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Autore: Adeia Di Elferas    04/12/2021    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Lucrecia era arrivata a Ferrara via canale. Era stata per tutto il tempo così tesa e così intenta a sperare che il cielo non si aprisse in neve, da restare quasi insensibile alla girandola di volti e voci che la attorniarono, prima durante il viaggio e poi al suo ingresso in città.

Perfino le presentazioni ufficiali e i cambi d'abito le risultavano qualcosa di estraneo, come se il suo corpo rispondesse agli ordini degli altri, ma la sua mente rimanesse ferma in un unico punto: ciò che cercava, nella confusione variopinta che la circondava, era Alfonso.

La veste nuziale, l'oro, l'ermellino... Era tutte cosa a cui di norma la Borja avrebbe dato un gran peso e, invece, in quel clima per lei di grande attesa, era tutto secondario e privo di interesse. Solo quando, dopo essere stata trascinata dal corteo per lei composto, scorse il possente cavallo su cui montava l'Este, ecco, solo allora Lucrecia si permise di tirare un sospiro di sollievo.

Quell'inizio di febbraio, per lei, era l'inizio di una nuova vita. Quella sera, mentre le sue dame di compagnia, guidate sapientemente da Adriana Mila, la svestivano con cura, preparandola all'arrivo del suo sposo, la giovane si rese conto di essere stranamente tranquilla.

Non provava l'ansia della prima notte con Giovanni Sforza, né la rivalsa che l'aveva animata con Alfonso d'Aragona, suo grande amore. Era solo tranquilla. E, per quanto poteva, felice.

Mentre ascoltava in silenzio una delle sue accompagnatrici elencare i nomi di quelli che sarebbero rimasti nella stanza, per certificare la consumazione del matrimonio, Lucrecia annuiva senza ascoltare, convinta che, se anche vi fosse stata l'intera Ferrara a spiarli, non avrebbe più provato imbarazzo. Si sentiva una donna adulta, consapevole, già madre di due figli, sapeva bene a cosa andava incontro, e, soprattutto, si sentiva nelle mani di un uomo sicuro e autorevole.

Donne, prelati spagnoli, parenti, relatori di ogni genere, questo sarebbe stato il pubblico di quella notte, e a lei stava bene. Quasi, anzi, le veniva da ridere al pensiero che tutte quelle persone, nelle ore a venire, non avrebbero avuto altro incarico se non quello di osservare e valutare quanto e come quel matrimonio potesse dirsi consumato e riuscito.

Alfonso non si fece attendere. Le si avvicinò subito, fissandola, come se non ci fosse nessun altro in quella stanza a parte loro. Insensibile come lei agli occhi indiscreti e alle parole sussurrate a mezza bocca da tutti quei curiosi, le prese le mani nelle sue e, una dopo l'altra, le baciò.

La Borja riconobbe, senza ombra di dubbio, i segni del mal francese, ma, come le era già successo durante il loro primo incontro, benché le mani senza i guanti a coprirle rendessero molto più evidente la realtà, non se ne sentì troppo spaventata: l'accettò come un dato di fatto, qualcosa di ineluttabile e che, se fosse stato quello il volere di Dio, li avrebbe accomunati, dopo qualche tempo trascorso assieme.

Esattamente come due innamorati rimasti lontani tanto tempi e ritrovatisi soli in un comodo letto di piume, Lucrecia e Alfonso si amarono tutta la notte, senza vergogna, quasi abituati a vendere la propria immagine agli occhi dei pettegoli. I più attenti, riportarono alle lettere destinate al papa che la 'dimostrazione dei suoi ardori', da parte dell'Este, fu triplice, ma nessuno si prese davvero la briga di dire al pontefice quanto la giovane sposa sembrasse aver gradito un simile impeto.

La mattina dopo, risvegliatasi sola nel letto nuziale, stanca, ma ancora entusiasta per l'inizio di fuoco del suo terzo matrimonio, la Borja si prese qualche minuto, prima di far capire alle sue dame di essersi già destata.

In quel momento sentiva Roma lontanissima e, finalmente, dopo anni, riusciva a sentire suo padre lontano, ma allo stesso tempo molto vicino. Quella distanza fisica le permetteva di ricordarne i tratti veramente paterni e non quelli padronali o, peggio, morbosi. Lo stesso, anche se in misura minore, le succedeva nel pensare al fratello.

