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Autore: Dira_    04/12/2021    4 recensioni
[Seguito de "Nella Selva Oscura"]
Castiglioscuro non è più un problema per le Silvani. Lo è il bosco, e ciò che contiene.
Un mostro si è risvegliato tra gli alberi e una barista di paese si è resa conto che non più essere soltanto quello.
Rosi deve tornare nell'Altrove, un mondo popolato da spettri, criptidi e mostri; deve trovare il coraggio di affrontarli e forse affrontare sé stessa.
Nell'Altrove è facile smarrirsi: puoi dimenticare di essere un mostro per scoprire il primo amore, puoi cominciare a dubitare che obbedire agli ordini sia sempre giusto. Puoi scoprire che no, non lo è.
Perché nell'Altrove vi è una sola certezza: una volta che lasci il sentiero, è allora che la storia comincia davvero.
Genere: Fantasy, Mistero, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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11.
 
 
Bice non vuole incontrare Fortunato.
Non con i lividi che le ha lasciato addosso Benedetto. Lo conosce abbastanza, il suo soldato dal cuore gentile ma facile alla fiamma, per sapere che laverebbe l'offesa nel sangue. Non può rischiare che si metta nei guai.
Per questo in quei giorni prende la scarsella e si rifugia nel bosco appena può, fino a che il sole non tramonta. Poi il bosco diventa il terreno di caccia di Benedetto e del suo mostro e Bice scappa, con la paura che le sale addosso come una brutta febbre invernale.
 
Quel giorno si è rifugiata presso un'insenatura del ruscello che corre lungo la collina. Il prato è pieno di sgargianti iris, e pasciuti cistus rosa e bianchi, ed è incorniciato da cespugli di biancospino che gettano ombra sufficiente perché il sole non bruci quell'angolo di paradiso. Bice immerge i piedi nudi nella corrente fredda del ruscello, lasciando che il fresco e la tranquillità le diano pace.
Ha sempre amato la solitudine, ma da quando c'è Fortunato ha anche imparato a soffrirla.
Vorrebbe averlo con sé la notte, quando gli incubi le mangiano il sonno.
Sono notti che sogna l'enorme serpe, notti che assiste alla caccia e alla morte.
Vorrebbe non sognare più.
Un fruscio alle sue spalle la fa irrigidire; ha paura che sia qualcuno venuto dal castello ma no, la pelle le pizzica e l'odore d'erba si fa più forte: è lo spirito del bosco, i cui occhi scuri e curiosi appaiono da un cespuglio di biancospino.
Sono anni che non lo vede. La sorpresa per un attimo non la fa parlare.
Un lupo ti ha mangiato la lingua?
No … no. Vieni, te ne prego, lo invita riscuotendosi, vieni a sederti accanto a me.” Dalla scarsella tira fuori una mela e un po' di pane scuro e lo mostra alla creatura.
Ah, un incontro piacevole non solo alla vista, ma anche al palato! esclama il folletto uscendo dal cespuglio.
Il prete penserebbe ad un diavolo, piccolo e storto com'è, con la pelle verdastra come limo e quel ghigno pieno di denti aguzzi. Bice non ne ha paura invece, perché le donne della sua famiglia e quella creatura son sempre stati in amicizia. Gli porge la mela, che l'omicciolo addenta con gusto. Ti ricordi di me? gli domanda.
Non ho bisogno di ricordare, ti vedo tutti i giorni! risponde con una risatina. Sei tu che non ti ricordi di me. Eri una bambina con la candela al naso l'ultima volta che abbiamo giocato assieme … ora invece sei donna fatta. Hai già un bello? le domanda con occhi neri e densi come la notte profonda, ma animati da una scintilla di malizia che pare tutta umana.
Bice sorride appena. Se mi vedi tutti i giorni hai già la tua risposta.
Che peccato! Ti avrei sposato io e ti avrei reso regina di questa collina!” divora anche la pagnotta e poi rutta, divertito come ad una gran burla.
È imprevedibile come un bambino, e antico e saggio come il mondo stesso. Questo le raccontava la mamma e dunque quell'incontro è benedetto. “Hai incontrato il grande serpe?” Bice non ci gira attorno.
Lo spirito scrolla le spalle come se la cosa non lo riguardasse. Vanno e vengono, bestie a quel modo …
Sta uccidendo delle persone!
Voi uomini vi ammazzate sempre tra di voi. Che c'è di diverso?
Bice si morde le labbra. “Devi aiutarmi… non so a quale santo rivolgermi.
Lascia stare i tuoi santi. Cosa mi dai in cambio?
Non ho niente se non me stessa.
Andrà bene!esclama soddisfatto. Voi donne delle querce siete sempre così serie … stai tranquilla, bimba bella, ti aiuterò. Cosa devo fare?
Dirmi come si uccide quel mostro.”

 
***
 
Rosi si svegliò immersa nel verde; l'edera che ricopriva la casina del cimitero creava una cortina impenetrabile di colore smeraldo.
Svegliarsi a quel modo era un piacere che aveva dimenticato. Si stiracchiò, allungando i muscoli con calma e attenzione.
