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Autore: Cladzky    08/12/2021    2 recensioni
[Tetsuwan Atom (Astro Boy)]
Uran si sveglia una mattina con aria polemica. Quello che Atom non realizza è che quello di sua sorella non è un normale capriccio, ma il terribile sentimento di essere un'inutile imitazione. Analisi sull'identità in terra straniera.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate
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–Buongiorno Uran!

Come ogni mattina fu svegliata dalla voce allegra di suo fratello. Fin troppo allegra. Sbirciò un momento, aprendo un poco la palpebra sinistra e vide Atom sorriderle come al solito, seduto al bordo del suo letto. Era un sorriso appena accennato, ma incredibilmente allegro e gli piegava quel poco che bastava le guance perché andassero a curvargli il bordo inferiore dei suoi occhi da cerbiatto. Lei calò il sopracciglio, assottigliò gli occhi e mise il broncio, cercando di dargli l'occhiataccia più convincente che poteva, ma nulla: sul sorriso di Atom non si formò la minima crepa, i suoi occhi continuavano a scintillare di vivacità e lui non fece altro che inclinare la testa su di un lato e chiuderli con un risolino. Lei di risposta si voltò dall'altra parte, tirandosi dietro le coperte.

–Non vorrai fare tardi a scuola?– Insistette Atom, saltando giù dal suo letto e avvicinandosi a quello di Uran. Le si fece accanto e le smosse un poco la spalla, ma lei di rimando si tirò le coperte fin sopra la testa.

–Ti sbagli, non vorrei proprio andarci!– Mugugnò lei. Atom si ritrasse un momento, toccandosi una delle sue punte, pensoso.

–C'è qualcosa che non va, Uran?– Chiese il fratello, chinandosi in avanti, indice sul labbro, con tono preoccupato. Appena sentita la domanda, Uran si rizzò a sedere e premette la sua fronte contro quella di Atom con violenza e gli strillò in faccia, con le sue pupille nocciola che andavano a riflettersi in quelle del fratello dal medesimo colore e viceversa all’infinito.

–Non ti sembra ovvio?– Cominciò lei –Perché mai una come me dovrebbe perdere tempo a frequentare una scuola? Quello che mi hanno insegnato in un semestre avrei potuto studiarmelo in un pomeriggio.

Rimasero in quella posizione per un po'. Uran poteva sentire quanto fosse calda la fronte di Atom contro la sua. Attendeva una risposta, ma Atom rimaneva zitto, con la bocca semi aperta in un cerchio confuso. Si perse allora nei suoi occhi lucidi color cioccolato, forse a cercare nello sguardo quello che non sentiva per parola.

Atom, infine, rise di nuovo a bocca chiusa. Lei non riuscì neppure a domandarsi il perché che subito lui la cinse intorno alla vita con le sue braccia e la sollevò, trascinandola via dalle lenzuola. Lei annaspò scompostamente in segno di sorpresa, poi provò a liberarsi dall'abbraccio di suo fratello, poggiando le mani sul suo petto e la sua faccia e spingendo, ma niente, non poteva opporre resistenza a chi aveva centomila cavalli motore.

–Atom, mollami subito, che ti prende?– Protestò lei, afferrandolo per le punte che aveva in testa e continuando a spingere per cercare di sgusciare via dalla sua presa, mentre divincolava la gambe animatamente, non potendo toccare il suolo. Di risposta Atom continuò a non dire nulla e procedette verso lo specchio a parete che stava dall'altra parte della stanza, ignorando le lamentele della sorella.

Giuntivi di fronte, Atom si fermò, proprio sotto la luce del primo mattino che passava dalla finestra lì accanto.

–Vuoi mettermi giù ora?– Insistette lei.

–Che cosa vedi Uran?– Chiese lui, glissando di nuovo la sua richiesta.

–Uh?– Fece lei confusa. Non capendo, si voltò verso la superficie riflettente.

Vide, specularmente, loro due; Atom che la stringeva all'altezza della pancia e la teneva sollevata appena a qualche centimetro dal suolo, con le sue gambe che ciondolavano smorte, ora che avevano smesso di scalciare. Le luci del primo sole andavano a illuminare quelle due figure, riflettendosi innaturalmente sulla loro pelle artificiale. Entrambi non avevano nulla addosso. Avevano esattamente lo stesso aspetto di quando erano stati assemblati la prima volta. Di quando erano nati insomma.