Quando finalmente si decise a sbadigliare e a farsi sistemare per il giorno che l'attendeva, Lucrecia accettò di buon grado i commenti entusiasti delle poche che avevano potuto presenziare anche durante la notte e trattenne a stento una risata imbarazzata quando la Mila le riferì le parole che sapeva per certo il Duca Ercole aveva scritto a un suo ambasciatore a Roma, al solo fine di farle leggere anche al papa stesso.

Questa notte – recitò Adriana, che si era presa il disturbo di imparare quella frase a memoria – lo Illustrissimo don Alfonso, nostro figliolo, e lei, si sono accompagnati insieme, e crediamo che l'una e l'altra parte siano rimasti ben soddisfatti.

 

Caterina aveva visto dalla finestra Fortunati profilarsi all'orizzonte e così, dando ordine a Creobola di condurlo nel salottino non appena fosse arrivato alla villa, si era andata a sistemare vicino al fuoco, riassumendo mentalmente tutto quello che voleva dirgli.

Il piovano era accorso, lo sapeva, soprattutto per colpa della sua richiesta di vedere un medico con una certa solerzia. L'uomo si era preoccupato e, a detta della staffetta che era tornata in anticipo su di lui, aveva dato subito disposizioni per partire dalla sua pieve e correre da lei e accertarsi di persona del suo stato di salute.

Probabilmente, per colpa dell'ansia che l'aveva preso, non aveva nemmeno avuto modo di ragionare sulla seconda richiesta della donna, ossia quella di procurarle un alloggio stabile alle Murate, dove passare più tempo di quanto non avesse fatto fino a quel momento, avendo così modo di vedere di più Giovannino.

Nervosa, fissando le fiamme, la Leonessa si chiedeva quanto ci volesse Francesco per fare quel breve tragitto che li divideva e intanto ripensava ancora alle parole che lei e la figlia si erano scambiate qualche giorno prima.

Dopo aver scoperto della possibile – anzi, quasi certa – gravidanza di Bianca, e dopo averle comunque offerto il suo sostegno, la Sforza non aveva potuto esimersi dal chiedere, riferendosi a Troilo De Rossi: “Lui lo sa?”

La Riario aveva scosso la testa, spiegando che, quando era partito, era poco più che un vago dubbio e che erano rimasti d'accordo che lei gli avrebbe comunicato qualsiasi notizia, bella o brutta che fosse, solo quando ne fosse stata del tutto certa.

Caterina si era detta che al suo posto non sarebbe forse stata così fredda e lucida, ma aveva accettato il suo buon senso, domandando comunque: “Se sei davvero incinta, hai ragionato su cosa fare?”

A quel punto la figlia, con un apparente grande distacco, aveva commentato: “Prima o poi Astorre morirà. Il Valentino sta solo aspettando il momento giusto per ucciderlo... Sempre che non muoia prima da solo. Appena saremo certi della sua morte, io e Troilo saremo liberi di sposarci.”

“Caterina! Come stai?” la voce di Fortunati risvegliò di colpo la Sforza dai suoi pensieri.

L'uomo era in affanno, ma, nel trovarla tranquilla e senza disturbi fisici evidenti, parve rasserenarsi all'istante. Restando a due passi da lei, Francesco allungò una mano, come a voler afferrare a distanza quella della Leonessa, ma poi si fermò.

La milanese, che aveva reagito con un attimo di ritardo, si alzò in piedi e, dando sfogo a un bisogno che provava da giorni, abbracciò con forza Fortunati.

Colto alla sprovvista, ricambiando quel gesto in modo un po' rigido, impacciato come sempre, l'uomo ribadì anche a voce il suo sollievo per vederla tutto sommato in forma, ma poi passò subito a chiederle il perché di una richiesta urgente per una visita medica, se stava bene.

“Non... Il medico che ho richiesto... Non è per me, in realtà.” rispose, controvoglia, la Tigre: “Ma adesso – lo invitò, indicandogli una delle due sedie imbottite davanti al camino – parliamo un attimo, ti prego...”

Francesco, ancora molto distratto dalla sensazione di calore che gli aveva dato trovarsi Caterina tra le braccia, annuì e fece come gli era stato detto. Non ebbe nemmeno la prontezza di spirito di chiedere a chi, dunque, servissero realmente i servigi del medico. Se solo ci avesse riflettuto un attimo, avrebbe capito in fretta quale fosse il soggetto, dato che in quella villa, di donne, a parte la Sforza e le serve, c'era solo Bianca Riario.

