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Autore: SkysCadet    04/12/2021    0 recensioni
La cittadina di Filadelfia sembra un borgo tranquillo, in cui la gente comune passa la giornata senza occuparsi degli strani avvenimenti che accadono da diverso tempo. Tuttavia, Simon si ritrova - suo malgrado - a combattere per la salvezza delle anime sfuggite al potere dei Lucifer. Tra questi c'è Joshua, un ragazzo con un dono particolare. Il giorno in cui Ariel - una matricola impulsiva dell'università di Filadelfia - lo incontra per la prima volta, capisce che in lui c'è qualcosa di diverso dagli altri ragazzi. Solo un nome sembra in grado di cambiare il corso degli avvenimenti, un nome che i Lucifer non possono nominare...
Genere: Fantasy, Mistero, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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«Vediamo come sta il nostro bel ragazzo dal nome quasi impronunciabile...» sospirò Lilith, facendo ascoltare i suoi passi che, con andatura militare, si dirigevano verso la cella di Joshua, posta poco oltre quella di Ariel.

Acab sapeva quel che sarebbe successo di lì a poco.

Si posizionò di fronte alle sbarre, stringendo e strofinando tra i palmi il ferro arrugginito fino a provocare lievi graffi.

La fissò, di nuovo, con i capelli che coprivano la fronte e parte dello sguardo glaciale.

Attese mentre la giovane Ariel lo implorava con gli occhi, negando col capo ciò di cui aveva avuto timore per tutto il tempo della sua prigionia.

Non appena le urla del ragazzo arrivarono alle orecchie di Ariel, un dolore la colse brusco nel petto.

Le urla di lui si fusero a quelle di lei.

Acab la vedeva torcersi al suolo, urlando il nome di Joshua, fino a ferirsi la gola ad ogni schiocco di frusta. Passò il tempo e, questa volta, il sangue del ragazzo fece capolino fuori dalla cella. Sfregò la fronte umida alle sbarre, respirando rumorosamente.

Alla porta del cuore sentì un bruciore lancinante, come se qualcuno glielo stesse graffiando.

La sua morte bussava alla porta.

Osservò Ariel, ancora una volta e, per un attimo, gli sembrò che i due fossero collegati, come membra di un medesimo corpo e che l'uno sentisse il dolore dell'altro nel medesimo modo.

Quel bruciore infiammò l'esofago nell'acido del timore.

Timore di quel Nome...

La ragazza stava contorcendosi al suolo, in posizione fetale, bevendo lacrime e gemendo per il suo fratello ritrovato e subito perso.

Il legame tra i due non aveva nulla a che vedere con rapporti umani carichi di interessi e scopi personali. Alla fine l'aveva visto solo per una settimana. L'aveva atteso, aveva pregato nel miglior modo che sapeva, anche se, forse, non era in grado di farlo nella maniera corretta. Per sette mesi una specie di vuoto accompagnò i suoi giorni a Filadelfia, in cui Simon e Lucia non facevano altro che confermare, con la loro presenza, la mancanza di qualcuno.

Sette mesi ad aspettare per poi ritrovarsi lì a piangere.

Poi, un particolare attirò la sua attenzione: in un punto imprecisato della cella, tra Acab e il centro del suo abitacolo, le ombre assunsero i contorni definiti di un aura celeste.

Così...Erano tutte menzogne...

Anche nell'ombra della morte, ci sei Tu...

Fissando gli occhi a quella presenza, Ariel fece forza sui gomiti; strisciò fino alla parete di pietra cercando un appiglio per alzarsi in piedi o, quanto meno, mettersi in ginocchio. E ci riuscì: si mise in ginocchio con la fronte premuta alla parete rocciosa, provocando una nota di stupore nello sguardo di Acab.

L'odore di muschio misto a quello metallico del sangue che permeava la parete, le fece rivoltare lo stomaco, mentre il freddo della roccia le intorpidì la guancia.

Rimase lì, quasi ad attendere che quella visione non fosse solo un sogno.

Acab, invece, ignaro di tutto, la fissava con la fronte aggrottata.