Ochanomizu si era riferito spesso ad Uran definendola la sorella gemella di Atom e ora si rendeva conto che non era assolutamente una descrizione data per caso. Per quanto progettato per rassomigliare a un ragazzo, quelle ciglia lunghe, le gambe snelle, la carnagione diafana, i fianchi magri, il viso aggraziatamente arrotondato e più di tutti il fatto di essere cristallizzato nel corpo di un bambino di dieci anni per l'eternità, appianavano non di poco le differenze fra i due.

–È una domanda trabocchetto?

–Tu sai che cosa siamo, giusto? – Proseguì imperterrito Atom.

–Siamo dei robot se è questo quello che vuoi sentirti dire, d'accordo, ma dove vuoi arrivare?

–Ora guarda fuori dalla finestra Uran.

Lei fece quanto chiesto, ma non poté fare a meno di sentirsi trattare come una scema. Erano le sette circa e fuori il sole era ancora basso, poco sopra la linea piatta del mare ancora opaco, perso in una leggera foschia tinta di pesca. Questo era lo sfondo dello skyline cittadino, che si ergeva alto e contorto come un formicaio intorno la baia e arrampicandosi sulle colline circostanti. Il traffico era ancora basso ma fra poco le apparizioni sporadiche di aereo velivoli si sarebbero trasformate in scie infinite come insetti ronzanti. La loro casa sorgeva appena fuori città, lontana da quel nugolo di trenta milioni di persone quel tanto che bastava per poter ancora calpestare erba che non appartenesse ad un parchetto comunale. Se l'espansione si fosse mantenuta costante ci sarebbero voluti almeno altri cinque anni perché anche la loro casa fosse inglobata nel suburbio cittadino e lei allora avrebbe avuto comunque l'aspetto di una bambina delle elementari.

Atom non attese alcun commento da parte sua, ma non ce ne fu bisogno perché Uran era rimasta zitta a cercare di capire cosa dovesse contemplare di così importante. Riprese dunque a parlare.

–Hai di fronte a te un mondo dominato dagli esseri umani. Qualunque cosa su cui posi gli occhi appartiene a loro. Anche noi robot eravamo di loro proprietà fino a poco tempo fa, ricordi?

Certo che se lo ricordava. Sin da quando era nata, la notte di capodanno di sei mesi fa, gli avevano fatto una testa così sulla dichiarazione dei diritti delle intelligenze artificiali senzienti e di come suo fratello avesse assunto il ruolo di paladino della comunità robotica giapponese. Lei annuì, convinta di sorbirsi un altro monologo sentenzioso e aveva ragione.

–Molti umani non hanno ancora cambiato idea in merito. Hanno paura che noi robot indipendenti, a pieni diritti, possiamo costituire un pericolo per loro. Rivoltarci, sostituirli, governarli. Bisogna dimostrare che si sbagliano. Uran, tu e io non andiamo a scuola per imparare niente, ma per abituare i futuri adulti alla nostra presenza nella società, imitare le usanze degli umani, integrarci. Capisci perché è importante questo sforzo?

Uran lo guardò bene in faccia. Era serio ma sereno, senza aggrottare le sopracciglia e aspettava un suo consenso. Uran ammirava sinceramente Atom per quello che faceva, ma di persona era insopportabile. Atom era rigido, saputello, moralista, puntiglioso, si sforzava di sorridere sempre ma prendeva tutto troppo sul serio e aveva un ego enorme, non egocentrico, ma era convinto di avere sempre ragione e di saperla più degli altri. Per un momento fu tentata di dirgli di no, ma, prevedendo che la cosa sarebbe sfociata in un discorso prolisso da parte del fratello, optò per un secco:

–Sì.

Lui le sorrise di rimando e finalmente la posò per terra. Tirò un sospiro di sollievo, era stanca di farsi portare in braccio come una bambola. Atom girò i tacchi e andò a rifarsi il letto. Uran la trovava un'abitudine strana. Certo, i robot potevano mettersi in fase stand-by per trascorrere la notte ed evitare sprechi di energia, ma non c'era assolutamente bisogno di coprirsi per loro o di coricarsi su un materasso o adagiare la testa a un cuscino. Atom poteva essere l'unico robot di tutto il mondo a perdere tempo in simili faccende e lei con lui. Non perché lo volesse, ma per puro riflesso, in quanto in larga parte era cresciuta imitandolo. Ma questa volta decise di non farlo e filò direttamente a farsi la doccia. Atom la seguì con lo sguardo, un poco stranito, ma non disse nulla e rifece anche il suo. 