Il vecchio letto dei nonni di Tobia aveva la testata in ferro battuto e il materasso di lana e cigolò sotto il suo peso mentre si alzava. Camminò a piedi nudi sulle mattonelle in cotto della stanza, gelide persino in estate.
Era tanto che non dormiva a casa Neri, e quella camera, come il resto della casa, era rimasta identica a come la ricordava. Il vecchio armadio di legno grezzo chiuso da un chiavistello come nei castelli, l'intonaco delle pareti mangiato dall'umidità e il soffitto di travi a vista … e poi c'era l'odore: muffa, naftalina e un lieve sentore di acqua di colonia, quella che usava Bruno.
Prese in mano una delle tante foto che riempivano il canterano. Ritraeva Tobia bambino in braccio a suo padre Claudio; si somigliavano come due gocce d'acqua, tranne i colori, che l'amico aveva ereditato dalla madre, posizionata al bordo della foto con l'espressione perenne di chi aveva morso un limone.
Appena ha potuto Anna se n'è andata … prima a Siena, e poi quando hanno trasferito il marito direttamente a Milano.
Chissà da quanto Tobia non la sentiva; ormai dubitava si facessero persino gli auguri di Natale.
Il Nero era rimasto solo, e questa era la radice da cui erano scaturiti tutti gli altri problemi.
Ora però non lo è più. Non lo sarà mai più.
La sera prima aveva fatto una promessa, seppur implicita; aveva intenzione di mantenerla.
Un rumore la fece voltare di scatto. La porta della camera si era aperta di pochi centimetri lasciando intravedere un'ombra dell'altezza di un bambino, ma sproporzionata come mai un ragazzino sarebbe stato. I caramogi erano folletti famosi per imitare gli esseri umani, ma mancava sempre qualcosa; in quel caso, le corrette proporzioni del naso.
“Ciao Nasone…” mormorò. Era ancora capace di vedere le criptidi, ma interagirci? Tutt'altro paio di maniche. “Sei venuto a chiamarmi?”
Il caramogio aveva perso suo fratello da neppure un giorno ma aveva la solita espressione felice di sempre. Chissà se riusciva a capire tutte le implicazioni di quella sparizione. Chissà se riusciva a concepire la morte come lo facevano gli esseri umani.
“Arrivo.” Si infilò jeans e maglietta e seguì il folletto in cucina. Tobia era seduto al tavolo, completamente concentrato su una chitarra. Vi stava stendendo una mano di lacca e l'odore penetrante riempiva l'ambiente. Ai suoi piedi Gobbo masticava un plumcake, controllato a vista da Ermione, sdraiata sul davanzale della finestra. Non batté le palpebre neppure per un momento.
Un tranquillo, inquietante quadretto di Altrove.
Tobia alzò la testa e le sorrise. “Buongiorno,” la salutò “Scusami, mi sono messo a lavorare e ho dimenticato di preparare la colazione.”
“Faccio io,” rispose dirigendosi verso il lavello. A colpo sicuro – perché davvero niente era cambiato in quella casa – trovò caffè, pane e marmellata. Strinse la moka con decisione, che ricordava avesse un problema alla valvola, affettò il pane e stese uno spesso strato di marmellata su due fette.
“Quella di prugne è di tua mamma,” le disse Tobia cominciando a sgombrare il tavolo.
“Dell'anno scorso?”
“Mi ha portato diversi barattoli.”
Movimenti oliati, discorsi leggeri … la routine a cui erano tornati era naturale come respirare e Rosi si chiese se davvero andasse bene. Se non dovesse fare di più dopo tutto quello che aveva combinato.
Tobia parve leggere nella sua espressione combattuta, perché le sorrise di nuovo. “È bello averti di nuovo qui. Hai dormito bene?”
Rosi sentì la faccia avvampare e si voltò per mettere la moka sul fuoco. “Ho sognato,” ma non si era svegliata con il cuore in gola e la rabbia che le incendiava le vene.
Era il bosco a tenerla tranquilla. Era la presenza di Tobia.
“Qualcosa di interessante?”
“Il beffardello. O meglio, Bice che incontrava il beffardello, anche se lo chiamava spirito della foresta e pareva trattarlo come una specie di nume tutelare. Assurdo.”
Tobia aggrottò la fronte pensieroso. “Non tanto … adesso abbiamo una conoscenza più approfondita delle criptidi, di cosa sono e dei loro poteri. All'epoca invece erano considerate diavoli o angeli, con netta preponderanza dei primi … Ci sta che lo considerasse a quel modo.”
Rosi annuì: quello almeno avrebbe spiegato perché Bice fosse così convita di poter ricevere aiuto, e che lei avesse sognato quel preciso episodio. “Strinsero un patto...” un patto che prevedeva l’intera persona di Bice. Rosi cercò di non pensare a quali fossero le implicazioni. Tanto le avrebbe sognate, pensò con un brivido. “La mia antenata chiese il suo aiuto per liberarsi del serpe regolo, ma mi sono svegliata prima che le rispondesse. Provo a dormire di nuovo questo pomeriggio.”
“Ti aspetto.”