Lilith uscì dalla cella di Joshua recando tra le mani una frusta sudicia e gocciolante; passò oltre la prigione di Ariel incedendo come un militare, senza nemmeno spostare lo sguardo verso il fratello, che osservò la scia scarlatta lasciata sul pavimento.

Quando Acab vide la sua figura scomparire nel buio del tunnel da cui era arrivata, fece scattare la serratura della cella di Ariel per entrarvi, ma lei non sembrò curarsi di ciò che stava per fare.

Aveva il capo abbassato, con i capelli bagnati dall'umidità che le coprivano il volto, le mani giunte contro la parete di pietra e la voce che emetteva un sussurro cadenzato.

Le si avvicinò con un passo fin quando il tono utilizzato non aumentò, inoculando nei suoi pensieri solo due parole.

Proprio quando i suoi neuroni analizzarono i due sostantivi, Acab si sentì avvinto da una morsa come di corde invisibili. Bruciavano la pelle, tanto da metterlo in ginocchio e farlo boccheggiare; e quando i suoi occhi supplici incontrarono quelli scuri di Ariel, fu come se una spada l'avesse trafitto in pieno petto.

Lei si mosse in ginocchio, ferendosi la pelle delle gambe e reggendosi da una fessura della parete rocciosa, si mise in piedi, continuando a cantare Quel Nome.

Ariel aveva ascoltato quel canto quando, nel periodo di Pasqua, si era recata nella Cattedrale delle Sette Chiese. La tradizione della Città di Filadelfia prevedeva che ogni festività dovesse essere motivo di unione tra le diverse fedi.

Così, mentre i membri delle Sette Chiese percorrevano la Piazza Centrale, in file parallele capeggiate dai rispettivi Padri, Ariel aveva deciso di assistervi da lontano, senza farne parte.

Una volta entrata nella Cattedrale, la musica di quel canto e le voci angeliche dei membri del Coro, l'avevano accolta come in un abbraccio.

Il testo conteneva solo quelle due parole impronunciabili che lei stava cantando con decisione ferrea.

Quando i suoi occhi venati di rosso gli si rivolsero austeri, Acab capì di avere la vita nelle mani di colei che ogni giorno di più scioglieva quella lastra di ghiaccio posta al centro del petto.

Si ritrovò a i suoi piedi, rigido, con le mani dietro la schiena e il mento rivolto verso il pavimento con i capelli che gli coprivano il viso.

Lei lo fissò con sguardo torvo, avvertendo il tempo fermarsi e un fuoco percorrerle lo stomaco, il cuore e le corde vocali. Muovendosi verso di lui, lentamente e con lieve incertezza, Ariel si piegò per prendergli i capelli e fissarlo nelle iridi cerulee.

Acab trasalì, col fiato che sembrava abbandonarlo ogni secondo di più.

Gli occhi marroni non lacrimavano più ma sputavano odio e vendetta; occhi di un leone ferito, ma capacissimo di afferrare la preda e ridurla a brandelli.

Tuttavia, Ariel non si rese conto che quei sentimenti oscuri cozzavano col nome pronunciato dalle labbra livide.

Per questo motivo, Acab ebbe la forza di alzarsi con uno scatto e ruotare il busto verso l'esterno, per spingerla con vigore verso le sbarre, tenendola dalle braccia e premendo il suo corpo contro di lei.

Le respirò rumorosamente sul viso, stringendo le dita sulla pelle nuda degli arti; dopo qualche secondo, mollò la presa su di lei per dirigersi fuori dalla cella con una mano sulla fronte dolorante.

Lei ascoltò i suoi passi percorrere le scale in salita e quasi subito le risentì venire verso la sua direzione. Non era riuscita a comprendere il comportamento di Acab e la sua mente divenne, in poco tempo, una giungla di pensieri contrastanti.

Se quello era il momento della sua morte, l'avrebbe accolta senza alcun rimpianto. Era pronta, fredda e ormai impassibile.

Nel rivedere il viso di Acab di fronte a se, prese un bel respiro e rimase in apnea per qualche secondo.

