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Autore: Cladzky    04/12/2021    2 recensioni
Ai margini dell'universo, sul piccolo planetoide del Linaker's Diner, fanno sosta degli stranieri che portano con loro il letterale seme della distruzione, turbando la pace della contea, fra la rabbia dello sceriffo, il disinteresse della signora Linaker e la fascinazione del benzinaio locale. Prima che i personaggi possano rendersi conto di quanto stia accadendo, persi nelle proprie piccole faide, il seme germoglia e così inizia il massacro ad opera di una creatura indefinibile. Bisogna ora distruggerla, prima che la sua assimilazione della materia vivente continui.
Tributo alla letteratura apocalittica della guerra fredda, il cinema horror degli anni 80, i film exploitation, ma soprattutto a un autore molto importante che ho incontrato qui su EFP. Si sto parlando proprio di te. Non sarei a questo punto se non mi avessi dato la spinta. Grazie.
Genere: Avventura, Commedia, Horror | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Cross-over | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
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Non riuscivo a scrivere il settimo capitolo per la terribile sensazione di aver sbagliato qualcosa in quello precedente. Finalmente, oggi, 4 Dicembre (allegria!) ho scoperto cos’era. Nel sesto, lo sceriffo Vincent Dawn, prende la cornetta del telefono e fa uno squillo a Craven, come niente fosse. La mia fantascienza sarà pure profondamente irrealistica, ma neanche io posso scrivere baggianate del genere. Il sistema di Dryriver è detto esplicitamente essere largo cento unità astronomiche, ovverosia cento volte la distanza fra il sole e la terra. Considerando che le onde radio viaggiano alla velocità della luce nel vuoto e che il sole si trova a otto minuti luce dalla terra, è più che palese che la trasmissione, per quanto veloce, non possa essere istantanea. Solo per percorrere un’unità astronomica, il segnale avrebbe un ritardo di otto minuti fra la domanda e la risposta, mentre se la stazione antincendio si trovasse dall’altro capo del sistema, impiegherebbe circa un’ora e venti. Ma scusa, direte voi, che ce ne frega? Frega, perché il senso d’isolamento è importante in questa storia, dunque tenete a mente questo fattore di ritardo nelle comunicazioni. Adesso l’apparecchio viene descritto essere specificatamente per le lunghe distanze, rendendolo ora un’elemento indispensabile per comunicare con l’esterno, al contrario delle normalissime radio apparse finora nel resto del racconto. In secondo luogo, il corpo del povero Cronenberg viene trascinato fuori il locale privo di tuta spaziale, lasciandolo cuocere sotto il sole e congelare durante i quarti d’ora di notte del planetoide. Non viene fornita una spiegazione e, se avrete voglia di rileggere il precedente scritto, vedrete modifiche a questa svista grossolana e anche a quella precedente. Per ora posso solo dirvi buon proseguimento.

    

***


    Non è che odiasse Vincent, credeva davvero nella propria missione di difendere la contea da ogni minaccia esterna, ma ciò aveva il caro prezzo che si mettesse a infilare il naso in ogni faccenda sospetta. Da quando Lee aveva progettato di espandere il suo commercio al di fuori di Dryriver, lo sceriffo continuava a dissuaderlo ad ogni loro incontro; la interrogava saltuariamente sui clienti che si fermavano alla sua locanda, anche se mai troppo insistentemente per il rispetto che le nutriva, e lo stesso faceva con… Oh, povero Cronenberg. E dire che l’aveva visto entrare con le proprie gambe mezz’ora fa, vivace come un bambino nonostante avesse consumato più di metà della propria vita, canticchiare le sue canzonette da vecchi filmacci e saltare eccitato per ogni dramma fuori dal quotidiano. Mentre l’aiutava a rifornire il gruppo elettrogeno del locale le aveva pure sistemato una tubatura che perdeva con le sue dure mani callose. Un omaggio della ditta, si era spiegato, e si erano pure dati appuntamento per mettere a posto anche l’impianto d’aerazione, appena infestato da una colonia di ferioni tigrati, trasportati dall’ultima consegna da Galileo. Dio, si erano dati appuntamento fra due giorni.