Rosi annuì mentre il borbottare della moka la avvertiva che era il momento di voltarsi e piantare il lungo piano sequenza di sguardi con l'altro.
Mentre si sedevano per bere il caffè il campanello di casa squillò. Tobia fece cenno di star tranquilli ai caramogi, ai gatti e persino a lei e andò a controllare. Fu con sollievo che Rosi vide entrare Ettore. Non era ancora pronta ad affrontare sua madre, l'unica altra visitatrice regolare della casa, e per un po', solo per qualche ora almeno, non voleva render conto a nessuno.
“Buongiorno toscanacci!” li salutò il carabiniere agitando una busta, “Sono passato al bar a prendere qualche cornetto e controllare la situazione. La sorellina tiene il forte, ascolta i vecchietti, e rampogna … la tua copia carbone Rosì!”
Rosi sorrise. “Le ho insegnato bene. I siciliani?”
“Stavano ad un tavolino con un sacco di fogli e dadi … han provato anche a spiegarmi, è quel gioco da tavolo con i draghi.”
“Finché son draghi di fantasia va tutto bene,” sospirò mentre Ettore si toglieva il cappello e si stravaccava sulla sedia pescando dal sacchetto un cornetto a cui staccò un morso soddisfatto.
Cacciò un urlo quando Nasone spuntò da sotto il tavolo per rubarglielo.
Tobia afferrò il folletto e lo tirò su, a distanza dai cornetti ma anche dalla pistola di Ettore.
“Lui è Nasone, uno dei tre folletti caramogi. Sono innocui,” si affrettò a spiegare.
Ettore spalancò gli occhi mentre Gobbo tentava di imitare la bravata del fratello. Tirò il sacchetto in alto e scostò la sedia di un paio di centimetri. “Sicuri che non vogliano mangiare me?”
“Non fanno niente,” ribadì Rosi, “ma fossi in te metterei il sacchetto al sicuro,” e allungò la sua fetta di pane a Gobbo, che si rintanò soddisfatto sotto il tavolo.
“Sta casa mo' è diventata il rifugio delle criptidi?” si informò Ettore inquieto, “ce ne stanno altre in giro?”
“Per ora soltanto loro, ma dobbiamo trovare il beffardello,” rispose Tobia con Nasone ancora comodamente accoccolato contro di lui tutto preso a pettinargli la barba. “C'era all'epoca del primo risveglio. È a lui che Bice chiese consiglio per neutralizzare il regolo.”
Ettore brandì il cornetto verso l'altro. “Questo volevo dirvi ieri sera! Ho parlato con i gatti, con il tuo gatto per la precisione …” le si rivolse ironico. “Lo sai che o' capo rione qua attorno?”
“No,” disse Rosi trattenendo un sorriso, “ma non mi stupisce.”
“Mi ha detto che dobbiamo cercare la criptide più vecchia del bosco.”
“Il beffardello,” concordòTobia, “Però con il regolo a piede libero si è nascosto e quando lo fa è impossibile trovarlo … è in grado di trasformarsi in diversi animali e di mimetizzarsi nel sottobosco. L'unico modo è che sia lui stesso a volerlo.”
“Quindi?”
Tobia si voltò verso di lei e fece un sorriso che poteva unicamente essere classificato come stronzo. Quella parte della loro amicizia non le era mancata per niente.
“Andiamo nel bosco e gli tendiamo una trappola … tanto abbiamo l'esca perfetta.”
Rosi strappò un pezzo dal cornetto che stava sbocconcellando e glielo tirò addosso.
 
***
 
Maddalena si svegliò che Stefano era già nella sua stanza. Da come stava leggendo un libro completamente assorto e da come gli occhiali che gli erano scivolati sul naso doveva essere lì da un po'.
“Ma che minchia …” mormorò con gli occhi ancora impastati di sonno. La notte prima aveva fatto fatica ad addormentarsi, dopo che lei e Cate avevano ascoltato quell'urlo allucinante provenire dalla foresta. La toscana le aveva chiesto di dormire assieme e aveva acconsentito, attendendo che l'altra scivolasse tra le braccia di Morfeo prima di ritirarsi in camera sua. Da lì non era più riuscita a prendere sonno, almeno fino alle prime luci dell’alba.
“Che ci fai qui?”
“Aspettavo che ti svegliassi,” rispose con un sorriso mite. “Buongiorno.”
“Che ore sono?”
“Non troppo tardi, le nove. Ieri sera sei uscita?”
Non le aveva manco dato il tempo di sciacquarsi la faccia che già la riempiva di domande. Si rendeva conto che l'amico stesse semplicemente facendo il suo dovere; interrogarla sui suoi spostamenti era un po' il nocciolo stesso dell'essere un sorvegliante, tuttavia era opprimente.
Ti ha sempre fatto ‘ste domande …
Però era la prima volta che gli nascondeva la verità e questa era una novità.
“Sono rimasta in paese. Io e Cate siamo andate a vedere le lucciole,” rispose sedendosi sul letto. Fuori il cielo era grigio piombo, segno dell'ennesima giornataccia. Chissà cosa si sarebbero inventati per passare il tempo.