Lui recava nella mano destra una bottiglia verde scuro contenente un liquido dorato; poteva essere qualunque cosa, ma non le importò più nulla; se era giunto il momento, avrebbe concluso la sua esistenza dando un ultimo messaggio al suo assassino: «I tuoi occhi non possono essere lo specchio di un'anima nera. Parlano di un ragazzo obbligato a mentire. Per questo ti ho messo nelle Sue mani già perdonato».

Non era stata una frase lanciata lì a caso, ma una delle parole di Simon che più l'aveva colpita.

Era un giorno di maggio, il giorno del suo compleanno quando il Padre, dopo il sermone, gli si avvicinò donandole la collana di Joshua: un ciondolo a forma di spada il cui significato richiamava l'allegoria della Parola di Cristo pronunciata "come una spada affilata a due tagli, capace di dividere l'anima dallo spirito".

Ovviamente impreparata al riguardo, Ariel si mostrò entusiasta e al contempo riluttante ad accettare un simile dono. Simon, però, glielo aveva posato sul palmo facendo sì che le sue mani si chiudessero e stringessero il ciondolo con la promessa di perdonare tutto ciò che Ariel reputava imperdonabile; la parola affilata, infatti, veniva pronunciata solo da chi aveva perdonato di buon cuore qualsiasi peccato.

"Il perdono salva sempre, Ariel. Salva te e salva colui che riceve il perdono".

Acab, rifletté a quella frase e guardandola con noncuranza prima di alzare la bottiglia sopra la testa, pronunciò: «Se fossi nelle Sue mani, sarei già nell'oltretomba...»

Ariel sentì il rumore dei vetri rotti e un liquido caldo attraversare la nuca e il braccio sinistro.

Non sentì dolore, solo un intenso profumo di olio d'oliva.

Quell'olio cosparse i suoi capelli, le braccia e le gambe.

Acab le prese il polso e iniziò a sfregare con forza le polsiere con cui Ariel era incatenata, ma lei sembrava essere in uno stato comatoso, in cui le certezze non esistevano più.

Lo fissava impegnarsi a levare via quei ferri e, quando ascoltò il rumore della polsiera che cadeva al suolo, Ariel la osservò interdetta.

«Allora, adesso devi fare la stessa cosa con l'altra e con quelle ai piedi, ma...Ehi!» Acab la strattonò come per risvegliarla e poggiando i palmi sulle sue guance la fissò deciso «Ariel, devi muoverti perché non abbiamo molto tempo. Il mio Signore sa quel che sto per fare e non me lo permetterà. Tu hai il tuo Dio. Mi hai capito?»

Ariel annuì, senza riuscire a capacitarsi di ciò che le sue orecchie avevano appena udito.

Sembrò che anche il tempo si fosse fermato. Lì in quegli spazi angusti, permeati dall'odore di zolfo e dal lento suono di gocciolanti liquami, il viso di Ariel era ancora trattenuto tra le mani gelide di Acab.

Le aveva levato via una polsiera delle catene e cercava nei suoi occhi il motivo di tanto stupore, quasi fosse semplice comprendere le sue azioni.

I loro occhi si fondevano in espressioni indecifrabili, quando dei passi decisi, provenienti dalle scale metalliche, attirarono l'attenzione di Acab, facendogli spostare lo sguardo oltre la ragazza.

Ariel lo fissò incerta e impaurita per qualche istante, in attesa di un suo cenno.

Il volto di Acab sbiancò e gli occhi si tinsero di un azzurro chiaro, lucido e, nel rivolgerle nuovamente lo sguardo, deglutì e la fissò intensamente.

Le dita corsero fino alla nuca per stringere i suoi capelli tra le mani e le labbra coprirono quelle di Ariel, dapprima dolci e delicate sfiorarono i lembi della bocca che si schiuse titubante, poi insaziabili vollero di più.

I pensieri le si aggrovigliarono in un tumulto che annichilì il cuore.

La sua bocca serrata in una linea sottile si ribellava alla voracità dell'altro, sopraffatto da un impeto disperato.

D'istinto, lei gli strinse i polsi per allontanarlo da sé. Gli conficcò le unghie nella pelle pallida provocandogli un verso di dolore. Irritato, la spinse col bacino ancora di più verso le sbarre.