    Perse la presa e il corpo cadde sull’asfalto del parcheggio, senza neppure un botto sordo quando il casco rimbalzò sulla dura superficie bollente, irradiata dalla stella sopra le loro teste. Kay espose la gola e quasi cadde all’indietro da quanto tentò di centrare lo sguardo con l’apice del cielo, in continua rotazione. Gli girava la testa. Croneneberg era morto ai suoi piedi, nel locale che lei gestiva sin da quando l’aveva fondato. Molta gente che conosceva, come tutti immaginava, era deceduta, ma erano sempre cause ordinarie, cause che lei reputava inevitabili, come la malattia e la vecchiaia, ma vedere un uomo morire così l’aveva destabilizzata, non a causa del loro legame, ma era qualcosa che, si sentiva, si sarebbe potuto benissimo evitare, ma con che mezzi? Era una completa rottura del mondano, un’invasione della routine ch’era proseguita sicché era nata. Avrebbe potuto fare qualcosa?

    Se avesse tenuto lei lo scopettone in mano invece di farselo rubare da Cronenberg? Se avesse avuto una reazione più rapida invece che esitare a prendere la candeggina? Se avesse inseguito la creatura invece che lasciarla scivolare in cucina e chiudercela dentro? Era colpa sua? Forse era colpa di Vincent. Dopotutto avrebbe dovuto prestare attenzione agli avvertimenti e mettere quel maledetto cilindro dove l’aveva preso o nella cella frigorifera del locale. Ma era il suo locale e sapeva di avere il rispetto di Vincent: allora perché non era intervenuta? Avrebbe dovuto imporsi e allora non sarebbe successo nulla di tutto questo. I due stranieri sarebbero finiti in galera e lei sarebbe potuta tornare alla vita di tutti i giorni ad aspettare giovedì, quando Cronenberg sarebbe passato a sistemarle i condotti d’aerazione e avrebbero parlato di motori, viaggi nei sistemi vicini o di quale strano nuovo credo avesse abbracciato il signor Fulci. Ma ora non era più possibile rimediare, qualunque cosa sarebbe dovuta essere fatta prima. Era rimasta come un’idiota bisbetica a lamentarsi per tutto il tempo. Certo, aveva salvato la vita a Ken Russell, ma anche lì si trattava di semplice empatia, il minimo indispensabile di ogni uomo credeva, e poi non lo salvò certo quando lo sceriffo prese a sparargli dietro. 

Non aveva idea di cosa sarebbe potuto succedere. Ma no, certo che ce l’aveva! I due balordi continuarono ad avvertirli per tutto il tempo di trattare con cura il solvente. Che fosse colpa dei due? Forse, in fondo erano stati loro a portare il seme della loro distruzione, ma non sarebbe potuto crescere se li avessero ascoltati. Anzi, lei stessa aveva permesso che crescesse, sottostimando quelle confessioni come stronzate dette da chiunque pur di togliere le spalle dal muro e ci aveva pure scherzato sopra.

“È necessario che ogni bambino mangi tanto e cresca forte”, aveva detto. Che razza di frase del cazzo. I suoi occhi quasi caddero sul vetro inscurito di Cronenberg, giusto mentre il sole gli passava sopra, illuminando quell’antro buio, stretto e pieno di metano espulso dal corpo fresco. Tolse gli occhi appena in tempo, sbirciando per un momento il ghigno di un teschio verdognolo e ricoperto di brandelli di muscoli. Era completamente sfigurato. Quel sangue nero gli aveva avidamente divorato il viso, come a prendersi gioco della sua ironia.

Della polvere nera si sparse per l’aria. Non capì immediatamente, ma quando si guardò gli stivali della tuta si rese conto di star camminando su un deserto d’inchiostro fuligginoso. Erano brandelli inceneriti che si alzavano in aria, urtati dai suoi piedi. Una striscia bianca rivelava il parcheggio sottostante, creatasi quando, inavvertitamente, ci aveva trascinato Cronenberg in mezzo. Erano i resti di Ken Russel. Fu presa da un morso allo stomaco. Due uomini erano morti e se non aveva salvato un suo amico come ci si sarebbe potuti aspettare che salvasse un completo sconosciuto, per quanto bisognoso? Forse era causa del suo lavoro, il fatto di farsi servizievole con chiunque attraversasse le paratie del diner da ormai tanti anni, che le aveva istillato l’idea di soddisfare chiunque, dare un buon servizio, renderli felici, aiutarli e ora? Aveva fallito sia come amica che come gestore del Linaker’s Diner.