Maddalena sperava che sarebbe usciti da Malacena, magari per fare una capatina in qualche borgo pittoresco pieno di viuzze dove imboscarsi. Avrebbe così potuto prendere Caterina e rifugiarsi tra qualche palazzo alto e stretto per baciarsi.
“Siete andate da sole?”
L'espressione di Stefano era illeggibile ma manco quella era una novità; una delle sue capacità da succuba era quella di poter sondare i desideri altrui, così come le debolezze … ma in Stefano non aveva mai letto altro che sentimenti tiepidi dietro una patina di timidezza.
“Eravate presi dal progetto e a me andava di prendere un po' d'aria.”
Stefano posò il libro sulla scrivania. “Cate è lesbica.”
Un'affermazione apparentemente casuale, ma Maddalena conosceva Stefano. Non diceva mai le cose direttamente, faceva in modo che la persona con cui stava parlando ci arrivasse da sola. Era un atteggiamento snervante, e gli aveva inimicato più di un coetaneo, dato che a nessuno faceva piacere esser trattato da ragazzino tonto. Lei per prima.
“Quindi? Non posso esserci amica?”
“Caterina ha una cotta per te, penso se ne siano accorti pure i muri. Devi stare attenta.”
“Non sto facendo niente!” ribatté svelta, troppo svelta da come l'espressione di Stefano mutò in un lampo di consapevolezza.
“La stai ammaliando?”
“No!” e quello era vero. Vero al cento per cento, tanto che si nutriva regolarmente tutte le sere, in modo che quando era con Cate poteva tenerla tra le braccia senza che la fame le mordesse alla gola.
Non le farei mai del male. Mai. Non se lo merita nessuno, ma lei meno di chiunque altro.
“Cate è … siamo soltanto amiche,” disse alzandosi in piedi e fronteggiandolo. Stefano era uno dei suoi più cari amici, forse l'unico. Era però anche il suo sorvegliante ed era lui che stava parlando in quel momento. “Faccio le mie cose altrove. Se ha una cotta per me non è perché l'ho ammaliata è perché…”
Perché?
Scosse la testa. “Non sacciu picchì.”
Stefano le sorrise. “Forse perché sei una bella ragazza che le dà corda,” alla sua faccia arrabbiata ampliò il sorriso. “Non ti sto giudicando. A tutti piacciono le attenzioni e Cate è adorabile.”
Non sto con lei perché voglio attenzioni.
Stava con lei perché si era innamorata come un'idiota e non ricordava di essersi mai sentita così felice e spaventata. Ne avrebbe voluto parlare con qualcuno, ma l'unico che le veniva in mente le stava davanti e non ne avrebbe mai dovuto saperlo per il bene di entrambi.
Stefano si alzò dalla scrivania, libro sottobraccio, dandole una pacca sulla spalla. “Mi dispiace averti fatto arrabbiare, ma te lo dovevo chiedere.”
U' sacciu.”
“Sono dalla tua parte, lo sarò sempre,” strinse appena la presa, guardandola negli occhi. Per un attimo, solo per un attimo, oltre la gentilezza e la preoccupazione, Maddalena lesse altro.
Leggere però non era il verbo giusto. Essere colpita lo era; da uno schiaffo di sensazioni troppo rapide perché potesse riconoscerle, ma che le chiusero lo stomaco e le fecero male fisico, tanto che d'istinto si scostò.
“Che minchia c'hai?” sbottò confusa.
“Niente?” Stefano era impallidito e le stava mentendo. I suoi stupidi poteri sonda-desideri si erano attivati a casaccio ma non sbagliavano. Aveva sondato il cuore del suo migliore amico e vi aveva trovato qualcosa.
Cosa però non ne aveva idea.
“Perché hai tentato di leggermi?”
“Non l'ho fatto apposta!” si difese. Non le piaceva dove stava andando quella conversazione e Stefano aveva un'aria strana. Gli era sparito il colore dal viso e stringeva il libro fino a farsi sbiancare le nocche.
Era arrabbiato e lì non ci volevano i suoi poteri per capirlo. “Mi hai fatto il terzo grado e poi mi hai toccato,” si giustificò. “Non me ne frega niente di cosa desideri, sono fatti tuoi!”
Forse non era il modo più gentile per rassicurarlo, ma non aveva idea di come chiudere quella conversazione. Per fortuna bastò.
“Scusami … sono un po' nervoso in questo periodo.”
“Perché?”
Stefano fece un gesto evasivo. “In tutta franchezza, voglio solo che questa vacanza finisca. Non sono mai stato così tanto a contatto con l'Altrove. Qui di cose strane ce ne sono tante... fin troppe.”
E pensa che ne sai soltanto la metà.
Chissà se l'urlo dal bosco l'aveva sentito anche lui, la notte prima. Non fece in tempo a domandarglielo che l'altro si diresse verso la porta. “Ti lascio preparare, ti aspettiamo giù.”
“Va bene, arrivo.”
