Kakyoin si appoggiarono sul viso di Jotaro, affusolate e gentili per interrompere quel flusso di pensieri ad alta voce. Le sue iridi incontrarono quelle dell’altro, smarrite, spaventate come non le aveva mai viste. «Io avevo più o meno la sua età quando per la prima volta ho visto Hierophant. Voi Joestar non siete portatori dalla nascita, lo siete diventati per altri motivi, ma ormai è comunque qualcosa che avete nel sangue. Capisco che questa cosa possa spaventarti, ma non deve voler dire per forza che anche Jolyne sia destinata a combattere. E poi hai appena saputo del signor Joestar, Jotaro... Sono un sacco di informazioni tutte insieme, ma prova a risolverle una per volta.»
Jotaro sospirò. Chiuse gli occhi, premette il viso contro le dita di Kakyoin, poi le sfiorò con le proprie. Infine annuì.
«Hai ragione. Una per volta. Il fatto che Jolyne abbia visto Star Platinum non significa che il suo stand si sia già manifestato.»
Un sorriso dolce piegò gli angoli della bocca di Kakyoin, gli occhi di Jotaro si riaprirono.
«Kakyoin,» disse mentre si allontanava la sua mano dal viso, ma continuando a stringerla tra le proprie dita attente, «vieni con me.»
«...dove?»
«A New York.»
«A New York?»
Jotaro annuì. «Temo che l’Europa dovrà aspettare un po’.»
Un sorriso sghembo, accompagnato da uno sguardo sottile, si appropriò del volto di Kakyoin.
«Ma pensa te,» disse canzonandolo mentre scioglieva la presa dalle sue dita per portare la mano al fianco. «Non pensavo mi avresti portato di nuovo in giro per il mondo.»
Una risata mascherata da sbuffo abbandonò Jotaro, il quale adesso aggiustava la visiera del cappello. Le mani tornarono entrambe in tasca, il corpo si avvicinò di un passo a quello dell’altro. Guardò Kakyoin dritto negli occhi con i propri che si erano fatti seri. Non gli sfuggì di notare come le pupille di Kakyoin, per una frazione di secondo, fossero rimbalzate sulle sue labbra.
«Smetterò solo quando ti deciderai a sposarmi,» gli disse a bassissima voce, così vicino al viso da poterlo sfiorare con il fiato. E Kakyoin, che il fiato fino ad allora lo aveva trattenuto, riprese a respirare con un sorriso che si distendeva da parte a parte del volto. Allungò il collo quanto poteva, quanto bastava per raggiungere le sue labbra schiuse.
«“No” significa “no”,» sussurrò con un fiato talmente caldo da sembrare fatto di scintille. Poi si allontanò da lui dapprima con il corpo, infine con il viso e per ultimo con lo sguardo, seguito dalla cascata scarlatta dei capelli. «Ora, se permetti, ho una mostra da portare avanti.»
«...ma pensa te.»
Sebbene non potesse più vederlo in viso, Jotaro sapeva che Kakyoin sorrideva. Sebbene non ci fosse stato nessun bacio, sapeva che lo avrebbe accompagnato in America, in Europa, in qualsiasi posto gli avesse chiesto di raggiungerlo perché, anche se quello era un no, Kakyoin aveva finalmente cominciato a dirgli di sì.




 
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Bentornat* nelle note d'Autore!
Ebbene sì, eccoci: siamo arrivati. Con questo capitolo, si conclude il primo, lungo arco narrativo di Habibi.
Il primo? Eh, sì, perché c'è in cantiere il seguito che ci porterà in America e *rullo di tamburi* a Morioh, naturalmente!
La stesura di quest'ultimo capitolo è stata un parto, è successa la qualunque per fare sì che il finale di Habibi arrivasse sempre più tardi, dal trasloco in un altro Stato ai tasti "J" e "Y" rotti (divertente, perché non potevo scrivere né Jotaro, né Kakyoin), al blocco dello scrittore e chi più ne ha più ne metta, ma alla fine ce l'abbiamo fatta. L'avevo presa come una battaglia personale, perché non so davvero quando sia stata l'ultima volta che ho iniziato a scrivere una fanfiction e poi l'ho conclusa - so che mi perdonerete se con Come una volta vi ho lasciati appesi, ma pian piano ritornerò anche su di lei ora che mi sto finalmente sbloccando.
Quindi sì, insomma, non volevo che queste note d'Autore diventassero un papello così lungo, ma vorrei ringraziare tutte le persone che sono arrivate a leggere fin qui. Grazie a tutt* quell* che hanno preso del tempo per leggere questa storia a cui sono affezionata in modo viscerale, a chi ha lasciato una recensione per ogni capitolo e chi lo ha fatto in maniera sporadica. Grazie a chi mi segue sui social, a chi ascolta le mie playlist, a chi commenta le mie fanart, a tutte le splendide persone che ho conosciuto tramite il fandom: grazie.
E un grazie speciale va ad Atharaxis, che ha seguito passo dopo passo tutti i processi mentali dietro questa storia.
Ci vediamo prestissimo e, intanto, buon Stone Ocean a voi e famiglia. ♥

iysse.
   
 
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