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Autore: JohnHWatsonxx    11/12/2021    1 recensioni
Raccolta di one-shots Johnlock in cui ogni capitolo è ispirato da una canzone dell'album 'Plus' di Ed Sheeran
1. The A Team -Post!Reichenbach
2. Drunk -Uni!lock
3. U.N.I. -Uni!lock
4. Grade 8 -post quarta stagione, What If?
5. Wake Me Up -Soulmate!AU
6. Small Bump -What If 3x3 pre-slash (Tw: aborto)
7. This -post quarta stagione
8. The City -Post!Reichenbach
9. Lego House -kid!lock AU
10. You Need Me, I don't Need You -Retirement!lock
11. Kiss Me -post quarta stagione
12. Give Me Love -Post!Reichenbach
Genere: Angst, Generale, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU, Raccolta, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Note: Ho visto “The Power of the dog” recentemente, quindi la divisione in atti è un’idea presa dal film. Ho deciso di farmi una scaletta prima di scrivere, perché se no sarebbe stato un macello, e forse mi ci trovo addirittura meglio di quando scrivo di getto (perché non ci ho mai pensato prima?)


 
Give me love


 

Atto I –La scintilla


La terra è arida, sotto i suoi piedi. L’estate gli porta via tutte le energie, e l’umidità lo copre come una cappa che non lo lascia respirare. Eppure ha piovuto, il giorno prima, e la terra, sotto i suoi piedi, rimane comunque arida. Tra tutte queste pietre lisce e ben curate, accompagnate da fiori freschi, una tra tutte spicca per il suo colore e la sua trascuratezza: è una lapide nera, su cui dei fili di edera si stanno arrampicando, tanto da nascondere il nome di chi dovrebbe essere lì sotto. John rimane incantato nel guardare il modo in cui la natura riesce ad adattarsi perfettamente a ogni cosa, ad ogni cambiamento. Vorrebbe riuscirci pure lui, ma la verità è che non ne è mai stato capace: quante volte avrebbe voluto lasciare l’accademia, ma per paura di deludere suo padre l’aveva portata avanti? Quante volte si era innamorato di persone, chiunque gli facesse provare le minime cose, ma aveva avuto paura di esporsi? No, John non è qualcuno capace di gestire l’inaspettato, non è qualcuno che prende gli imprevisti con filosofia.

John scappa, ecco cosa fa, ecco cosa ha fatto venti minuti fa.

Preferisce rintanarsi in un periodo in cui il suo migliore amico era morto, piuttosto che affrontarlo e chiarire quello che è appena successo. Si può essere più codardi di così? John se lo chiede, mentre si siede per terra, alzando un gran polverone. Ha caldo, il sudore gli fa appiccicare la camicia alla pelle, e quelle che sono lacrime si confondono con le gocce di sudore che gli imperlano il viso: hanno lo stesso sapore, sulla sua pelle. Il sole gli picchia sulla testa, bruciandogli la parte del collo lasciata scoperta dal colletto e provocandogli un gran mal di testa, ma a lui va bene così, è la sua punizione per non essere stato un uomo.

 Vorrebbe essere capace di non chiudere gli occhi, perché a ogni battito di ciglia rivede le immagini di quello che ha fatto.

Rivede sé stesso urlargli contro, incazzato nero, e poi si vede andargli addosso e spingerlo sulla parete delle scale. Apre gli occhi e la lapide nera lo fissa giudicandolo, sbatte le palpebre e vede gli occhi di Sherlock così vicini ai suoi, e ricorda il momento in cui ha perso il controllo e si è avventato sulle sue labbra nello stesso modo in cui lo aveva spinto sul muro. Sherlock sembra, in quei flash, una bambola di carne che subisce per non reagire, e la sola idea di averlo costretto a fare qualcosa che non voleva lo fa stare male, quando riapre gli occhi e si rivede riflesso tra le lettere dorate che compongono il suo nome sulla roccia nera. Si vede piangere come un patetico assassino che è pronto a costituirsi, con i sensi di colpa visibili sulle sue spalle, che gli incurvano la figura sul terreno. Si sente un pover’uomo, piccolo e insignificante, in ginocchio di fronte al peccato. E prega, disperato, su una tomba vuota, di essere espiato da ogni colpa. Singhiozza, sapendo che non sarà possibile.