***

Uran stava sotto il cono d'acqua aperta quando sentì i passi del fratello alle sue spalle. Si voltò, giusto in tempo per vederlo entrare nello stesso getto, grande abbastanza per entrambi, spugna in mano e cominciare a strofinarsi la superfice nera lucida in fibra di carbonio dei suoi capelli. Non sapeva bene perché, ma si sentì a disagio ad avercelo alle spalle. Eppure non ci aveva mai fatto caso quando condivideva la doccia con Cobalt, che ora si trovava per degli studi all’estero a Schaumburg, Illinois. Ma con lui aveva un rapporto diverso. Cobalt non era rigoroso come Atom, non era serio come Atom, non era brillante come Atom, non era coraggioso come Atom, non era circondato dalla stessa aura di perfezione di Atom. Forse era questa la differenza sostanziale fra i due. Con Cobalt aveva un rapporto molto più profondo. Sapeva di potersi confidare, scherzare, chiedere opinioni e giocare con lui. Con Atom era decisamente più difficile e le faceva strano ora condividere così tanta intimità.

–Tutto a posto, Uran?

Si disincantò, scosse un poco la testa e rispose stizzita.

­­–Sì, non è niente.

Riprese a strofinarsi. Una volta finito, lasciò Atom da solo sotto il getto e andò a sedersi davanti lo specchio ad asciugarsi con un panno. Per quanto se ne potesse prenderne cura, la pelle artificiale va inevitabilmente incontro all’usura e Ochanomizu gliela aveva sostituita appena una settimana prima e si vedeva. Tirata a lucido aveva un pallore perfettamente simile a quello umano, seppure ad un’occhiata più ravvicinata fosse possibile notare una perturbante mancanza di pori, peli, nei, vasi sanguigni in evidenza, rughe e tutti quegli altri difetti tipicamente organici. Per quanto ci si potesse avvicinare, per la scienza era ancora impossibile realizzare una perfetta copia della vita biologica. “E allora perché provarci tanto?”, si chiese Uran. Posato il panno, davanti ai suoi piedi privi di dita, si passò una mano sul petto. Trovò la leggera scanalatura che delimitava il suo pannello di manutenzione e lo aprì, con un suono distintamente meccanico, ma attutito dallo scrosciare dell’acqua lì vicino. Sollevò lo sguardo verso lo specchio. Di fronte a lei stava una bambina seduta su uno sgabello di plastica. Doveva avere circa otto anni. Aveva la pelle chiara e pulita, quasi riflettente. I capelli invece, che andavano a formargli delle piccole corna ai lati della testa, quelli erano riflettenti sul serio. Gli occhi, color cioccolato, ma più tenue, forse al latte, appena un po’ più ovali di quelli del fratello, si muovevano rapidi nell’orbita, per esaminare il suo stesso corpo. Inarcò leggermente le spalle e abbassò il mento. La sua vista cadde sul pannello aperto. Pizzicò la guancia destra fra l’indice e il pollice e la tirò, contraendo il suo volto in una smorfia buffa.

Alla fine dei conti, sotto quella pelle morbida si muoveva un endoscheletro alimentato da un reattore ad uranio liquido arricchito. Si perse a seguire i tubi di quel labirinto del circuito di raffreddamento, ascoltare il leggero sibilo della microdinamo e, regolando per bene il suo circuito uditivo, sentire lo sfrigolio del suo stesso cervello positronico in platino e iridio.

Richiuse il pannello più violentemente di quanto avrebbe voluto. Continuò a rimirare la sua copia allo specchio. Stava a gambe divaricate. Atom gli aveva detto che non doveva, che si trattava di cattiva educazione e Uran gli aveva chiesto perché. Atom rispose “perché le ragazze umane non lo fanno”. Approfondì l’argomento: a quanto pare le donne umane erano dotate di un organo situato nell’inguine, ma lei ne era completamente sprovvista. Appena saputolo, telefonò al dottor Ochanomizu per avvertirlo che c’era stato un errore e l’avevano rilasciata dal ministero delle scienze ancora incompleta. Non ricordava molto di quella telefonata, ma il tono del dottore era un miscuglio strano fra il riso e l’imbarazzo e le promise che avrebbero discusso la faccenda più tardi. Non lo fecero mai. 

Tastò la superficie del suo inguine, liscio e privo di qualsivoglia organo aggiuntivo. Perché preoccuparsi di qualcosa che non c’era? Perché sforzarsi di imitare qualcosa che non era? All’improvviso sentì una superfice ruvida premerle sulla nuca e strofinarsi su di essa. Sobbalzò e si voltò di scatto. 