“Le camicie da mandare in Francia le hai ricevute, spero...” fece la Leonessa, sistemandosi e guardando il piovano con una strana apprensione: “Non vorrei che correndo subito qui non...”

“Le ho inviate a chi di dovere appena prima di partire per venire qui.” la rassicurò Francesco, sollevando una mano.

“Meno male.” sospirò lei: “Che si dice a Firenze?”

“Non mi chiedi nemmeno quando arriverà il medico?” fece l'uomo, la fronte che si aggrottava, confuso, come spesso gli capitava, davanti all'indecifrabilità di Caterina.

“Dato che non l'ho ancora visto, e che non l'hai portato con te – ribatté la milanese, facendosi più piccato di non quanto non volesse – immagino che si dovrà pazientare ancora un po'.”

Pentito di averla punzecchiata, il piovano fece un breve sospiro e poi ammise: “A rallentare tutto è stata la clausola di cercare qualcuno che sappia tenere le cose per sé e che sia esperto... Ecco, in questioni femminili.”

La Tigre non riuscì a trattenersi: vedendo le guance di Fortunati farsi cremisi mentre balbettava le ultime parole, diede in una breve risata, che cercò di tacitare subito.

“Perdonami.” si affrettò anche ad aggiungere, ricordandosi come l'avesse già messo più volte in difficoltà con le sue richieste a tratti molto esplicite e di come l'avesse gettato in confusione, qualche tempo prima, baciandolo senza che lui se l'aspettasse: “Non voglio prendermi gioco di te, sia chiaro. Mi fa solo sorridere che... Insomma, sei un uomo adulto. So... So tutto, che hai sempre vissuto da religioso e tutto quanto, ma...”

Francesco la stava fissando immobile, i suoi occhi castani cercavano quelli verdi di lei, ma non esprimevano nulla di particolare. La Sforza ebbe la strana sensazione di guardare due pezzi di vetro.

“Mi hai chiesto che si dice a Firenze.” riprese lui dopo qualche secondo, guardando per terra e stringendosi le mani l'una nell'altra: “Ebbene, ieri sono arrivati in città Giovanni Graismer e tuo fratello Ermes, in veste di ambasciatori dell'Imperatore.”

Nel sentire nominare Ermes, Caterina si irrigidì: “Mio fratello... Qui a Firenze..?” sussurrò.

Le sembravano passati secoli da quando lei ed Ermes avevano condiviso la stessa vita, da bambini, al palazzo di Porta Giovia. Lui aveva sette anni in meno, e, in effetti, aveva avuto poco modo di conoscerlo... Solo da adulti avevano avuto qualche – rarissima – occasione di parlarsi in modo franco. Tuttavia, saperlo così vicino, le aveva dato una subitanea stretta al cuore.

“Ha chiesto di me..?” provò a domandare, rendendosi subito conto che, se anche così fosse stato, Fortunati probabilmente non avrebbe potuto saperlo.

L'uomo, infatti, allargò un po' le braccia, come a dire che non ne aveva idea, tuttavia, quando parlò, fu chiaro che sapeva molto più di quello che voleva lasciar intendere: “Essendo sabato, oggi non gli daranno udienza... Vedrà la Signoria lunedì. È probabile che lui e Graismer ripartano presto... Al momento non sono molto ben voluti, gli emissari dell'Imperatore. Certo, tuo fratello è più che altro un protetto dell'Imperatrice...”

“Bianca Maria è mia sorella.” gli ricordò la Leonessa, interrompendolo: “Le ho chiesto aiuto molto volte e non mi ha mai nemmeno risposto. Mio fratello ora è a Firenze e non ha alcuna intenzione di incontrarmi...”

Francesco schiuse appena le labbra, ma, nel momento stesso in cui provò a smorzare il pessimismo di Caterina, fu la donna a parlare per prima.

“Non mi interessa. Io ho fatto la mia vita, e ho dimostrato di essere molto più Sforza di tutti loro messi assieme.” poi, con un gesto ampio della mano, cambiò di colpo discorso: “Dobbiamo parlare della storia delle Murate...”

Fortunati si schiarì la voce e provò a dire: “Non vuoi nemmeno che ti dica di cosa vogliono parlare alla Signoria..?”

“Non sono affari miei.” si incaponì la donna.