Strizza gli occhi, sperando di cacciare via quelle immagini, ma tutto quello che vede è l’espressione di Sherlock, ancora schiacciato sul muro, e poi la sua ombra proiettata sulle scale, che lo segue mentre esce di casa correndo.

Quello che non vede è Sherlock, dietro di lui, che cerca di afferrargli il maglione ma non ci riesce, e vede John scivolargli dalle mani come acqua alla fonte. Sherlock, che non sa gestire queste cose perché nessuno glie lo ha mai insegnato, e che non ricorda come è iniziato il loro litigio ma ricorda fin troppo bene gli occhi di John nel momento in cui ha deciso di baciarlo, ricorda il modo in cui le sue pupille si sono dilatate e anche il modo in cui le iridi sembravano onde in tempesta, e le sue mani sul colletto della sua camicia, il movimento che ha fatto per avvicinarsi alla sua bocca. E, suo malgrado, ricorda anche il terrore del dopo, quando, senza dire una parola, è scappato, lasciandolo con una mano a mezz’aria e stralci di sentimenti abbandonati lì, appesi appena fuori il suo cuore.

E ora è a terra, in mezzo al salotto, senza ricordarsi come e quando ci è arrivato, circondato da bozze di componimenti e palle di carta accartocciate in momenti di disperazione. Non è abituato ad aspettare, ma dovrà fare un’eccezione, perché non riesce a farsi venire in mente un solo posto dove John potrebbe essere. Ha il violino in mano, e pizzica nervosamente la quarta corda mentre con la mano destra cerca di vomitare pensieri tradotti in musica. Ma non sa cosa pensare, e di conseguenza non sa cosa scrivere. Sa di essersi ridotto male quando si specchia nel legno lucido del suo amato violino, e si vede spezzato a metà da qualcosa che non conosce ancora bene. Si sente la vittima di un assassino che lo ha lasciato sull’orlo della morte, senza ucciderlo fino alla fine. Si passa nervosamente una mano tra i capelli e non vuole piangere. Il sole comincia a tramontare e il buio lo copre totalmente: non si vede più e non si riconosce più.

Da quando ha imparato a lasciarsi andare a una forza sconosciuta come l’amore?

Il manto stellato si stende lentamente anche sulla testa di John, che ora cammina verso il bar. Sa che bere non è la soluzione migliore, ma si è convinto di non poter gestire la situazione e di non volerlo fare. Quindi, dopo dieci minuti, è seduto su uno sgabello di legno a lasciarsi scivolare in gola il primo di innumerevoli shots di tequila, con il solo scopo di non ricordare. Ma l’alcol neanche lo aiuta, visto che anche ad occhi aperti l’unica cosa che vede sono i suoi occhi, e la sua paura, il suo terrore, il suo corpo costretto al muro, le sue labbra.

Come si fa a dimenticare cose che non si vogliono dimenticare?

John si sente dilaniato dai sensi di colpa e dal desiderio: di baciarlo di nuovo, di dirgli che lo ha amato e che, da quando è tornato, non riesce a immaginarsi senza di lui. Di dirgli che è per lui che ha lasciato Mary e non perché non stava bene con lei. E nel frattempo mischia il desiderio al bere, e si sente ubriaco d’eccitazione e rimpianto e tequila, nel più letale dei mix che John abbia mai provato.