Gli aveva mentito certo, e avrebbe continuato a farlo. Di questo Maddalena si sentiva in colpa. La sensazione però era smorzata dal fatto che fosse certa, senza il minimo dubbio, che l'altro la stesse ricambiando con la stessa moneta.
 
***
 
“Non ho capito perché devo essere io a fare l'esca.”
Tobia si scambiò un sogghigno con Ettore. Rosi marciava di fronte a loro, la schiena impettita. Ce la stava mettendo tutta per lasciarli indietro lungo il viottolo che portava al castello.
“Perché io e il maresciallo siamo due uomini e il beffardello ha un debole per le donne,” le fece notare paziente. “E poi ha sempre avuto un rapporto particolare con la tua famiglia … con Bice, e poi con Matilde … e anche tu se non ricordo male l'hai incontrato.”
“Quando era bambina, sì. Si divertiva a spaventarmi sbucando dai cespugli, urlando,” rispose lanciandogli un'occhiataccia da sopra la spalla. Voltò subito la testa però e non era la prima volta che evitava il suo sguardo.
Se prima lo faceva con l'intento di tenerlo fuori dalla sua vita, ora la ragione doveva essere un'altra, ma Tobia non riusciva a capire quale.
“E poi sei 'na bella uagliona, Rosì,” disse Ettore con una franchezza di cui mai sarebbe stato capace. “Vero Tobì?” e gli rifilò una pacca sulla spalla.
Tobia sentì la faccia scottare e provò l'impulso di far ruzzolare il ghignante napoletano giù per il pendio della collina.
Lui e Rosi si erano chiariti. Eppure c'era ancora un muro. Da parte sua sapeva benissimo cosa lo componeva: sentimenti che non se ne sarebbero mai andati, manco da morto.
(Letteralmente).
Da parte della vecchia amica però nebbia completa. La schiena dell'altra era rigida e irraggiungibile. “Arriviamo al castello e poi ti lasciamo sola. Magari viene.”
“Magari viene ...” convenne Rosi e sprofondarono di nuovo nel silenzio. Per fortuna, i rumori del bosco sopperivano alla loro poca voglia di chiacchierare. Più si avvicinavano al castello però, più Tobia notò che i richiami degli uccelli e il ronzio degli insetti si facevano attuti e lontani.
Cominciò a piovere, una pioggerella fastidiosa e gelida che si infilava negli occhi e faceva scivolare la suola delle scarpe.
“Ci risiamo!” Sbuffò Ettore calcandosi il cappello d'ordinanza sulla fronte. “Pioverà ogni volta che proviamo ad avvicinarci?”
“Funziona così,” rispose Rosi. “Non possiamo farci niente.”
Andate via. Non è sicuro.
Quello sussurrava la pioggia, quello ammonivano le foglie. Non potevano però dar retta ai moniti del bosco; non potevano permettere che la Montagnola perdesse un'altra criptide.
Siamo stati i bambini del bosco. Saremo dovuti essere sorveglianti. Rimane compito nostro.
Rosi si voltò verso di lui, quasi avesse captato quel pensiero. Il modo in cui increspò le labbra, in cui piegò appena la testa in un cenno d'assenso fece capire a Tobia che la pensavano allo stesso modo.
Continuarono a camminare mentre la pioggia si faceva più fitta, cattiva. Avevano tutti portato un impermeabile per tenere i vestiti asciutti, ma dagli orli sgocciolava acqua fin dentro le scarpe e lungo il collo. L'estate era un ricordo lontano.
Arrivarono al ponte. Il ruscello era gonfio d'acqua e i due argini in cui di solito si poteva scendere erano sommersi. L'arco del ponte era lambito in maniera pericolosa.
“La Manolonga?” domandò Rosi preoccupata. Tobia annuì e salì, chinandosi per controllare che l'orchessa fosse ancorata come suo solito al di sotto. Non c'era.
La sua espressione dovette parlare per lui perché Rosi impallidì. Lo raggiunse. “Non può essere stata trascinata via, vero?”
“Non è la prima volta che il ruscello si alza così, è abituata...”
“State parlando dell'orca … orchessa?” domandò Ettore raggiungendoli. “Forse è scesa ed è andata a rifugiarsi altrove.”
Rosi scosse la testa. “E' una criptide dei ponti, deve rimanere a contatto con una risorsa d'acqua o la sua pelle si secca. Respira con quella, rischierebbe di morire.”
“Con 'sta pioggia magari non le serve.”
Scesero dal ponte cominciando a controllare nella bassa vegetazione lungo l'argine.
Il regolo non può aver preso anche lei.
Tobia aveva lo stomaco stretto in una morsa, quando un grido di Rosi gli gelò il sangue nelle vene. Corse verso di lei tallonato da Ettore, che aveva già estratto la pistola.
Trovarono la ragazza in mezzo ad un gruppo di enormi felci, alte quasi quanto lei. Era chinata a terra sopra un fagotto di fango e stracci.
Era la Manolonga. Era rannicchiata tra il sottobosco, sporca di sangue che la pioggia non era riuscita a lavare via.
“Non ha senso...” sussurrò Rosi. “È una predatrice, non è parte della sua dieta, perché l'ha attaccata?”