“Ma Lucrezia Salviati potrebbe volertene parlare...” buttò lì il piovano, sperando di far breccia in una delle storiche debolezze di Caterina, ossia la politica e le strategie: “Mi ha chiesto di poterti incontrare, la prossima volta che andrai da Giovannino...”

La Sforza non poteva dirsi sorpresa di una simile richiesta, tuttavia chiese: “Ah, davvero? Vuole vedermi ancora?”

Fortunati non commentò, vedendo affiorare nel volto della donna l'antico interesse che aveva sempre provato per certe questioni, e, anzi, si mise subito a spiegarle gli ultimi accadimenti di cui era venuto a conoscenza e, come previsto, la milanese si fece attenta e chiese maggiori delucidazioni ogni qual volta qualche punto non le tornava.

“E poi – fece alla fine Francesco, come qualcuno che vuole aggiungere una nota di colore per rendere meno pesante un discorso di per sé troppo serio – dicono che qualche giorno fa, prima che partisse per Ferrara, la figlia del papa sia stata raggiunta da Alfonso appena fuori Bologna...”

“E quindi?” domandò la Tigre, innervosendosi, nel sentire nominare la Borja.

“E quindi – fece lui, sollevando un sopracciglio, riportando esattamente le parole che aveva sentito bisbigliare più e più volte da anche troppe persone – dicono che l'Este non abbia voluto aspettare il giorno appropriato e si sia preso i suoi diritti già alla tenuta dei Bentivoglio.”

La Leonessa trovò inverosimile quell'ipotesi, non tanto per il temperamento del ferrarese, che tutti descrivevano come abbastanza volitivo e passionale, e nemmeno per quello della Borja, su cui aleggiava un aria tutt'altro che serena, ma sul fatto che, per certo, coi due novelli sposi doveva esserci stato un nutrito gruppo di dame di compagnia, servi e accompagnatori di vario titolo e lignaggio. Reputava quindi che quella fosse solo una diceria cattiva e ingenua.

Perciò, quando parlò, non toccò l'argomento: “Ti fermi qualche giorno, questa volta?” chiese, ritenendo archiviato il discorso politico di poco prima.

Francesco, che si era aspettato più interesse per quel succoso pettegolezzo, sollevò un po' le spalle e rispose: “Solo un giorno, massimo due. Aspetto che arrivi il medico che mi hai richiesto, e poi riparto.”

“Ho capito.” soffiò la Tigre, evitando di chiedere al piovano se avesse già una risposta, fosse anche definitivamente negativa, alla sua vecchia richiesta di aiuto.

Anche se a tratti riusciva a ingabbiare il senso di solitudine e vuoto che provava, ogni volta in cui si trovava vicino un uomo – eccezion fatta per frate Lauro, che era al di là di ogni possibile tentazione, per lei – sentiva il ventre rimordere e l'anima perdersi e desiderava che Francesco alla fine cedesse e si regalasse a lei senza ulteriori remore morali.

“Senti, ma...” l'uomo sembrava essere stato colto da un dubbio improvviso che, all'inizio, immersa com'era nei suoi ragionamenti, Caterina non capì: “Ma è per Bianca..?”

“Che cosa?” domandò infatti la donna, non cogliendo l'allusione al medico che aveva richiesto lei stessa.

“Dicevo... Serve a Bianca, un consulto..?” Francesco comprese subito di aver fatto centro, quando vide il viso della Sforza rabbuiarsi.

“Sì.” disse la Leonessa, senza sbilanciarsi.

“Ma sta bene..?” provò a indagare il piovano, ripensando a come la figlia della Tigre, a suo modo di vedere, fosse sempre stata una ragazza florida e in salute.

“Sì... Cioè, lo spero...” boccheggiò la donna, indecisa se dire tutto o meno.

“C'è qualcosa di cui vorresti parlarmi?” insistette il fiorentino, sporgendosi un po' in avanti.

“Hai presente prima, quando volevi intendere quanto sarebbe stato scandaloso, se davvero la figlia del papa si fosse intrattenuta con l'Este in modo sconveniente, prima di essere sua moglie a tutti gli effetti?” domandò Caterina, riassumendo grossolanamente i fatti riportati dal piovano: “Ecco... Se fosse vero, e poniamo come assodato che a parer mio non lo può essere, io non credo che sia un vero scandalo. L'avrei trovata una debolezza molto umana, e molto scusabile. L'avrei pensato così già prima, ma ora ancora di più.”