La tequila fa il suo lavoro a metà, e John riesce a tornare a casa, non Baker Street, ma quel monolocale che aveva preso per tenere lontano Mary dal ricordo ingombrante di Sherlock. Le tenebre troneggiano sull’appartamento come veli di tulle che galleggiano in aria, e John vi si muove con maestria fino a raggiungere il divano. Si siede composto, gambe aperte nella più mascolina delle posizioni. Fruga nelle sue tasche per trovare il telefono e buttarlo sul tavolino di fronte a lui. Dopo questa sera si ritrova strappato in mille lembi di sentimenti, violentato da pensieri che non riesce ad evitare, svuotato di tutte le scuse che aveva messo su per lasciarsi alle spalle il fatto che, poco prima che calasse il sole, ha baciato il suo migliore amico nella penombra delle scale di quello che era solito essere l’appartamento che dividevano, prima della caduta, prima di tutto questo.

John non è ubriaco, ma l’alcol lo convince di essere un uomo pronto a tutto, gli dice che può chiamarlo e dirgli tutto, dirgli come si sente, chiedergli scusa. Strofina i palmi sudati sul jeans senza distogliere lo sguardo dal cellulare, sul cui schermo è appena scoccata la mezzanotte.

John non è ubriaco, ma pensa che forse, stasera, potrebbe anche chiamarlo.



 
Atto II –L’attesa


Sherlock indossa il buio come una coperta di pile, e nel mentre il pavimento si riempie di pezzi di sentimenti che non riesce a tradurre e di lacrime amare versate senza volerlo. È distrutto perché non sa cosa fare: non è un segreto il fatto che lui non sappia leggere le emozioni addosso a lui, quindi le copre, le nasconde e si vergogna di esse. Ha paura, e si chiude a riccio su sé stesso, in questa corazza di sfacciataggine e buio che lo ricoprono fino a quasi soffocarlo.

Ma adesso che John gli ha strappato tutto, e l’ha spogliato di tutte le sue protezioni, Sherlock si guarda allo specchio e si vede per quello che è sempre stato: un uomo. E da essere umano quale ha capito di essere, ha anche la possibilità di amare, quella che John ha consumato fino all’ultima tacca, fino a lasciarlo a secco di pensieri e pieno di lacrime da versare in note che non riesce a riordinare.

La disperazione lo dilania, e nel frattempo la quarta corda, pizzicata ogni secondo da quel pomeriggio, si è allentata, e si sta per rompere. Il violino soffre tra le sue mani, così come il suo padrone. Uno strumento musicale è l’estensione degli arti di un musicista, non può vivere senza l’altro, altrimenti sarebbe solo un pezzo svuotato di ogni cosa. Ma è esattamente così che Sherlock si sente: lui e il suo violino non sono diventati altro che oggetti, nelle mani tozze e callose di John Watson. E attendono che lui li suoni come un cane che aspetta di uscire fuori.

È John che ha il coltello dalla parte del manico, lui è solo l’ennesima delle vittime di un assassino.

Sussulta nel pensare a lui come a una di quelle persone a cui dà la caccia. Sherlock non ha nessuna prova di dove trovare John Watson, perché la sua mente è annebbiata da lui. Non è stato solo un bacio, una pressione di due paia di labbra di due persone. No. Qui si tratta di Sherlock che, nell’attesa, si è ritrovato innamorato da una vita. Lui, che diceva di non conoscerlo nemmeno, un sentimento come l’amore. John l’ha svegliato dal suo sonno e lo ha strappato via dal palazzo di finzione che aveva costruito per tutta la vita. Deve a lui quello che sente e deve a lui lo stesso dolore che lo fa cadere a terra, abbracciato al suo violino, mentre intorno a lui gli scarti delle sue parole d’amore giacciono tra polvere e rifiuti, lì dove meritano di stare.

Un unico rumore rompe il silenzio: è la corda che, dopo essere stata torturata, si abbandona al suo destino, e si rompe. Quel singolo suono secco permette a Sherlock di abbandonarsi a un pianto brutto: la sua faccia diventa rossa, i suoi occhi sono strizzati sotto le palpebre, il muco gli esce dal naso. Si accascia addosso al suo violino mutilato dal suo dolore ed urla. Singhiozza e grida come se gli stessero strappando una parte di lui senza anestesia. Si sente peggio di quando va in riabilitazione, e lì capisce che John è appena diventata la peggiore delle sue droghe, e la sua assenza è una cosa che non può permettersi di provare.