Aveva passato la sua intera esistenza senza particolari sorprese, quantomeno comparabili a questa. Che stesse sognando? Che questo orrore fosse esterno alla sua vita normale proprio come i due stranieri? Che dovesse solo svegliarsi e ritornare nei confini della propria realtà, della propria contea? Era tutto così assurdo che faticava a credere a quello che le era capitato sotto gli occhi, non poteva inserirsi nel suo mondo fatto di friggitrici, sgrassatori per fornelli, tasse, dichiarazione dei redditi, mance, le solite facce, fiere di contea, contrattazioni per la merce, allergia al pelo di gatto, quell’idiota di Craven che si porta sempre dietro il suo Mr. Miao e pirografia. Era roba degna delle pellicole per cui Cronenberg smaniava, fantascienza bella e buona, non roba che poteva capitare a un cittadino comune come lei, pensò, appoggiandosi al disco volante giallo canarino lì parcheggiato. Si portò una mano sul vetro del casco. Avrebbe tanto voluto toccarsi il viso a mani nude, mettersi una mano sugli occhi, stringere il pollice e l’indice sulla cima del naso, grattarsi la fronte. Non era qualcosa che poteva affrontare lei.

Che dovesse lasciare questa minaccia a qualcun altro, dopo che le aveva scombussolato ogni aspettativa sul futuro? Non era la persona adatta per affrontare la cosa, era la stessa cosa che aveva distrutto Poseidon e Fleed, eppure era apparsa direttamente nel suo locale quel giorno. Il locale che era la sua quasi unica preoccupazione e che ora aveva ricevuto centinaia di rubli di danni. Il locale che lei stessa aveva fondato ancora che era viva sua madre rendendola orgogliosa. La sua adolescenza. Il giorno che era diventata adulta. Quel giorno si sentiva allo stesso modo, vero? Si sentiva persa, ogni sua certezza sfasciata. Non era più una bambina, era una donna, ma ancora con gli stessi sogni ma senza la possibilità di poter avere qualcuno che badasse a lei. Doveva badare a sè stessa, prendere il rischio di fallire e cercare di non deludere sua madre tornando da lei. Era un nuovo ostacolo e l’aveva superato. Allora perché ora, che di nuovo la vita le scuoteva le radici sotto i piedi, doveva essere diverso? Perché non affrontare questo ostacolo ora che si era presentato nel suo locale, lo aveva messo a soqquadro, aveva attaccato i suoi clienti, ucciso i suoi amici e, in generale, rovinarle la serata?

Le sue palpebre si strizzarono, lasciando uscire appena due lacrime a rigarle il viso di sale e caderle sul petto, prima di riaprire gli occhi e vedere la cenere sparita, confusa al terreno. Guardò verso il cielo. Il sole era tramontato e ora aveva solo la sanguigna nebulosa di Yeaworth sopra la testa.


***


    Aveva freddo, molto freddo, penetrante, non superficiale, completo. Non riusciva neppure a pensare razionalmente, erano solo sensazioni, non figure, ma colori e neppure accesi, ma di quell’apaco e tenue tipico dell’infermità, della malattia. Si sentiva male, ma non era un dolore fisico, bensì qualcosa che non funzionava correttamente nel suo organismo e non capiva cosa a causa delle sue sensazioni limitate, né aveva memoria di cosa gli fosse successo. Non aveva memoria di niente. Dove si trovava? Percepiva come qualcosa che lo stringesse appena, prima, ai lati del suo… corpo? Stava toccando qualcosa o la percepiva in un qualche altro modo? Con che organi? Era dotato davvero di sensi? E se si stesse immaginando tutto?

