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Autore: Puffardella    09/12/2021    4 recensioni
La vita di Davide è tutto fuorché ordinaria. Affetto fin da bambino da porfiria, che lo costringe a una vita di privazioni, ha il privilegio di svolgere una professione unica: quella del restauratore di libri.
In seguito al peggioramento del suo stato di salute, si ritira in un piccolo quanto singolare paesino del nord Italia, in cerca di un po' di serenità.
Qui fa la conoscenza di un uomo importante per la comunità, affascinante quanto misterioso, il quale gli commissiona il restauro di un antico manoscritto, una sorta di diario dei suoi avi.
Il contenuto di quel libro si rivelerà sconvolgente per Davide, e avrà il potere di cambiare per sempre le sue sorti e quelle delle persone che ama.
Genere: Dark, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
Capitoli:
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CAPITOLO 2
Mestrieri

Davide percorreva senza fretta la strada provinciale che tagliava in due la campagna della bassa reggiana, la cui terra era stata rivoltata in grosse zolle per farla riposare.
Prima di avventurarsi in quell’impresa aveva fatto delle ricerche su Mestrieri e aveva scoperto che il piccolo paese, i cui abitanti montavano a poche centinaia di unità, era circondato per tre lati da una sconfinata distesa di terra e per il restante lato dalla golena boschiva che fiancheggiava il Po.
Una piccola isola in mezzo al nulla, questo era ciò che aveva pensato quando aveva controllato la sua ubicazione attraverso la webcam, ed era ciò che continuava a pensare ora che chilometri e chilometri di campagna sfilavano dinanzi a lui senza interruzioni di sorta.
Era una bella mattina di inizio ottobre, fresca e limpida.
Un bel giorno per cominciare una nuova vita, rifletté Davide. Gli venne da pensare a Sara e si rattristì.
Il loro rapporto, che per oltre quattro anni era filato dritto senza grossi scossoni, si era irrimediabilmente incrinato. Era quello che succedeva quando la coppia aveva segreti che venivano a galla da soli, per circostanze fortuite ed impreviste. La fiducia, si sa, è il collante di ogni solida relazione. Quando viene a mancare è solo questione di tempo prima che le cose vadano inevitabilmente, irrimediabilmente a rotoli.
Era stato Davide a decidere di mettere la parola fine alla loro storia, lo aveva fatto con profondo dolore. Erano passati tre mesi da quel giorno. Sara aveva faticato e probabilmente faticava ancora ad accettarlo, però aveva smesso di fargli squillare continuamente il telefono e questa era una cosa positiva.
“Gira a sinistra e poi a destra.”
Il navigatore lo riscosse dalle sue elucubrazioni. Era talmente assorto nei suoi pensieri che nemmeno si era accorto che, ai lati della strada, avevano cominciato ad affacciarsi le prime case isolate.
Davide fece quanto gli era stato consigliato e si trovò in una lunga e stretta via, attraversata all’inizio da un binario ferroviario che, a giudicare dalle rotaie arrugginite e dalla vegetazione fitta che vi cresceva intorno, doveva essere in disuso da tempo.
Un centinaio di metri più avanti comparvero le prime case a schiera, alte e strette. La strada sbucava in un’ampia piazza chiusa da una corte rinascimentale delimitata da arcate e comprensiva di chiesa e torre civica.
“Tra dieci metri, gira a sinistra” lo guidò ancora il navigatore.
Davide seguì le istruzioni. Nello svoltare, attraversò l’arcata sormontata dalla torre e si immise in una strada lastricata, talmente stretta che l’azzurro brillante del cielo ottobrino, soffocato dalle alte mura delle vecchie case, stentava a farsi notare.
Davide fu scosso da una spiacevole sensazione. C’era qualcosa di strano in quel posto, qualcosa di decisamente inquietante.
Tanto per cominciare, da quando aveva iniziato a percorrere la provinciale, aveva incrociato a malapena un paio di macchine.
Anche le vie del centro abitato erano insolitamente deserte, nonostante fosse ancora giorno e non facesse particolarmente freddo. Nessun bambino, nessun adulto in giro. I pochi negozi presenti sulla via erano chiusi, le finestre delle case sbarrate. L’intero paese sembrava versare in uno stato d’abbandono pressoché totale.