Piange volendolo, e pensa di non aver mai pianto così. È questo il potere che John Watson ha su di lui.

Lui, che si trova dall’altra parte di Londra, nascosto dal rimpianto e dalla paura, e che guarda il cellulare che ora segna la mezzanotte e mezza.

Mezz’ora è passata da che ha formulato il pensiero di chiamarlo. Mezz’ora che fa avanti e indietro, strappandosi quasi i capelli dalle tempie per capire se sia una buona idea. Pensa di sì, e poi si ricorda il terrore; pensa di no, ma si ricorda poi che non può vivere così per sempre, lontano da Sherlock Holmes, lontano dalla persona che lo ha salvato e condannato e salvato e così all’infinito.
Assurdo come un bacio possa distruggere una persona, pensano entrambi quasi contemporaneamente. Assurdo come si possa dare tutto questo potere di far male a una persona e farlo volontariamente.

E intanto John cammina avanti e indietro, come un pazzo innamorato che vuole solo essere amato. Come un uomo che, se avesse abbastanza coraggio da andare da lui e urlargli “Amami” direttamente sulle labbra, lo farebbe seduta stante. Ma John questa sera non si sente affatto coraggioso, quanto più un verme che striscia via per non farsi vedere.

Cammina per l’ennesima volta davanti al cellulare, e nota che sono passati altri cinque minuti. Lo innervosisce, questo passare del tempo. Non gli dà il tempo di pensare, di decidere cosa fare. Dovrebbe stare fermo, tutto il mondo, in attesa di una sua azione. E invece il mondo là fuori continua a muoversi, e corre via senza di lui, mentre lui cerca di capire se chiamarlo o meno da trentacinque minuti. Pensa che non è giusto, pensa di aver bisogno di più tempo, ma si accorge di non averne più.

John non è ubriaco, e non è brillo da un po’, e la sua testa è tornata ad essere piena di cose che non vorrebbe rivivere. È consapevole che è lui a dover fare qualcosa ma ha paura della reazione di Sherlock. Quello non è stato solo un bacio: ha avuto la conferma di essere innamorato di lui, mentre lo baciava, e la certezza, dopo, che lui non lo avrebbe mai fatto. Ma quanto poteva andare avanti quella situazione? Era dal tramonto che si stava distruggendo nel cercare una soluzione. Cosa stava facendo Sherlock, invece, non lo sapeva, però era sicuro di una cosa: di certo non stava dormendo.

A mezzanotte e quaranta John non è ubriaco, né brillo, e pensa che stasera, cascasse il mondo, deve chiamarlo.

Non ha mai sentito il suo cuore battere così velocemente. Mai, né in guerra, né di fronte a Mary, quella sera in cui aveva avuto intenzione di sposarla. John ha preso il telefono in mano, e sullo schermo ora lampeggia il nome di Sherlock. Lo vuole chiamare, lo sa, deve solo racimolare quel poco di coraggio che ancora non lo ha abbandonato. Finalmente si siede, dopo aver macinato chilometri nel camminare avanti e indietro. È buio, ancor più di prima, quando chiama Sherlock e si porta il cellulare all’orecchio. Deve solo aspettare.

Tum.

Il primo squillo del suo telefono lo fa sobbalzare. È ancora a terra, con il suo violino martoriato tra le braccia, e il suo cellulare è sul tavolo della cucina, vicino al microscopio. Lo riconosce in mezzo alle cianfrusaglie dalla luce che emana. Il suo cervello è spento e non riesce a capire chi lo stia chiamando all’una meno un quarto di una notte d’estate. Spera sia John, ma cerca di non darsi false speranze. Deve solo alzarsi, per scoprire chi è.

Tum.