    Cercò di tornare indietro con la mente e non ci riuscì. Non aveva passato sembrava o forse, in questo stato sgradevole, non poteva ricordare niente. Provò con un processo inverso, guardando al futuro. Di cosa aveva bisogno? Cosa voleva? Niente, nessun desiderio fisico sembrò fare eco dal suo corpo. Ma come poteva essere sicuro di avere un corpo ora  che non poteva sentirlo? Ma in che stato si trovava? Si sentiva imprigionato, incapace di ogni cosa. Stava dormendo? O era questa la sua condizione naturale, una voce nel buio. No, non era buio, il buio sarebbe un nero, mancanza di luce, ma lui vedeva il nulla, neanche un colore e così anche l’odore nell’aria era assente e ferma, priva di suoni da captare. Sentiva solo freddo.

Che fosse morto? Questa è la morte? Un limbo privo di materia, solo lui e i suoi pensieri per l’eternità, privo di ricordi a tenergli compagnia, desideri d’agognare, la noia più completa. L’angoscia lo colse, ma una completamente mentale, priva di morse allo stomaco e mal di testa, solo l’atterrimento di fronte alla gigantesca bestia che era l’eterno nulla davanti a lui. Che questa condizione potesse durare per l’eternità? Che non potesse fare nulla? Si sentiva impotente. Fare qualcosa, questo era l’unico desiderio che aveva in mente, uscire da quell’abisso senza fondo e entrata. Pianse nell’animo, al pensiero di non poter far nulla ma sopportare, sopportare e sopportare fino alla fine dei tempi, ovvero mai. E pensava, avanti la sua mente andava a sfoltire fra le dita i secoli e i millenni e gli eoni passare senza modo di contarli, privo di qualunque riferimento. Non esisteva nulla se non lui? E se la sua mente non sentiva nulla forse anch’essa non esisteva. Non esistere, che pensiero terribile, farsi spegnere la coscienza, essere privati di pensare. 

Ma lui pensava. Si stava ponendo dubbi e preoccupazioni, lui stava ragionando. Era una voce, una volontà, un’entità capace di provare paura. Paura, certo, paura della non-esistenza, dell’oblio, la mancanza di ogni pensiero, e allora, se poteva preoccuparsene, voleva dire che esisteva per forza, che non era morto, che aveva avuto esperienza del mondo sensibile perché, seppur privo di memorie specifiche, era familiare con certi termini. D’accordo, forse non sapeva chi fosse, che aspetto avesse o chi lo avesse generato, ma conosceva il significato di "morte”, sapeva che era l’antitesi della vita, ecco, un secondo concetto che conosceva. Allora  aveva avuto modo di sperimentare qualcosa al di fuori di questo vuoto, di toccare la vita e la morte fuori da quel pozzo privo di colore. E perché qualcosa fosse vivo aveva bisogno di una mente, un supporto solido, un corpo. Lui aveva un corpo, non poteva venire dal nulla, era impossibile. Il suo pensiero, che giungeva già lontano a lui stesso, era collegato a un cervello da qualche parte. E soprattutto sentiva il freddo che lo circondava, lo turbava e dunque non era uno spazio veramente vuoto, solo la sua mente era momentaneamente incapace di riconoscersi.

Il freddo andava calando e i pensieri si fecero più liberi, in guisa di atomi in sublimazione. Ah, atomi, supporto della realtà fisica, gli pareva quasi di sentirli vibrare. Che il suo ragionare gli stesse aprendo la strada verso il risveglio? O che un agente esterno lo stesse liberando? In ogni caso ne stava uscendo e continuò a pensare. Il passato si faceva meno nebuloso. Lui non era solo, no, c’era qualcun altro nei suoi ricordi, un essere senziente come lui, diverso, ma inseparabile. Dov’era? Cominciava a percepire la sua massa, ma nient’altro, al di fuori di un anello che la imprigionava, immboile, compatta, soffocata. Era solo nelle immediate vicinanze. I suoi desideri andavano a delinearsi. Si sentiva piccolo. Non era mai stato così piccolo, non lo rammentava e voleva porvi rimedio. Doveva crescere, tornare in forze e questo era il primo obiettivo, ma come? Si mosse ancora un po’ e finalmente riuscì a spostare una specifica parte del suo corpo, rispetto ad un inconsulto sussultare. Era un dito? Un braccio? Sapeva di aver sollevato qualcosa. Che fatica. Il movimento genera calore, quindi proseguì per sbrinarsi, ma spende energie. Dove diavolo trovava delle energie?