Tobia si chinò accanto a lei, osservando con attenzione. “Respira,” realizzò. “È ferita ma respira ancora.”
Rosi si riscosse e assieme la voltarono. Il petto scheletrico si abbassava e alzava con un lieve e frammentato raschio. “Portiamola al ruscello!”
Tobia non se lo fece ripetere due volte; la pelle della manolonga era però scivolosa di fango e i quasi due metri di altezza la rendevano pesante, difficile da trasportare da solo. Arrivò Ettore: il carabiniere sussultò quando la vide, mormorando subito dopo qualcosa in dialetto. “Dammi una mano!” lo pregò.
Ettore era grigio in volto e parve non ascoltarlo, gli occhi sbarrati e la pistola stretta in pugno. “Per favore,” lo incalzò mentre Rosi si allontanava rapida in mezzo al sottobosco. “Dobbiamo portarla al ruscello!”
“Nu' cazzo di incubo...” lo sentì bofonchiare. Poi però infoderò la pistola e gli si affiancò. “È troppo alta perché ce la carichiamo sulle spalle,” disse sbrigativo. “Tu prendila da sotto le ascelle e io dai piedi, e la portiamo così. Va buono?”
Tobia annuì, grato che l'altro, oltre l'orrore che palesemente provava, fosse un uomo portato all'azione. Trascinarono così la manolonga, tra sudore e pioggia, verso il ruscello. La adagiarono inerte sull'argine. Tobia attese, sperando che il fango e la vicinanza con la fonte d'acqua l'aiutassero a riprendersi.
Non bastava da come la ferita ad un fianco continuava a perdere sangue vischioso.
Ja, è rosso...” commentò Ettore. “Ha il sangue rosso.”
“Respira ossigeno come noi, di che altro colore dovrebbe averlo?” gli domandò prendendole una mano, lunga, disarticolata e con aguzze unghie nerastre, capaci di dilaniare in un solo fendente.
Non le aveva mai usate. Alla Manolonga piacevano le caramelle, i rospi e si divertiva a giocare con le ondine del fiume. Amava slacciare le scarpe dei malcapitati che passavano sul ponte, e un paio di volte si era mostrata anche a qualche cacciatore ignaro, diventando una storia attribuita al troppo vino.
C'era una leggenda che raccontava mangiasse i bambini che non ascoltavano i moniti genitoriali, ma non era vero, la divertivano e questo, nel linguaggio del popolo fatato, significava che era solo più prona a far loro scherzi. Spaventarli era anche un rimedio per non farli sporgere troppo dal ponte con il rischio che annegassero.
Non aveva mai fatto male ad una mosca. Le criptidi del bosco erano mostruose e amavano spaventare, ma erano innocue come bambini selvaggi. Erano la linfa vitale della Montagnola, i suoi abitanti e custodi. Se fossero morte, la magia si sarebbe seccata come una pianta in un appartamento di città.
Il regolo sta uccidendo tutto.
Strinse la mano della Manolonga tra le sue, serrando le labbra fino a sentire il sapore del sangue.
“Dov'è la Rosina?” domandò Ettore. Lo aveva aiutato ma continuava a contemplare la criptide come se fosse un mostro uscito dall'inferno.
Forse era questa la fiducia. Come quella che lui provava per Rosi, che ricomparve dall'altra parte del ponte per poi correre verso di loro con una manciata di erbe in pugno.
“Ce l'avete un fazzoletto? Meglio se di stoffa,” specificò chinandosi con il fiatone. “E mi serve anche un coltello.”
Tra lui ed Ettore furono rapidi a fornirle quanto richiesto. Rosi distese a terra il pezzo di stoffa e con il suo serramanico tagliuzzò con minuzia le erbe, per poi mischiarle ad una manciata di fango che prese dal ciglio del fiume. Richiuse tutto e lo applicò con forza sulla ferita, strappando un ringhio alla Manolonga.
Ettore fece un rapido passo indietro. “Mo' non è che si sveglia e ci attacca?”
“È troppo debole persino per tornare sotto il ponte,” ribatté Rosi senza degnarlo di un'occhiata. La sua attenzione era tutta rivolta a premere l'impacco sulla ferita. Aveva le labbra tirate in una smorfia e gli occhi che lampeggiavano di rabbia e determinazione.
A Tobia non era mai sembrata tanto bella.
“È l'erba del pastore?” domandò.
Rosi annuì. “Nata dentro un cerchio di funghi e dai tre fusti. Dovrebbe aiutare. Però è un rimedio temporaneo, mi servirà comunque attingere alle scorte di mamma.” Esitò. “Non possiamo lasciarla qui … stanotte potrebbe tornare il regolo e finire il lavoro.”
“La portiamo a casa mia. Il bagno ha la vasca, posso tenerla idratata.”
“Ottima idea.”
Si voltarono entrambi verso Ettore che restituì loro un'occhiata incredula. “La volete davvero...” non finì la frase perché la risposta era implicita.
“Davvero,” disse comunque Rosi. “Ci dai una mano o no?”
Ettore si passò una mano sulla faccia. Sospirò un altro effluvio di dialetto. “Nella Polizia dovevo entrare. Così almeno non mi spedivano tra voi matti!”