John si agita sul divano, quando parte il secondo squillo. E se avesse deciso proprio quella sera per andare a dormire presto? Se, peggio, avesse deciso di ignorare la chiamata? Non sa cosa fare, in questi casi, il povero John. Nelle questioni d’amore lui si innamorava solo di chi era innamorato di lui, per non farsi male, per mantenere il suo cuore intatto. Avrebbe dovuto fare la stessa cosa adesso, ma il suo stupido inconscio non ha retto a quegli occhi, non ha retto a Sherlock Holmes, che anche quando non c’è ha il controllo totale su di lui. Anche in quei due anni, tutto ciò che ha fatto, lo ha fatto solo ed esclusivamente per lui. Il mondo di John gira attorno a quello di Sherlock.

Tum.

E il mondo di Sherlock ruota attorno a quello di John, quando vede il suo nome sul telefono. Ecco, l’attesa è finita.



 
Atto III –Il confronto


Quando risponde, non sente niente dall’altra parte, e ha paura che non ci sia davvero nessuno. Però John c’è, e ascolta il respiro di Sherlock come se questo lo stesse riportando in vita.
“Sherlock”, riesce a dire, nascondendo con la mano la bocca e il telefono, nascondendo quel nome dal resto del mondo. Sherlock è il suo segreto, Sherlock è il suo mondo, e non vuole condividerlo con nessuno.

“John” risponde lui allo stesso modo. E ora che ci sono entrambi dentro, nessuno sa più cosa dire.

Il silenzio è un macigno difficile da spostare. Entrambi ascoltano ma nessuno parla, e nessuno dei due sa che l’altro sta piangendo, nessuno dei due sa che l’altro è innamorato, ed entrambi vivono nell’attesa che l’altro lo liberi della propria cecità.

“Mi dispiace” è John a fare il primo, incerto, passo, e gli sembra di aver camminato sul vuoto e di star cadendo all’infinito dopo che quelle due parole sono uscite dalla sua bocca. Gli dispiace davvero, di averlo baciato, di star provando sentimenti che sa non essere ricambiati. Ma allo stesso tempo sorride se ripensa a quel momento, il più bello della sua esistenza.

“Mi dispiace” lo dice anche Sherlock, che non sa per cosa John si stia scusando: per averlo baciato, certo, è di quello che si parla, ma è perché John non prova davvero queste cose, John è nel suo appartamento dall’altra parte di Londra e domani potrà andare avanti con la sua vita. Sherlock no, sarà costretto a rivivere per sempre l’unico momento felice della sua vita nella sua mente, perché John è scappato, ed è scappato perché, logicamente, non lo ama.

“È…Sono io, ad averti messo in questa situazione. Non dovevo”

“Capisco, John”

“No, no. Non capisci. Come potrò andare avanti, adesso?”

“Possiamo chiuderla qui, se vuoi. Lo capisco, te lo giuro, lo capisco”

“Chiudere cosa?”

“Tutto” pronuncia Sherlock, e questa singola parola li devasta. Chiudere tutto vuol dire buttare anni di ricordi in un cestino, abbandonare non solo ciò che c’è stato, ma anche quello che potrebbe essere. Vuol dire cadere da un palazzo e impattare contro il marciapiede. Tutto è una parola troppo drastica. Tutto non è quello che vuole John.

“No” sussurra allora, e lo fa almeno altre sei o sette volte, come una preghiera per espiare i propri peccati, un mantra per epurarsi.
“Non posso perderti” dice “Ma non posso vivere così”

Sherlock non capisce “Così come?”

Come può, John, dire a parole tutto quello che sente? Come può buttare l’àncora senza poterla ripescare? Se lo dice, adesso, una volta per tutte, sarà tutto diverso.

“Così, con la certezza che non vuoi quello che voglio io” dice allora, senza chiamarlo per quello che è.

“Tu… tu cosa vuoi?” chiede allora Sherlock. Potrebbe aver sbagliato, lui, a decifrare John? O è John ad essere il più grande enigma per lui?