Giunsero nuovi stimoli. Rumori. Il suo udito percepiva un brusio sommesso, irregolare, che si fermava insopportabilmente e poi riprendeva più forte. Suoni fatti di note, suoni non di cose, erano voci, erano esseri pensanti che esprimevano un pensiero come lui! No, non era solo, ma non erano neppure l’individuo che voleva al suo fianco, quest’ultimo era ancora lontano. E gli crebbe una voglia smisurata al sentir quei toni in continuo cambiamenti, che si rispondevano l’un l’altro come zufoli nella nebbia. Una voglia di avvicinarsi a loro. Una voglia di prenderli. Una voglia di… Zittirli. Prendere il loro spazio nell’universo, ottenere la loro massa, insomma, il concetto che cercava, finalmente tornatogli in mente era mangiarli. Aveva fame, era senza forze, dove consumare qualche altro essere e rubargliele per sopravvivere o il freddo sarebbe tornato e si sarebbe consumato lui.

Si mosse e si sentiva circondato, sia dalle voci, ma anche da una parete che li separava. Una bolla resistente lo separava dal mondo esterno, una bolla, che, al contrario suo, non si muoveva, anche se vi si premeva contro con tutte le forze. Doveva rinunciare? No, se lo avesse fatto nessuno l’avrebbe salvato. Forse non era solo nell’universo, ma era certo solo dentro quella bolla. Faticò e faticando creava calore e così il sudore. Sudore? No, era più bava, schiumata al desiderio di saziarsi finalmente. Ma questa non era semplice bava, vero? No, gli scaturiva il ricordo che non lo fosse, che avrebbe potuto aiutarlo, anche se non sapeva come. Allora s’impuntò sempre di più, spinse con tutte le sue forze contro quella parete, non di testa o braccia, ma con tutto il corpo, e continuò a generare saliva. Gli apparvero scintille di fronte il muso. La vista gli stava tornando. Nero. Finalmente era tornato a vedere un colore. Era sulla strada giusta per uscire da quella caverna senza luce.

Il lavoro procedette per un tempo che non calcolava. Forse erano passati secondi, forse secoli, non aveva alcun modo di comparare il suo trascorso a quello di nient’altro. La sua percezione era l’unica che possedeva. Eppure, là fuori, il brusio continuava e finché continuava lui avrebbe spinto per raggiungerlo. Anzi, questo andò incrementando come a invogliarlo a proseguire.

Si riposò. La parete non si spostava e ormai, di saliva, ne era uscita così tanta da farlo rinsecchire e bagnargli la base del corpo. Non avrebbe dovuto fermarsi, ora tutta la stanchezza accumulatasi gli piombò addosso e sprofondò nuovamente in quel sentore di malattia precedente. Non riusciva a muoversi. Aveva consumato tutto quello che poteva dare e non c’era più nulla dentro di lui, letteralmente. Anche quelle poche ombre ch’era la sua vista si spense, come anche il sentore e i limiti della sua bolla gli sparirono dalla percezione, mentre essa stessa vagava nuovamente nel vuoto. La fame andava a spegnersi,schiacciata dalla stanchezza e l’ultimo ricordo a cui potè aggrapparsi, mentre gli altri andavano a scoppiare in bolle di sapone, fu uno solo. Quello del suo compagno, lontano, che, indubbiamente, lo stava cercando come lui faceva nei suoi riguardi. Lo stava pensando. Avrebbe potuto dire che gli fischiava un orecchio se solo se lo sentisse ancora.