“Ma se ti lamentavi che ti stavi annoiando e volevi tornare ad essere il protagonista del tuo personale film d'azione?” sogghignò Rosi con l'aria di ripetere una citazione.
Ettore avvampò, accompagnando una parolaccia al correlato gesto esplicativo. “Nu' film d'azione volevo, non un horror! Jamm', portiamo giù sta cosa!”
 
***
 
Marina tornò dal suo turno d'ospedale che aveva appena smesso di piovere. Avrebbe dovuto esserne contenta, perché guidare per le tortuose strade che portavano al paese in mezzo all'acqua era pericoloso, ma quella sensazione era smorzata dalla certezza di essersi persa qualcosa.
E non sto parlando della pioggia.
Parcheggiò davanti al Bar, illuminato diagonalmente dalla luce che filtrava da nuvole che si stavano diradando. Tea non aveva ancora riportato i tavoli fuori, come le abbaiava Rosi ogni volta che finiva di cadere l'ultima goccia, ma capì subito il motivo.
La cameriera era sola nel bar; Rosi non era dietro il bancone, nume tutelare imprescindibile e infatti, la tv era accesa su un canale di musica che trasmetteva terribile reggaeton.
Non c'era molta gente nel locale; mancavano all'appello anche Caterina e i suoi siciliani.
“Dove sono tutti?” chiese raggiungendo la ragazza che si affaccendava a preparare – con scarsi risultati – uno spritz ad una coppia di turisti.
Tea le lanciò un'occhiata inviperita, quasi fosse lei la causa della defezione della figlia. “A sapello!” esclamò. “Cate se n'è andata fuori paese con i suoi amici e Rosi è arrivata dopo pranzo ed è andata subito su!”
“E' ancora in casa?”
“A scende non è scesa!” rispose infilando senza troppa grazia una gigantesca fetta di arancia in uno dei bicchieri. Il contenuto tracimò sul bancone con smorfie di gemello disappunto da parte dei due stranieri. Marina si segnò per persi quei due clienti, ma non aveva tempo per fare pubbliche relazioni.
Non era da Rosi lasciare il Bar nelle mani di Tea; non era da sua figlia ignorare qualcosa che riteneva sua responsabilità … dunque c'era qualcosa di più importante che occupava i suoi pensieri, e si trovava in casa.
Marina salì le scale, il cuore in gola non solo per la fatica. Ispezionò la cucina, in ordine e priva di odori, e le stanze delle figlie. La porta di entrambi i bagni di casa era spalancata per far girare l'aria e di Rosi non sembrava esserci traccia.
Un rumore proveniente dalla sua camera da letto la allertò. Incredula Marina scese le scale e si diresse verso il suono. Rosi le dava le spalle, così assorta nel cercare qualcosa nella sua libreria che non l'udì entrare.
Stava frugando tra le sue pozioni e le sue scorte di erbe. “Hai bisogno di qualcosa?” le domandò. Rosi si voltò: arrossì, come una bambina colta con le mani nel sacco, ma l'imbarazzo durò poco. Lo sguardo le si indurì.
“Cerco il decotto di erba cavallina, dove lo tieni?”
“Secondo scaffale in alto,” rispose meccanicamente. “Chi si è fatto male?”
Rosi non le rispose prendendo il vasetto e stringendolo in una mano, guardandolo come se cercasse di capire qualcosa … o di evitare il suo sguardo.
“Cosa sta succedendo?”
Non c'era modo di evitare quella conversazione. Lo sapeva sua figlia e lo sapeva lei. Eppure le parole facevano fatica a formarsi, rimanevano sospese tra di loro come fili di ragnatele.
“Rosi, parlami per favore.”
“Potrei chiederti lo stesso,” ritorse con una smorfia. “Ma mi diresti la verità?”
“Di che stai parlando per l'amor del Cielo?” sbottò incredula. A che punto erano arrivati del loro rapporto per cui sua figlia non si fidava di lei? Quel tono, quegli occhi sfuggenti puzzavano di sfiducia lontano chilometri.
Ha tutti i torti, forse? Ha capito qualcosa. Non tutto, ma qualcosa. E le basta.
La conosci.
Da quando aveva cominciato a muoversi nella sua pancia, dal suo primo vagito, alla sua prima caduta la fiducia di Rosi era una lastra di ghiaccio sottile, inscalfibile finché non veniva messa alla prova. A quel punto, si rompeva in mille incredibili pezzi.
E Marina in quel momento si stava specchiando in uno di quei frammenti.
“La Manolonga è ferita, il rimedio serve a lei.”
La mente le andò automaticamente ad Elia, alla caccia che lo animava durante le notti di luna piena … quel pensiero passò in fretta, perché la luna era ormai lontana e non aveva mai attaccato altre criptidi. La Manolonga poi era troppo grossa e pericolosa, non l'avrebbe affrontata neppure in forma animale.
“Com'è successo?”
Rosi la superò facendo per uscire dalla stanza, ma Marina la afferrò per un braccio. “Rosi, dimmi com'è successo. Andiamo assieme.”