“Io voglio tutto” risponde John. Poi segue un breve silenzio. “Voglio tutto –prese un respiro profondo per coprire il rumore delle sue lacrime- di te. Voglio te”

Sherlock si sentì svuotato di tutta l’aria, come se avessero messo l’appartamento sottovuoto. John lo vuole, John vuole tutto, vuole le stesse cose che vuole lui. Allora perché è scappato? Perché l’ha lasciato solo a combattere con l’angoscia? Perché non ne hanno parlato lì, sulle scale, ma lo stanno facendo adesso per telefono?

Sherlock non risponde, e non lo fa per secondi interi, che non fanno altro che confermare i dubbi di John.

“Ma tu non vuoi me” esala allora, al limite dei singhiozzi. “Quindi come posso fare, a vivere volendoti e sapendo che non posso? Come?” un singhiozzo disperato lo interrompe “Come?” ripete, all’infinito, fino a rimanere senza fiato, ma continuando a muovere le labbra.

Sherlock percepisce la disperazione attraverso il telefono, e piange anche lui, silenziosamente. La domanda di qualche momento fa gli si affaccia alla mente: come si può dare tanto potere di distruggere volontariamente? È questa la parte più terrificante dell’amare, che non si è mai da soli.

E John è dall’altra parte della linea, e pensa che lui non lo voglia, e piange. Quanto è disperato essere così innamorati? Quanto è pericoloso l’amore?

“John” dice, cercando di non far tremare la propria voce. “John” ripete con più fermezza.
“Torna, ti prego. Lo voglio anche io, quello che vuoi tu. Lo voglio anche io. Torna a casa, lo voglio anche io”

L’ultima cosa che Sherlock sente è il sospiro sorpreso di John, prima che questo decide di chiudere la chiamata senza aggiungere niente.

John è euforico e si dà un pizzicotto forte per ricordarsi che non è un sogno. Dimentica tutto il resto, il telefono, le chiavi di casa e quelle di quel terribile monolocale, ed esce. Corre, mentre la luna lo segue e le poche persone che incrocia si scansano al suo passaggio e lo guardano curiosi.

Corre, John Watson, mentre il tempo lo insegue. Non può perdere altri minuti preziosi, quindi corre, lo fa per tutta Londra perché non vuole neanche aspettare la metro. Corre, perché a casa lo aspetta Sherlock Holmes, che vuole le stesse cose che vuole lui.



 
Atto IV –La fiamma


Baker Street è vuota e silenziosa appena svolta l’angolo. C’è solo un barbone dall’altra parte della strada, che lo guarda, ma a John non importa. Corre e si ferma solo non appena è arrivato di fronte al 221b, quella che è stata sempre casa.

È fermo. L’indice della mano destra è teso verso il campanello ma ancora non lo preme: non appena accadrà, cambierà tutto. John sembra immobile come tutto intorno a lui, un ultimo dubbio ad attanagliargli la mente. Come sarà, stare con Sherlock Holmes? È la prima volta che ama apertamente un uomo; c’era stato Sholto, che aveva ammirato tra le fila del suo plotone d’attacco, qualche ragazzo che lo aveva eccitato all’università, ma mai aveva amato un uomo come ama ora Sherlock Holmes. Ed è straordinario e terrificante allo stesso tempo; ti uccide e di resuscita a ogni battito cardiaco.

È pronto, ma così lo è Sherlock, che gli apre la porta giusto mentre sta per suonare il campanello.

Sono passate ore ma sembrano anni che non si vedono. Sherlock ha pianto, John anche. Si studiano e cercano di capire cosa sia successo. Si sono baciati e si sono chiusi in loro stessi, poi si sono venuti incontro.