E poi il mondo gli esplose di fronte. Cadeva, senza rendersene del tutto conto, e toccò un piano fatto di un materiale diverso. Ovunque lo assediarono luci, ombre indistinte, colori! Altro che nero, tutta la gamma cromatica gli si formava davanti agli occhi e andava a formare dei disegni, delle figure, oggetti solidi, oggetti che si muovevano, come lui. E poi il rumore, assordante, della vita al di fuori di sè, dell’universo, finalmente non era più un brusio, ma lo circondava e lui poteva ascoltarlo senza filtri. Era fuori, era di nuovo nell’universo! E la fame gli tornava, così il desiderio, la voglia di muoversi e i ricordi. Ma di questi solo uno non tornò, perché era sempre stato con lui. Il compagno che lo aspettava. Doveva raggiungerlo, in questo universo smisurato, familiare ma labirintico. Doveva e l’avrebbe fatto. Ma per farlo aveva bisogno di mangiare, terminare esistenze altrui per alimentare la propria, riprendere le forze, crescere, diventare ciò che era prima. Allora, ne era sicuro, l’avrebbe trovato e lungo la strada, forse, avrebbe capito anche tutto il resto riguardo la sua esistenza nebulosa. Ma di una cosa era sicuro. Lui esisteva e aveva uno scopo in quell’universo gigantesco. Era il protagonista della sua storia. Riprese a strisciare verso quei bagliori sfumati in movimento. Avrebbe divorato qualsiasi cosa pur di tornare al suo compagno, al suo passato e alla sua forma originaria.

“Bravo figliuolo”

Una voce lo raggiunse, ma non era un pensiero astratto come i suoi. No, erano suoni che rimbombavano nella sua mente e lui li aveva capiti. Quello era il logos, la sua origine, la materia prima da cui era stato creato, ovvio che la riconosceva, che la capiva, era lui in un certo senso, prima di mutare aspetto, ma non sostanza. Generato, non creato, della stessa sostanza del padre.

“Szymon” Pensò lui di risposta. La sua prima parola di senso compiuto.


***


    Kay sbirciò da dietro l’angolo. I rivoltanti rumori di deglutazione non l’avevano preparata al disgustoso spettacolo che gli si presentò nell’angolo della cucina. Ebbe la sensazione di voltare le spalle e scappare, come le dettava il suo spirito di sopravvivenza, ma la porta di servizio si sigillò alle sue spalle con un sibilo da gatto meccanico e lei riacquistò coraggio, come non ci fosse altra strada.

    Il sangue nero si era sparso, come un grossa bolla di resina d’albero, sopra le riserve di carne appena lasciata a scongelare sul tagliere. Non era difficile capire che strada avesse percorso, seguendo la scia bianca di corrosione che aveva lasciato lungo tutte le superfici che avesse toccato con il suo corpo di medusa, che partiva dalle piastrelle e seguitava su per la dispensa in acciaio. In un gorgogliante gonfiore da ferita pulsante, la creatura era cresciuta. Dacchè era una macchia da sogliola, sufficiente a coprire il viso di un uomo, ora doveva raggiungere le dimensioni di un cagnolino, prendendo spessore in altezza. Aveva ancora un aspetto semitrasparente e, come con Croneneberg, poteva vedere quei filetti essere succhiati nel suo corpo colloso e apparire dietro la membrana da palloncino colorato di nero e gonfiato di pus. Qui, l’ombra del filetto, andava a dividersi da sola in parti più piccole, sciogliendosi fino a sparire, sfumando nel liquido. Un rumore di sfrigolatura e odore di bruciato si sollevarono dal tagliere in legno, insieme a una nuvoletta di fumo bianco, lenta e sottile ma che presagiva un freddo da piombo fuso.

    ―Ti piace mangiare, figlio di puttana― Corse decisa verso la candeggina. Poi ci ripensò. Avrebbe avuto tutto il tempo di scappare via e magari saltarle addosso, abbracciandola nella sua morsa, come aveva già dato prova di fare. Allora si allontanò dallo sgabuzzino e verso la cantinetta piena di liquori per le grandi occasioni. Attenta a non far rumore, sfilò una bottiglia di rum, che soffiò sul legno prima di essere trascinata via con cautela. Si diresse verso una coltelliera, tagliò via il tappo di sughero con una lama per sventrare i pesci ed estrasse di tasca un fazzoletto che imboccò per bene nel collo della bottiglia ―Allora ti farò mangiare. Benvenuto nella mia cucina.

   
 
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