Alla fine della strada, l’area si allargava a sinistra per dare spazio ad un’altra piazza, più piccola della precedente. Era quella la sua destinazione finale.
Davide procedette a passo d’uomo mentre cercava sulle facciate delle case il numero civico corrispondente a quello della sua nuova abitazione. Lo trovò dopo aver percorso la strada, che ad un certo punto presentava una curvatura a ferro di cavallo, quasi nella sua interezza. Si trattava di una casa a schiera molto simile alle altre, con le mura scrostate e le sbarre alle finestre inferiori.
«Beh, perlomeno si regge in piedi» ironizzò Davide, che cominciava a chiedersi in che razza di situazione si fosse cacciato.
Parcheggiò l’auto davanti alla casa e notò, non senza un certo disagio, che nei parcheggi, situati tra la piazza e le case in entrambi i lati, sostavano in tutto non più di mezza dozzina di macchine.
Sei macchine per un centinaio di case. Un’altra stranezza di cui tenere conto.
Prima di scendere indossò il berretto con la visiera e infilò i guanti di pelle. La sua auto aveva i vetri schermati e non aveva avuto bisogno di difendersi dai raggi del sole durante il viaggio, ma, sebbene ci volessero quattro o cinque falcate per raggiungere la porta, il sole splendeva alto nel cielo quel giorno e Davide ritenne opportuno adottare tutte le precauzioni nel caso in cui qualcuno, incuriosito dal suo arrivo, si fosse deciso ad andargli incontro per dargli il benvenuto. Non era così che si comportava in genere la gente di un piccolo paese di provincia?
Una precauzione eccessiva, come scoprì un istante più tardi.
Il pesante portone di legno, lucidato e all’apparenza in ottimo stato, cigolò sui perni mentre veniva aperto. L’acuto olfatto di Davide registrò un forte odore di chiuso ma, per fortuna, non di muffa.
Tornò alla sua auto, scaricò la valigia e le poche cose che si era portato dietro da Milano - compreso il quadro raffigurante il paesaggio notturno che suo padre gli aveva regalato quando, a vent’anni, era andato a vivere per conto proprio - e appoggiò tutto all’entrata.
Prima di richiudersi la porta alle spalle, si voltò un’ultima volta e si fece una panoramica della zona. In fondo alla strada, sul lato dove si trovava la sua casa, c’era la chiesa medievale che, attraverso internet, aveva scoperto chiamarsi chiesa di Sant’Elena. E, tra la chiesa e l’area destinata ai bambini, il pozzo rinascimentale.
Tutto era immerso in uno strano silenzio, suggestivo e inquietante per chi, come Davide, proveniva da una grande metropoli.
Mentre si faceva quella riflessione, qualcuno si affacciò alla finestra da una delle case di fronte, dopo aver scostato la tendina. Rimase lì per una manciata di secondi, dopodiché la tendina tornò al suo posto.
“Allora c’è vita sul pianeta Marte” pensò Davide sogghignando.

La prima cosa che Davide fece, ovviamente, fu esaminare la casa.
Il piano terra era attraversato per tutta la sua lunghezza da uno stretto corridoio nel quale, per prima, si apriva la porta del soggiorno. Davide trovò l’interruttore, accese la luce e vi si affacciò, colto da una quasi infantile trepidazione. La stanza era ampia, asciutta, e profumava di cera d’api. Addossata alla parete a fianco dell’entrata c’era una credenza bassa, in arte povera, sopra la quale faceva mostra di sé uno splendido grammofono con la tromba in ottone incredibilmente lucida. Piacevolmente sorpreso, Davide si avvicinò al giradischi d’epoca per osservarlo meglio. C’era un disco inserito, un Notturno di Chopin, l’opera 9 numero 2.
Un brivido gli corse lungo la spina dorsale e gli fece accapponare la pelle. La coincidenza era a dir poco strabiliante: sua madre amava la musica classica e quello era uno dei componimenti preferiti.
Fu aggredito da un ricordo sbiadito dal tempo eppure incredibilmente lucido, di lei in piedi dinanzi ad una tela, scalza, con indosso un leggero vestito fiorato, i lunghi capelli castani attorcigliati intorno ad una matita e le dolci note del Notturno a nutrire la sua ispirazione.