Sherlock apre la bocca per parlare, ma John non vuole che parli e lo bacia lì, sullo stipite della porta, a pochi passi da dove l’ha baciato quel pomeriggio. Lo bacia e si stringe a lui nonostante sia sudato e abbia caldo, e lui risponde tirandolo quasi in braccio per averlo più vicino. La loro differenza d’altezza non è considerevole, ma Sherlock è in casa e John è un gradino sotto di lui, fuori nella loro Londra. Sono due mondi che si uniscono, due stelle che si incontrano e cominciano a ruotare l’una intorno all’altra.

È energia pura, quella che sprigionano. È un fuoco che li incendia.

“Ti amo” confessa John, baciandolo ancora senza dargli la possibilità di rispondere. Sherlock a quel punto lo tira dentro e chiude la porta alle loro spalle. Ora è John ad essere schiacciato contro il muro, e non gli dispiace affatto che sia Sherlock a prendere il controllo: vuole abbandonarsi a lui, aggrapparsi alla sua vestaglia come un parassita, viverlo e adorarlo per sempre, perché sente che il suo posto è con lui. Solo, ed esclusivamente con lui.

Sherlock si stacca e non parla, ma lo prende per mano e lo guida di sopra come se John fosse un nuovo inquilino: lo è, perché non c’è il suo coinquilino e amico lì, ma l’uomo di cui è innamorato; un uomo che non ha paura a fermarlo, lì dove lo ha baciato il pomeriggio, e a ripetere l’esperienza. L’ultimo gradino della seconda rampa di scale è appena diventato il suo posto preferito.
Si sorridono quando passano per la cucina e ignorano il casino, il cellulare abbandonato sul tavolo che proietta ancora il fantasma della sua ultima chiamata. Ignorano tutto, anche il mondo al di fuori dello spazio tra di loro, e arrivano in camera di Sherlock, dove John è stato talmente poche volte che deve guardarsi intorno per capire dove andare. Continua a farsi guidare, fino al letto, fino a che non prende lui il comando e gli si mette sulle gambe, da cui riesce a baciarlo dall’alto.

È un altro luogo, un altro habitat, che Sherlock conosce solo dai video che ha visto su internet. Chiude gli occhi e si lascia trasportare da quello che John gli fa provare. John, che gli sbottona la camicia lentamente, tanto da ucciderlo d’attesa. Gli soffia sull’addome e lo fa rabbrividire, quando si avvicina a ogni punto del petto per baciarlo, per scendere sempre più giù.

Fa caldo eppure entrambi rabbrividiscono quando i loro occhi si trovano nel buio della camera di Sherlock.

Sente di potergli rispondere, adesso che John ha ottenuto il primato di essere stato l’unico a cui Sherlock si è permesso di farsi vedere così debole e trasandato, quasi nudo sul suo letto. Sente di riuscire a comprendere il più misterioso e stupendo dei sentimenti.

“Ti amo” sussurra quindi all’orecchio di John, mentre questo è impegnato a baciargli il collo.

Ecco, perché le persone sono così masochiste da cedere sé stessi agli altri: può fare malissimo, può distruggerti per sempre, ma se non lo fa, se anche l’altra persona prova quello che provi tu, è come volare. È chiudere gli occhi e abbandonarsi, lasciarsi amare, che ti riempie il cuore tanto da poter vivere solo dei ricordi di questo amore. È non averne mai abbastanza, chiedere sempre di più con la certezza che ti verrà dato. È tutto, e niente. È il più intrigante dei casi, il più intelligente dei serial killer.

È fare l’amore con John Watson nel letto che nessuno ha mai usato in quel modo con lui. È scoprire sensazioni al limite della comprensione umana. È l’unico caso che non lo stancherà mai. È, semplicemente, John Watson che lo ama, e lo guarda in quel modo come solo lui sa fare, e rendersi conto che è lo stesso sguardo che aveva quando si sono incontrati.

John è dolce, è attento e gentile. John lo guarda negli occhi e a ogni sguardo si innamora; John lo bacia, e a ogni bacio sprofonda. Non si è mai sentito così, non ha mai incontrato qualcuno capace di entrargli dentro come fa Sherlock con un solo bacio. È travolgente, una marea inaspettata di emozioni che lo affogano e non gli permettono di respirare. Scopre con lui di non aver mai conosciuto davvero l’amore, di aver sempre vissuto un sentimento monco, che manca del pezzo più importante.