La mente tutto sommato priva di malizia di Fortunati ci mise parecchio a collegare la questione della Borja allo stato di salute di Bianca. Ci mise ancora di più a collegare la passata presenza, apparentemente non giustificabile, di Troilo De Rossi alla villa, al bisogno della Riario di vedere un medico, ma, alla fine, collegò tutto quanto. Per quanto gli paresse impossibile, la soluzione a cui era giunto gli accese un lampo d'allarme nello sguardo.

“Tua figlia è incinta?” chiese, senza troppi giri di parole.

“Credo di sì.” rispose lei, piatta.

 

Troilo fermò il cavallo e si mise a fissare sconsolato la campagna che gli si stagliava davanti. Fino a dove i suoi occhi potevano spingersi pareva non esserci altro che neve. Solo molto in fondo, un po' coperta dalla nebbia che si alzava dai campi poteva intravedere una casupola, che sapeva essere disabitata.

Fece un respiro profondo e lasciò che il suo fiato si condensasse davanti ai suoi occhi come il fumo di un cannone. Quella terra, grande e a suo modo dolce, era l'unica cosa che secondo suo padre contasse qualcosa. Però lui vedeva solo campi incolti, e, quei pochi che erano curati da qualche mezzadro, erano difficili da controllare, perché le ferite profonde del contado di San Secondo erano ancora molto vive e molti contadini non capivano a chi dovevano obbedire.

L'uomo si schiarì la voce, dando poi un breve colpo di tosse, per colpa del freddo pungente. Anche se era vestito pesante, sentiva l'umidità infilarsi fin sotto la pelle e, da lì, risalire alle ossa.

Era stato suo padre a convincerlo a fare quel giro di perlustrazione quella mattina, appena spuntato il sole – se tale si poteva chiamare – al solo scopo, nella sua ottica, di farlo innamorare di quella campagna. Il De Rossi non se l'era sentita di rifiutarsi, dato che il padre, che secondo i medici si era aggravato ancora di più, gli aveva fatto giurare di seguire quel consiglio. Si era ripromesso di stare poco tempo fuori dal castello e, invece, doveva essere quasi mezzogiorno e ancora non si era incamminato verso casa.

La verità era che, per quanto fosse amareggiato dal vedere la desolazione delle terre che avrebbe ereditato, quell'uscita inattesa gli stava dando respiro. Il calore del cavallo su cui montava, gli dava conforto, e il silenzio che lo accompagnava, gli permetteva, finalmente, di pensare.

Da giorni pregava affinché suo padre si rimettesse abbastanza da permettergli di tornare alla villa di Castello. Il viaggio non era breve, né facile, ma nella testa di Troilo quelli erano meri dettagli. Tutto ciò che voleva era stringere a sé Bianca e poi, che si potesse fare oppure no, portarla con sé a San Secondo, come legittima moglie, e ripartire da quell'unione. Anche se aveva quasi quarant'anni, si sentiva piccolo e spaventato all'idea di dover prendere le redini di uno Stato piccolo e indifeso come quello che suo padre gli avrebbe lasciato. Non voleva affrontare quel passaggio di responsabilità da solo e sapeva che la Riario sarebbe stata l'unica donna in grado di affiancarlo in quell'impresa.

Dando un lieve colpo ai fianchi del cavallo, l'uomo riprese il cammino, orientandosi a fatica, ma sicuro di scorgere, nell'arco di una mezz'ora, il profilo del castello mezzo diroccato che era diventato la sua nuova dimora.

Bianca non gli aveva ancora scritto. Erano d'accordo che l'avrebbe fatto, se ci fossero state notizie, sia in senso positivo, sia negativo. Troilo continuava a sperare di saperla incinta, ma quel silenzio gli faceva credere che non fosse così e che la giovane non volesse sprecare una missiva solo per dirgli che, per quella volta, era andata così.

La tentazione di scriverle a sua volta era fortissima, anzi, da qualche sera si trovava a vergare lunghe lettere e poi accartocciarle e gettarle nel fuoco del camino, per impedirsi di inviarle. Era penoso non poter far sapere alla sua donna quanto gli mancasse e quanto desiderasse riaverla con sé, ma era più che cosciente della delicatezza della loro situazione e dell'importanza di non far intercettare lettere che avrebbero potuto, un domani, pregiudicare un loro legittimo matrimonio.

Il mondo, pensò, era un posto così ipocrita e pieno di leggi assurde...