Davide sospirò commosso. Si chiese se il grammofono funzionasse. Lo avrebbe accertato più tardi, dopo aver finito di ispezionare della casa.
Appesa al muro, sopra la credenza, c’era una copia in olio, a grandezza naturale, del dipinto “La Canzone degli Angeli”, del celebre William Bouguereau, ornata di una splendida cornice barocca.
Era decisamente ben fatta, con ogni dettaglio curato alla perfezione, tanto da sembrare quasi autentico.
Davide finì di farsi una panoramica della stanza, arredata in stile rustico. Divani e poltrone erano stati disposti intorno ad un camino in sassi, che rendeva l’ambiente particolarmente intino ed accogliente.
Proseguendo per il corridoio si arrivava dapprima alle scale che portavano ai piani superiori, e poi alla cucina, anche questa arredata in stile rustico, e a un bagno di servizio. Davide si mise a curiosare dentro i mobili della cucina e scoprì che dispensa e frigorifero erano stati riforniti di generi alimentari di prima necessità: bibite, uova, burro, pasta, pomodoro e, nel freezer, perfino carne e pizze surgelate. Si disse che forse erano lì dalla morte del vecchio proprietario ma dovette ricredersi quando, dopo aver controllato le date di scadenza, vide che i prodotti non erano scaduti. Sembrava quasi che qualcuno lo stesse aspettando, che avesse preparato la casa perché fosse pienamente funzionale al suo arrivo.
Davide scosse la testa frastornato. Non sapeva cosa pensare, né se la cosa gli facesse piacere o meno. L’idea che qualcun altro, un estraneo, possedesse le chiavi della casa lo disturbava. Stabilì che avrebbe fatto cambiare la serratura del portone al più presto. Dopo aver preso quella decisione proseguì nel giro. Dalla cucina si accedeva ad un cortile, con una veranda sulla cui struttura si arrampicava una rigogliosa pianta di rosa bianca eccezionalmente fiorita. Più in là si intravedeva un piccolo giardino, il cui prato era stato falciato di fresco.
Al primo piano trovò le camere da letto. Tre di numero, arredate come il resto della casa in stile rustico e tutte e tre con i letti rifatti. In quella più grande, nella stanza padronale, sulla parete sopra il letto era appesa un’altra copia, stavolta della Sibilla Delfica del Michelangelo, anch’essa in olio ma incorniciata da una cornice meno pregiata rispetto alla prima.
Davide salì infine all’ultimo piano, dove trovò due stanze mansardate. La più piccola era adibita a studio mentre l’altra, la più grande, era una curiosa stanza dei giochi, arredata con mobili per bambini e stracolma di giocattoli di ogni tipo: bambole di porcellana e di plastica, peluche, trenini in legno, una enorme casa per le bambole e un cavalluccio a dondolo.
Davide emise un fischio di approvazione.
«Beh, mi aspettavo di peggio. Molto di peggio» si disse Davide soddisfatto. Oltre ad essere accogliente, la casa era asciutta, con un tetto e una struttura solidi. Ad una prima stima sembrava avere un valore molto più elevato di quello indicato nel testamento.
Strano, come del resto tutto ciò che riguardava l’immobile, compreso il modo in cui ne era entrato in possesso o il fatto che tutto fosse in ordine e pulito.
Quando scese di nuovo al piano terra, le ombre della sera avevano iniziato ad allungarsi e la temperatura a farsi rigida.
Dalla finestra del soggiorno entrava calda la luce dei lampioni, che illuminava parzialmente i giochi del parco il quale, per tutto il giorno, era rimasto insolitamente vuoto e silenzioso.
Non era particolarmente tardi ma il viaggio era stato piuttosto estenuante per Davide, che ora sentiva il bisogno di riposare.
Avrebbe spizzicato qualcosa, fatto una doccia e poi si sarebbe infilato a letto. Tempo di formulare quel pensiero che una nebbia sottile e fumosa aveva iniziato ad inghiottire ogni cosa: il parco giochi, la chiesa, il pozzo, gli alberi, le case, le poche macchine nei parcheggi, tutto...
Davide sorrise, ma era un sorriso amaro, malinconico.
«Ora sono davvero a casa» si ritrovò a pensare ad alta voce, pervaso da un profondo sentimento di solitudine.   