Fare l’amore con Sherlock Holmes è totalmente di verso da quello che ha sperimentato in passato, perché è con lui che lo sta facendo. Come è possibile che una cosa del genere possa essere totalmente diversa da un momento all’altro? John non riesce a formulare un pensiero, non riesce a mettere insieme due parole; può solo stare in silenzio, accarezzare i suoi capelli, baciargli ogni parte del volto mentre sono una cosa sola.

È negli spazi tra di loro che si consuma e viene ricostruito l’amore, che si racchiude l’intero universo. È il loro guardarsi negli occhi che crea il tutto: ne sono circondati, ne sono pieni, è un incendio che li brucia.

Non servono le parole quando, la mattina dopo, si svegliano e le loro mani si intrecciano perché hanno trovato il loro posto. Non servono parole per convincerli a rimanere a letto tutta la mattina.
Non servono parole a John, che dopo essere stato a lavoro tornerà a casa con le poche cose che aveva al monolocale, pronto a metterle accanto a quelle di Sherlock.

Da oggi in poi servirà una stanza sola.  



































 
 
 
 
The Parting Glass*
 

La luce dell’alba sveglia John, che si ritrova ancorato alla schiena di Sherlock. Prima di aprire gli occhi ha pensato fosse stato tutto un sogno, ciò che è accaduto questa notte, ma non appena vede il volto rilassato di Sherlock di fronte a lui capisce che non lo è.

È tutto reale, anche le parole, soprattutto le parole. Quei “ti amo”, pronunciati nel pieno della passione che non smettono di vorticargli nella testa. Si amano, si amano davvero.

Anche Sherlock è sveglio, e apre gli occhi poco dopo di lui. Non appena lo vede pensa che non vuole più dormire se al suo risveglio non c’è John Watson che lo guarda come solo lui fa. È naturale per loro, adesso, prendersi per mano. Non fanno che guardarsi e sorridersi, come due idioti innamorati.

“Perché sei scappato?” chiede Sherlock all’improvviso, avvicinandosi un po’ di più.

John soppesa bene le parole, le sceglie con cura, prima di rispondere.
“Dopo che ti ho baciato, ho avuto l’impressione di averti spaventato” poi aggiunge “e ho avuto paura di perderti per sempre”

Sherlock gli sorride, e si avvicina per baciarlo. “Non penso di potermi allontanare da te per un periodo più lungo di due anni” dice poi, guadagnandosi una spallata da parte di John.

“Adesso… come devo presentarti?” chiede ancora Sherlock.

“Ragazzo, fidanzato, amante. Di certo non amico” risponde l’altro sereno. Cala un silenzio rilassante, spezzato solo dal fruscio delle loro mani che si muovono tra le lenzuola e i loro sospiri d’amore.

“Immagino la felicità della signora Hudson quando lo verrà a sapere” riflette John, ridacchiando.
Sherlock lo guarda, e si innamora un po’ di più. Gli si spalma addosso e, a un centimetro dal suo volto risponde:

“Oh, dopo stanotte penso lo sappia già”


 
 
 
*The Parting Glass è una ghost track dell’album, che è inserita nella traccia di Give Me Love. Mi sembrava carino rispettare la struttura dell’album anche da questo punto di vista.

NdA: Ci siamo! Sono finalmente riuscita finire questa storia. Sono contenta ma triste allo stesso tempo: la volontà di scrivere su Ed Sheeran è stata l’unica cosa che mi ha fatto continuare a scrivere ultimamente, ma sono felice di potere mettere un punto a questo esperimento, che spero sia piaciuto anche a voi!
Grazie mille a tutti coloro che hanno letto la storia e a chi ha recensito e, spero, in futuro, recensirà!
-A
   
 
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