Finalmente, come se uscisse da una nuvola, in lontananza si cominciò a vedere la rocca di San Secondo. Il suo profilo era ormai familiare a Troilo, eppure ogni volta, per lui, era come vedere una cosa nuova. La scrutò, cercò di capirla, ma gli sembrava qualcosa di estraneo, qualcosa di ancora selvatico e indomabile. Le torri da sistemare, uno dei camminamenti diroccati, perfino una delle pareti principali squarciata nel centro...

Fosse stato per lui, sarebbe scappato da quel posto. Non era alla sua portata: c'erano troppe cose da sistemare, troppi nemici in agguato, pronti a saltargli alla gola nel momento stesso in cui suo padre fosse morto, troppe clausole legali che rendevano in parte illegittima la sua pretesa su quelle terre...

Con un sospiro, l'uomo strinse un momento gli occhi e poi, quando li riaprì, vide qualcuno a cavallo correre all'impazzata verso di lui. Arrivava dal castello e sollevava grandi spruzzi di neve.

D'istinto, anche il De Rossi accelerò, e, quando si trovò dinnanzi colui che lo stava cercando, uno dei soldati più fidati della sua scorta, si trovò a chiedere, senza voce: “Mio padre..?”

“Non ancora.” rispose l'altro, senza fiato, ben intuendo il timore principale di Troilo: “Ma vi chiama d'urgenza al suo capezzale. Vuole parlarvi e vuole farlo subito, perché sente che il suo tempo sta finendo.”

Senza attendere altro, il De Rossi spronò il suo cavallo che, ansimante e scivolando di continuo, lo portò in un lampo al castello. Lasciata la bestia al soldato, Troilo corse nella stanza del padre, con ancora addosso il mantello e con gli stivali coperti di neve bianca e soffice.

Giovanni De Rossi lo stava aspettando e, quando lo vide, abbozzò un sorriso e gli fece segno di avvicinarsi.

Nella camera, a parte un medico e la madre di Troilo, non c'era nessuno. I mobili erano pochi e di scarso valore. Le finestre di vetro grezzo, il letto un po' rovinato... Era come se tutta la stanza volesse ricordare ai presenti la precarietà del loro potere, della loro Contea, perfino della loro stessa vita.

“Avevo giurato a me stesso – cominciò a dire Giovanni, mentre il figlio si avvicinava, per sentire meglio la sua voce resa flebile dalla fatica di sopravvivere – che avrei ridato queste terre alla mia famiglia, e questo sono riuscito a farlo. Ora giurami... Giurami!” esclamò, ritrovando per un istante la voce piena e potente che aveva sempre avuto: “Giurami che farai tutto quello che potrai per preservarle e rafforzarle e rendere la nostra famiglia e la nostra Contea di nuovo grandi. Giurami che sarai propagator et restaurator della nostra genia.”

L'uso di quelle due parole in latino colpì profondamente Troilo. Sapeva che il padre non era uomo di lettere, ma era anche profondamente cosciente di quanto quei due termini fossero importanti e profondi per lui, perché era quello, 'propagatore e restauratore' della sua famiglia, che avrebbe voluto essere lui per primo.

“Siete già riuscito a fare voi quello che chiedete a me.” lo volle inorgoglire il figlio, ma il padre scosse con forza la testa.

“Giurami che lo farai, e che tra cento anni ancora si parlerà dei De Rossi di San Secondo con rispetto e paura.” insistette Giovanni, afferrando la mano forte e grande del figlio con la sua, fredda, ossuta e malferma: “Propagator et restaurator.” ribadì e, mentre anche la moglie, Angela Scotti Douglas, si avvicinava, la presa della sua mano si affievolì e non riuscì a dire altro.

“Lo giuro...” soffiò il figlio, ma, forse, il padre già non lo poteva sentire più.

“Chiamate il prete...” sussurrò la donna, capendo che ormai il marito non avrebbe più potuto dire o fare nient'altro.

Troilo, che sentiva ancora nelle orecchie le ultime parole di Giovanni De Rossi, per tutti il Diseredato, sentì come un peso improvviso calargli sulle spalle: ora che suo padre era morto, spettava a lui portare a termine il progetto che era iniziato con suo padre.

Propagator et restaurator...” bisbigliò tra sé, mentre la madre scoppiava in lacrime e la stanza si riempiva di nuovo di soldati, servi e famigli: “Lo giuro...”

   
 
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