CAPITOLO 3
Il bambino

Le note del Notturno vibravano calde e dolci nell’aria.
Tilde, con indosso un leggero vestito bianco che le arrivava alle caviglie e i lunghi capelli sciolti che le ricadevano morbidi sulla schiena, osservava concentrata il dipinto al quale stava lavorando.
Teneva in una mano un pennello e nell’altra una tavolozza. Aveva negli occhi nocciola un’espressione triste, che Davide non ricordava di averle mai visto prima.
«Cosa dipingi, mamma?» le chiese avvicinandosi a lei, con la sua voce da bambino.
«La fine di ogni cosa...» fu la strana risposta.
Davide corrugò la fronte, poi lo sguardo scivolò sul pennello che lei stringeva tra le dita. Era imbrattato di un colore che di rado le aveva visto usare nelle sue opere: un rosso carminio terribilmente scuro.
Il colore del sangue.
Incuriosito, si portò di fronte al quadro per poterlo esaminare.
Sullo sfondo nero di una notte senza luna incredibilmente stellata, un essere che aveva le sembianze di un uomo vestito di sola ombra sedeva sul bordo di un pozzo.
Teneva tra le mani un cuore umano. Aveva il volto imbrattato di sangue e, tra i piccoli denti aguzzi, c’erano brandelli di carne.
Ciò che rimaneva del corpo squartato di un ragazzino era ammucchiato ai piedi dell’essere, in una posa grottesca.
Davide guardò la madre inorridito. Non aveva mai dipinto scene così raccapriccianti.
«Chi è?» le chiese.
«Non chi “è”, ma chi “potrebbe essere”...»
«Chi?»
Le dolci note del Notturno si avviavano verso il finale.
Tilde lo guardò con profondo amore e rispose: «Dovrai essere forte, piccolo mio. Promettimi che sarai forte...»


Davide balzò sul letto, col cuore che gli martellava violento nel petto.
La prima cosa di cui si rese conto fu di avere la bocca arida. Aveva sete, una sete terribile. O era fame?
La seconda cosa furono le note del Notturno di Chopin. Provenivano dal soggiorno.
C’era qualcuno in casa, realizzò raggelando di paura. Forse un ladro. O forse la stessa persona che aveva tenuto in ordine la casa, che gli aveva riempito il frigorifero e perfino preparato il letto.
Dopo un primo momento di disorientamento e di spavento, Davide si mise in piedi. Cercò in giro qualcosa da usare come arma ma non trovò nulla di utile allo scopo. Si affacciò sul pianerottolo e accese la luce.
«Ehi, c’è qualcuno? Sto chiamando la polizia!» gridò, nella speranza che questo bastasse a mettere in fuga l’intruso. Tuttavia non accadde nulla e, soprattutto, non udì nulla.
Iniziò a scendere le scale con circospezione, con lo stomaco aggrovigliato, il cuore in gola e il telefonino in mano, pronto a far partire la chiamata alle forze dell’ordine.
Il suono gracchiante del pianoforte continuava a risuonare nelle stanze della casa.
Davide si fece coraggio, piombò nel soggiorno e accese la luce, aspettandosi di trovarsi faccia a faccia con l’intruso.
Il grammofono si spense all’improvviso in quello stesso momento e la casa ripiombò nel silenzio più assoluto.
Davide si guardò intorno, sollevato ma anche confuso. Il soggiorno era come lo aveva lasciato: in ordine e vuoto. Eppure qualcuno doveva pur aver messo in funzione il grammofono e, allo stesso modo, doveva pur averlo spento.
Cercò ovunque, dietro le tende, perfino dentro la credenza, infine si arrese all’evidenza: nessuno si era intrufolato in casa sua a quell’ora della notte. Probabilmente si era immaginato tutto, si era trattato solo di una suggestione causata dal brutto sogno che aveva appena fatto.
Sì, cercò di convincere se stesso, doveva essere andata così.
Spense la luce intenzionato a tornarsene a letto, quando gli parve di udire un cigolio provenire da fuori.
Davide si affacciò alla finestra. La nebbia, che aveva iniziato a scendere la sera prima, si era fatta più densa e compatta, ma non così tanto da impedirgli di vedere che qualcuno era su una delle due altalene del parco e si dondolava pigramente.
Qualcuno dalla statura molto piccola.