–Atom!

Lui fece un salto indietro, sorpreso dalla sua reazione. Inclinò gli occhi a mezzaluna, dispiaciuto, rigirandosi l’asciugamano fra le dita. 

–Non volevo spaventarti. È solo che ti vedevo sovrappensiero– Fece un passo avanti, l’asciugamano proteso e aprì la bocca, ma Atom non completò la frase, Uran lo zittì prima.

–Grazie, molto gentile– disse a denti stretti –Ci penso da sola.

Il cranio fece un giro di centoottanta gradi sulla base del collo a guardare accigliata il fratello, mentre il corpo rimase in direzione dello specchio. Raccolse da terra il proprio panno e se lo alzò dove una volta stava il viso e ora la nuca, ancora gocciolante.

–Uran, gli umani non fanno così!– La riprese lui, che si era intanto piegato ad asciugarsi le gambe. Lei si alzò in piedi di scatto, facendo cadere lo sgabello dietro di sé con un piccolo tonfo.

Era vero, con Atom era decisamente più difficile per lei avere un rapporto come quello che aveva con Cobalt. Cobalt non stava sempre lì a giudicarla, Cobalt non le diceva sempre cosa era giusto e cosa no, Cobalt non era ossessionato dall’idea di comportarsi allo stesso modo degli umani e soprattutto Cobalt non cercava sempre di ricoprire il ruolo del fratello maggiore. Le mancava Cobalt.

Rigirò la testa con un altro giro di centottanta gradi nello stesso verso, dopodiché si diresse verso la porta. Atom, di nuovo, poté solo seguirla con lo sguardo, sempre più stranito. Lei gli passò accanto.

–Uran, aspetta!

Lei si voltò. Atom le si fece vicino.

–Sei ancora bagnata qui– le indicò lui.

Uran sbatté le ciglia un paio di volte. Poi gli strappò il panno dalle mani, si asciugò e, una volta finito, lo buttò sul pavimento con rabbia. Uscì dal bagno.

Dopotutto aveva solo sei mesi di età.

***

            Quando si parlava di robot il concetto di nudo era molto relativo. I vestiti erano qualcosa di tipicamente umano, nati per necessità di proteggersi dalla minaccia del freddo, delle intemperie, dell’ambiente e, col passare dei secoli, per decoro ed estetica. I robot erano, per la maggioranza, sprovvisti di un apparato che gli permettesse di provare dolore quando si calpesta un coccio di vetro, freddo anche durante una bufera e fastidio nel sentirsi piovere addosso. Questo, non solo perché costosamente complesso da realizzare, ma anche perché era considerato controproducente, da parte degli umani, dotare la propria forza lavoro di punti deboli che li potessero debilitare. Perché creare macchine che potessero guastarsi più facilmente? Perché creare servi che potessero lamentarsi?

Con l’avvento della Dichiarazione le cose cambiarono. Ai robot fu permesso acquistare, possedere e vendere merce, seppure ancora con certe limitazioni, e una minoranza della popolazione artificiale prese a indossare abiti regolarmente. Alcuni intendevano farlo per pura provocazione nei confronti di quegli umani ancora contrari al vederli come loro pari; altri per nascondere forme del loro corpo di cui non andavano orgogliosi, ma che non potevano modificare per essere riconoscibili per legge; altri ancora per puro gusto estetico. Infine ci stava un’ultima categoria: Quelli che non solo si vestivano, ma si comportavano in tutto e per tutto come gli esseri umani. Atom ne faceva parte.

Erano i primi giorni di Maggio e Atom aveva cominciato da poco a frequentare il primo anno della scuola media inferiore. Uran lo guardò mettersi l’uniforme. Stava agganciandosi la fila di bottoni dorati del proprio gakuran fino alla base del collo. Stava proprio bene con quello addosso. Lui si voltò verso di lei. Aveva in faccia la stessa espressione confusa che gli era rimasta dalla discussione di prima.

–Uran, non ti sei ancora vestita?

No, non lo aveva ancora fatto. Era uscita dalla doccia, si era piazzata di fronte l’armadio, l’aveva aperto e aveva guardato i suoi vestiti fino a quando non era arrivato lui. Gli era venuto un altro dubbio.

–E se andassi a scuola senza, oggi?

Atom strabuzzò gli occhi come se avesse detto chissà quale profanità.

–Non essere ridicola Uran– disse lui, sbuffando e sistemandosi il colletto –Mettiti qualcosa addosso, su.

–Altri robot non lo fanno.