«Non capisci...» pronunciò quasi in un soffio sulle labbra schiuse, premendo il corpo a quello esile di Ariel, spezzandole il fiato.

Nulla è più arrendevole di un anima che ha perso la fede.

E quando gli occhi di ghiaccio si incontrarono con quelli ugualmente gelidi del personaggio giunto appena fuori dalla prigione, Acab si allontanò da lei, col petto che si alzava e si abbassava vistosamente.

«Mi fa piacere, figliolo, vederti così impegnato,» affermò Judas, entrando nella cella «ma il nostro Signore ha richiesto la tua presenza».

Nel torace di Acab, ancora mosso da fremiti concitati, esplose un fuoco di terrore che gli accelerò i battiti, mentre l'adrenalina percorreva ogni sua terminazione nervosa, rigandogli la fronte di sudore. Fissò Ariel sperando che, come quando aveva capito che i suoi occhi celavano segreti inconfessabili, in quel momento, nel suo sguardo vedesse la mappa di quel luogo di terrore, per uscirne indenne.

Abbassò il capo, bagnando le labbra, assaporando il ricordo di Ariel. Fissandosi le mani tremanti allungò le braccia verso il padre, congiungendo i polsi arrossati per farsi incatenare.

«Mi spaventa il tuo silenzio, Acab.» commentò, fissandolo truce.

Ariel cercò di analizzare la scena, impietrita e interdetta. Lo guardò a lungo: un cane docile al guinzaglio intento a fissare un leone con aria arrendevole.

Il tintinnio delle catene la svegliarono da quello stato di gelo e inconsistenza.

Poco prima aveva sentito la forza del corpo di Acab su di lei, ma, in quel momento, osservandolo con la testa bassa e in ginocchio di fronte al padre, ebbe l'indescrivibile sentore di essere stata salvata.

Le catene di Acab, così simili alle sue, le trasmisero un senso di impotenza e, priva di ogni forza, si lasciò cadere al suolo, lungo le sbarre, versando lacrime copiose: anche quel lucignolo di speranza stava affievolendosi nel gelo del suo cuore.

Acab, appena fuori dalla cella, si voltò per cercare i suoi occhi un'ultima volta e, incrociandoli lucidi, gli intimò di scappare con un rapido cenno del capo.

Lei si alzò, reggendosi dalle inferriate, con le gambe che non reggevano il suo peso e quello delle catene. Ricordò ciò che aveva fatto Acab e con la mente annebbiata dal dolore, si cosparse braccia e gambe delle ultime gocce di olio presenti nei resti della bottiglia rotta.

Si levò con difficoltà la polsiera metallica, ferendosi le dita col ferro arrugginito per poi dedicarsi con le ultime forze alle cavigliere.

Il sangue delle caviglie si mescolò all'olio e alle lacrime della giovane.

L'ultima cavigliera rotolò via dal piede e con essa la sensazione di oppressione e schiavitù.

Si alzò, lentamente, reggendosi da una delle sbarre per non cadere; la testa girava facendole venire le vertigini e la nausea fece capolino al suo palato.

Mosse un passo e si ritrovò faccia a terra, a gustare un sapore metallico. Dalle labbra un filo di sangue percorse il mento; le mani pregne del liquido rosso proveniente dalla cella di Joshua, apparvero sfocate alla vista.

Soffocò urla, gemiti e lacrime, strofinando la fronte sui dorsi delle mani. Tirò su col naso, ingoiando la disperazione che le avrebbe impedito di accelerare quella improbabile missione di salvezza.

Quante volte mi hai salvato...

Quante...

Puntellò le mani al suolo, cercando di non scivolare su quella pozza dall'odore ferroso e dal colore scarlatto; rimase carponi, e si avvicinò al corpo inerme del giovane che, esangue, mostrava un reticolato di strisce sulla schiena e in ogni parte di carne.

Il viso di Joshua era rivolto verso l'interno della cella.

I singhiozzi rotti le bloccavano le vie aree.