«Un bambino...» alitò Davide sconcertato.
Di riflesso guardò l’ora sul suo orologio da polso: erano le tre meno un quarto. Chi diavolo faceva uscire un bambino così piccolo in piena notte, con la nebbia e il freddo?
Diede un’occhiata intorno per accertarsi che il piccolo non fosse da solo, che qualcuno lo stesse per lo meno sorvegliando, ma non gli parve di notare nessun altro oltre a lui.
Decise di controllare meglio. Si avviò all’ingresso e aprì con circospezione la porta.
Il freddo si era fatto pungente a causa dell’umidità presente nell’aria e Davide, che indossava solo una t-shirt leggera e i pantaloni del pigiama, rabbrividì.
Tornò a guardarsi intorno con più attenzione, ma di nuovo non gli parve di scorgere nessun altro oltre al bambino, che gli dava le spalle e continuava a dondolarsi pigramente.
«Ehi!» cercò di richiamare la sua attenzione bisbigliando, data l’ora tarda. Il piccolo, però, parve non udirlo, perché non si girò né smise di dondolarsi.
Davide si richiuse la porta alle spalle e mosse qualche passo verso di lui.
«Ehi, bimbo...» provò nuovamente a chiamarlo.
Il piccolo si voltò di scatto e lo fissò per un istante con occhi piccoli, che brillavano di una luce strana, quasi selvaggia.
«Sei solo?» indagò Davide preoccupato. Per tutta risposta, quello gli elargì un sorriso smagliante e poi fuggì via, in direzione della chiesa, la cui luce all’interno era stranamente accesa, come Davide poté notare dall’enorme finestrone trapezoidale sopra il portone d’accesso.
Davide inseguì il bambino, noncurante del freddo che ora gli mordeva le ossa. Avrà avuto cinque, forse sei anni, ma correva come un adulto ben allenato e Davide faticò a stragli dietro.
Arrivato alla chiesa, il bambino spinse con tutte e due le mani il portone e quello si aprì, rivelandone l’interno.
Le pareti, affrescate nei toni del giallo, rosa e azzurro, erano scrostate in diversi punti. Vi erano sei cappelle, speculari all’altare maggiore, e alle spalle dell’altare il coro.
Davide entrò nella chiesa in punta di piedi in una sorta di riverenza religiosa, nonostante decisamente non fosse un uomo di fede. I suoi passi echeggiarono tra le alte mura mentre procedeva con discrezione verso il centro della navata, cercando il piccolo tra un banco e l’altro.
Percorse in lungo e in largo tutta la navata, senza trovare anima viva. Controllò anche nel presbiterio e ovunque avesse potuto nascondersi il piccolo, più volte, senza risultati.
«Al diavolo!» esclamò ad un certo punto, stanco di quella lunga e strana notte. Afferrò il telefono con l’intento di chiamare la polizia e affidare a loro il compito di cercare il piccolo ma poi iniziò ad essere colto dai dubbi.
Esisteva davvero quel bambino? E se la sua fosse stata solo un’allucinazione? Se si fosse trattato solo di un altro dei suoi incubi terribilmente realistici che gli capitava di fare sempre più spesso negli ultimi tempi? Se si fosse trattato solo di stanchezza, o di eccessivo zelo?
Prese un profondo respiro e spense il telefono. Non avrebbe creato problemi alla polizia locale a nemmeno un giorno dal suo arrivo in quella stramba comunità, né avrebbe dato modo alla gente del posto, che non sembrava molto incline all’ospitalità, di trovare qualcosa di interessante su di lui di cui spettegolare.
Si avviò lentamente verso l’uscita, desideroso solo di rimettersi a dormire e di concludere quel poco che rimaneva di quell’assurda notte nel suo letto.
Prima di uscire, tuttavia, fece una foto all’interno della chiesa. Il giorno dopo avrebbe potuto verificare se la sua fosse stata davvero solo un’allucinazione.
Si diresse nuovamente verso casa, mentre la stanchezza cominciava a farsi sentire e il freddo a fargli battere i denti.
Arrivato davanti alla porta si girò un’ultima volta verso la chiesa.
Le luci erano spente, il portone dovutamente chiuso.
Davide emise un’esclamazione di stupore.
“Ma che accidenti succede?” pensò, confuso.

 
   
 
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