–Noi non siamo come gli altri robot.

–Che cosa siamo allora?

Atom le si avvicinò, tirandosi giù la giacca per stirare le ultime pieghe.

–Non ricordi il discorso che ti ho fatto prima?

–Che cosa centra?

–Centra eccome. Noi robot facciamo paura perché siamo qualcosa di alieno per loro.

–Ma io sono nata sulla terra.

–Non… non quel tipo di alieno. Ci vedono diversi, strani, qualcosa che si avvicina a loro, ma intrinsecamente opposto. Gli umani non condivideranno mai la terra con una nuova specie che non comprendono, perché non saprebbero come inquadrarci.

–Non capisco ancora cosa centra se io voglia vestirmi o meno.

–Per gli umani è normale vestirsi Uran e se vogliamo farli sentire a loro agio dobbiamo farlo anche noi.

–Ma io non sono umana, per me non è normale e non capisco perché dovrei farlo per far star meglio gli umani.

–Uran, la nostra libertà dipende da come ci presentiamo agli umani. La Dichiarazione è passata appena due anni fa e non è altro che un pezzo di carta su cui ancora si discute. Dobbiamo andare cauti e convincerli che siamo innocui se vogliamo mantenere questi diritti– Atom diede un occhiata all’orologio. Erano già le otto. Alle otto e cinquanta cominciavano le lezioni. Imboccò la porta per scendere le scale –Sbrigati Uran, infilati qualcosa e andiamo.

–No.

Atom si fermò irrigidito sul primo gradino.

–Come?

–Scegliere cosa indossare ogni giorno mi sembra uno spreco di tempo. Sarebbe più vantaggioso se andassi in giro normalmente, visto che non cambierebbe nulla per me.

–Uran!– Sbottò Atom. I robot non avevano sangue da far affluire alla testa, ma era chiaro che si stesse innervosendo –Ma mi ascolti quando parlo? Che cosa credi penseranno gli umani quando vedranno l’imitazione di una bambina girare nuda per strada?

–Non mi importa niente di quello che pensano gli umani! Non voglio fare qualcosa solo perché la fanno anche loro. Abbiamo dei diritti e allora io ho il diritto di sentirmi a mio agio!

Atom strinse i denti. Rientrò a passi pesanti nella stanza e le si piazzò davanti con le sopracciglia frementi.

–Ma si può sapere che ti prende oggi? Prima non vuoi andare a scuola, poi quella scenata in bagno e ora questo! Non ti sei mai lamentata di doverti vestire prima d’ora, cosa c’è che non va oggi?

Uran non indietreggiò, gli si fece incontro e si alzò in punta di piedi per guardarlo negli occhi.

–Non mi sono mai lamentata perché ho sempre fatto quello che mi hai detto tu, sin da quando sono nata. Non voglio sentirmi dire cosa devo fare per tutta la vita.

Atom si ritrasse un poco, risentito.

–Ma è mio dovere da fratello maggiore…

–Ecco che ricominci– Alzò le braccia lei –Come se il fatto di avere due anni in più di me ti desse in automatico maggior ragione.

–Ma tu hai solo sei mesi– Sbottò, con nessuna intenzione di essere interrotto –E poi anche io ho tutt’ora dei mentori, da Ochanomizu al professore Higeoyaji.

–È questo il problema!– Alzò la voce lei, piantandogli l’indice nello terno tanto forte da farlo barcollare –Tu continui a parlare di quanto dobbiamo rispettare i costumi umani e umanizzare noi stessi, rinunciare alla nostra natura, perché sei stato creato e cresciuto in mezzo agli umani. Tutti i tuoi amici sono umani, dopotutto. Tu ragioni con la loro testa, nonostante abbia un corpo contrario, perché vuoi sentirti come loro, parte di loro, e hai sempre tenuto le distanze dai tuoi simili per dimostrarlo, non essere abbandonato. Tu odi essere un robot, non è vero? Tu non vuoi essere Atom, vuoi essere Tobio!

Ci fu uno schiaffo, poi il silenzio dopo il riverbero. Palmo alla guancia, non pianse, ma ci andò vicina. La guardava, passando dal risentimento, alla smorfia dubbiosa, la costernazione e infine la dissimulazione del rimpianto in uno sguardo severo. La vide indossare la propria divisa e incamminarsi per le scale, osando alzare uno sguardo una volta sola e quando avvenne lui lo distolse per non tradire l’espressione. Provò a cingerla per le spalle mentre scendevano insieme, ma non c’era calore in quell’intreccio sintetico.

   
 
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