Non la stupì sentirla divincolarsi. La stupì il modo brusco in cui lo fece, quasi spingendola via.
“Rosi, falla finita!” esclamò sconcertata, cercando di infondere autorità nel tono. Fallì da come la figlia non mutò espressione. “Non puoi occupartene tu, devo farlo io, non sei una Sorvegliante.”
“Perché, tu lo sei?”
“Che stai dicendo?”
Rosi distolse di nuovo lo sguardo e Marina avrebbe voluto schiaffeggiarle il viso, anche solo per farla voltare verso di lei, farsi guardare.
“Dovresti sorvegliare il bosco, ma non lo stai facendo.”
“Non posso avere occhi ovunque!” ribatté incredula. “Se c'è un problema a volte lo posso affrontare solo a posteriori.”
Rosi stringeva così forte il barattolo da farsi sbiancare le nocche. Era una corda tesa allo spasimo, che voleva parlare, ma che restava in silenzio.
“Non stai facendo il tuo lavoro,” ripeté. “E non riesco a capire se è perché non ne sei in grado, o perché non vuoi, ma non mi interessa … d'ora in poi ci penso io.”
“Vuoi tornare a studiare da Sorvegliante?” Non poteva aver scoperto di lupo manaio … a meno che non avesse parlato con Alina.
La Radu però non veniva al Bar da giorni e non era mai parsa interessata alla più grande delle sue figlie, neppure sapeva che aveva studiato da Sorvegliante. Non avrebbe avuto senso per lei cercare il suo aiuto.
Forse c'entrava il Nero?
“Voglio prendere il tuo posto,” la ghiacciò. “È arrivato il momento.”
“Non puoi deciderlo tu.” Non voleva mettersi sulla difensiva perché in condizioni normali quella notizia avrebbe dovuto riempirla di sollievo. Finalmente poteva passare il testimone.
Solo che non era il momento giusto. Forse una volta andati via i siciliani e allontanati i Radu da Malacena … forse a quel punto avrebbe potuto spiegarle tutto e chiedere complicità.
Rosi poteva essere intransigente, ma non avrebbe condannato a morte un ragazzo.
“Non ho nulla in contrario, anzi, ne sono felice,” disse con il sapore amaro della menzogna sulle labbra. “Però ne dobbiamo prima parlare a livello di Confraternita, non è una cosa immediata.”
“Dovrebbe esserlo invece, perché è evidente che le cose non stiano funzionando. Il bosco è in pericolo.” Rosi aveva un'espressione terribile addosso. Furiosa, determinata, come se si trovasse di fronte un nemico.
Era lei il nemico ma non era giusto; si era rotta la schiena per anni per tenere in piedi l'equilibrio fragile della loro famiglia, del Chiaro e dell'Altrove, di Elia … di tutto mentre sua figlia rimaneva rintanata nel Chiaro, tra i suoi libri e il suo lavoro. Non meritava quell'odio.
Inspirò per calmare la rabbia che la agitava. Se si fossero urlate addosso non avrebbero risolto niente. “Perché pensi che il bosco sia in pericolo?”
“Ti rendi conto di che sta succedendo o no?” sbottò Rosi.
Parla di Elia. Parla sicuramente di Elia.
Solo non riusciva a collocare la Manolonga in quel puzzle. Era come un pezzo dentro una scatola che sembrava non coincidere con nient'altro. Eppure era lì.
“Tesoro...” voleva prenderla tra le braccia e rassicurarla. Avrebbe voluto dirle che non c'era bisogno di preoccuparsi che, come sempre, ci avrebbe pensato lei perché aveva imparato che era meglio così.
Rosi però non era dello stesso avviso, non più; era fatta del sangue suo e di Dermot, di concretezza e ideali e questo aveva generato un ibrido fatto di assoluti. Si scostò quando tentò di carezzarle un braccio.
Marina sospirò. “Ci sono fatti che non conosci,” ammise, “sei stata lontana per tanto tempo. Per tua volontà ...” le ricordò, “... ci sono cose che non ti sono state dette. A tempo debito, se vuoi tornare nella Confraternita, ti dirò tutto. Adesso però...”
“Devo chiudere gli occhi? Come volete che faccia Tobia?”
Ovvio che c'entrasse il Nero. In qualche modo i due si erano rappacificati e l'uomo era riuscito a portarla dalla sua parte.
Rosi le rivolse un sorriso sarcastico. “Non funziona più. Il bosco lo proteggeremo noi.”
Non le diede il tempo di ribattere; rabbiosa come il vento la superò scendendo le scale di corsa.
Marina non la seguì; si sedette sul letto. Non avrebbe mai potuto raggiungere sua figlia con il suo fiatone, con i suoi anni e con le sue colpe. Rimase a guardare la borsa per lungo tempo, forse dieci minuti o forse un secolo. Poi prese il cellulare e compose il numero che ormai, che volesse o meno, conosceva a memoria.
“Carlo? Abbiamo un problema.”
 
***
 
Note:
 
le ferie si avvicina e con esse, spero, finalmente un po' di tempo in più!
  
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