Arrivò strisciando sulla figura di Joshua; si bloccò, con le mani tremanti tese verso quell'orrore mentre la nausea bruciava lo sterno.

Volle guardarlo in viso, un'ultima volta.

***

Nel frattempo, l'Ospedale di Filadelfia era stato circondato da auto nere dai vetri oscurati e mentre i pazienti giacevano nei lettini, inconsapevoli, le tenebre si mossero indisturbate.

Simon aprì lentamente gli occhi. Nella stanza bianca e asettica, un raggio di luce, proveniente dalla ampia finestra alla sua sinistra, illuminava i fluenti capelli biondi di Lucia, che pareva dormire con un sonno tormentato.

Lui puntellò le mani al materasso e, smuovendo le lenzuola, la svegliò.

«Simon, come ti senti?»

Lui non riuscì a rispondere: aveva la bocca pastosa e sembrò che non ricordasse più il modo in cui si articola una frase, mentre gli occhi di Lucia divennero sottili e le labbra dischiuse sembravano voler pronunciare qualcosa, prima che la sua attenzione si spostasse alla porta da cui entrò il medico.

«Padre Simon, buon giorno. I miei colleghi mi hanno riferito quel che le è accaduto.» sentenziò l'uomo dal volto corrucciato, dietro gli occhiali, sfogliando le pagine della cartella clinica. «Ma sa una cosa?» domandò con un sorriso di scherno «Io non credo ad una sola parola di quel che mi hanno detto.» Concluse, lasciando malamente la cartella sul tavolino posto di fronte al lettuccio e facendo sobbalzare Lucia.

«Le dirò io quel che faremo adesso:» sedendosi accanto a Simon che lo fissava con sguardo serio e impenetrabile. «Lei dirà che Judas è venuto nella sua amata chiesetta e che lo ha conciato bene... »

In quel preciso istante, Lucia sentì una bruciante acidità attraversarle l'esofago. Si alzò piano, e muovendo qualche passo all'indietro, si spostò lentamente verso la finestra, proprio nel punto in cui la luce del sole mostrava il pulviscolo; concentrò lo sguardo verso il capo del medico, il cui taglio simmetrico dei capelli neri lasciavano vedere chiaramente un tatuaggio, molto più che emblematico: una stella nera capovolta con all'interno una cicatrice a forma di L, proprio dietro l'orecchio destro. Il medico continuò: «successivamente faremo una denuncia per diffamazione e lei, con i suoi seguaci, andrà lontano da qui, dove non sarà più possibile la sua influenza. Mi ha capito, Padre?»

L'uomo si era avvicinato tanto da porre la fronte contro quella del Pastore, che non lo degnò di alcun gesto di stizza, nonostante l'altro gli aveva sputato l'ultima parola pregna di veleno.

«Le do il tempo di vestirsi.» disse poi, alzandosi. «Ci incontreremo per le dimissioni. I miei colleghi la stanno già aspettando all'esterno.»

Il medico aveva utilizzato una voce calma, pacata, di chi ha già la vittoria in mano ma, mentre stava per uscire dalla porta, incontrò lo sguardo torvo di Nathan che lo guardò scivolare oltre l'uscio osservandolo allontanarsi a passo svelto, facendo echeggiare le suole.

Il ministro entrò disegnando nel volto un mezzo sorriso.

«Nathan, c...cosa c'è?» intervenne Lucia, guardando impietrita l'uomo che levava via le lenzuola e tendeva le mani a Simon. «Che stai facendo?»

Nathan la fissò infastidito e sospirando le intimò di aiutarlo, con un cenno del capo.

Coprirono il Padre con un impermeabile, il quale si lasciò cingere i fianchi e portare fuori da entrambi, senza proferire suono.

«Forse so dove sono.» ruppe il silenzio Nathan, scendendo le scale.

«Come?!» strillò Lucia, sbarrando gli occhi e al contempo, facendo attenzione ai suoi passi sugli scalini di marmo.

I tre si dovettero fermare sul pianerottolo, perché Simon si era bloccato di colpo, facendoli arrestare sul posto.

«Dimmi tutto. Ora.» furono le uniche parole pronunciate dal Padre.

 

   
 
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