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Autore: Persej Combe    13/12/2021    2 recensioni
La prima volta in cui Aurea aveva trovato il coraggio di rivolgerle la parola, Zania era seduta accanto al finestrino con il manuale sulle ginocchia. I suoi capelli ricadevano pesanti sopra le pagine del libro nascondendole in parte il viso – l’aveva riconosciuta appena dal grazioso fermaglio a forma di fiore che teneva fissato sulla frangia. Si era fatta strada sgomitando tra la folla, e:
«Stai andando a lezione anche tu?» aveva chiesto.
Zania aveva sollevato la testa, l’aveva guardata con questi due begl’occhi azzurri e assonnati. Poi le sue guance avevano preso a tingersi lievemente di porpora, e quell’espressione d’imbarazzo si era fatta così adorabile che Aurea avrebbe giurato di star arrossendo lei stessa.

Prima classificata nel contest Teenage Years indetto da Asmodeus sul Forum di Efp.
Genere: Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Yaoi, Yuri | Personaggi: Altri, Professoressa Aralia, Zania
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate | Contesto: Videogioco
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A u r e a



 

Se gli chiedevano che cosa mai pensasse di diventare, dava informazioni variabili, in quanto usava dire (e l’aveva anche già scritto) di avere in sé le possibilità per mille forme d’esistenza, segretamente consapevole che in fondo fossero tutte impossibilità...
Thomas Mann, TONIO KRÖGER

 
 
 

 

   Fine settembre. Aurea aveva appena messo piede nel campus e un mulinello di pensieri la scompigliava dentro mentre esitava, con le scarpe intirizzite nel prato, di fronte alla visione di quegli edifici immensi e delle strade, degli studenti per terra coi libri, gli zaini e quant’altro. Si riempiva le orecchie delle loro voci disorientata da una pluralità di stimoli discordanti, sopraffatta da una gioia mista a una paralisi che le impediva di compiere anche solo un altro passo.
   Un ragazzo le si era avvicinato, con una bandiera colorata di rosa, di viola e di azzurro tenuta come un mantello sulle spalle. Le aveva stretto calorosamente la mano e si era presentato, ma Aurea aveva già scordato il suo nome, troppo intenta a riafferrare le indicazioni utili che le aveva dato. Vedendola tutta crucciata, egli la guardò raggiante e l’ammonì:
   «Sorridi! Oggi è festa!».
   Poi era tornato a correre con la sua bandiera colorata di rosa, di viola e di azzurro, verso quegli altri che cantavano e ballavano e facevano il girotondo. Tipi strani, in questa università.
   Il fatto era che Aurea, quella mattina, a sorridere non ci riusciva proprio. La notte non aveva dormito, scossa da un certo formicolio entusiastico, impaziente che il giorno finalmente arrivasse. Ma presi i bagagli e richiusa casa aveva cominciato a provare una nausea, e ancora in metropolitana aveva sentito il bisogno di sedersi, raggomitolata sul sedile, che le gambe non la reggevano in piedi. Era rimasta a fissarsi le punte ammaccate delle sneakers – una volta – bianche. Le aveva scelte apposta senza nemmeno intenzionalmente pulirle; che avrebbero dovuto sorreggerla quando si sarebbe ritrovata davanti a lui, a loro, ad affrontarli – a imbrattargli i pavimenti – e temeva, proprio il giorno che aveva aspettato tanto, di non potercela fare, neppure ancorata a quelle vecchie compagne di corse per i campi e l’erba alta, alla ricerca di libertà. Le pareva che per quanto fuggisse in realtà non potesse scappare.
   Sotto il portone l’aspettava suo padre. Le stava davanti con la sua presenza ingombrante come aveva sempre fatto, un passo oltre, un gradino più in alto, e quel cognome che le pendeva sulla testa che era anche il suo, scintillante sulla targa dello studio, Aralia.
   «Questa è mia figlia, Aurea», l’aveva presentata ai colleghi.
   Ne avevano parlato a lungo per settimane e di nuovo la sera prima al telefono. Aurea ancora adesso si chiedeva, covando una rabbia profonda e mostrando mansuetamente al tempo stesso il suo Minccino diplomato con lei alla Scuola Allenatori, che bisogno mai ci fosse di essere presentata. Si faceva esibire in silenzio di fronte a loro, che allungavano le mani e gli occhi, e certi le labbra in maniera viscida. Si lasciava scivolare tutto addosso, aggrappata a Minccino e alla sua pelliccia piena di grasso, sorrideva compiacente. Suo padre la cingeva per le spalle con una fermezza insolita, trattenendosela vicino.
   Dopodiché erano rimasti soli. Un silenzio pesante si era frapposto tra loro a sospendere ogni contatto e per lunghi minuti si erano fissati a fatica, senza rivolgersi cenno. Poi suo padre le aveva preso i bagagli, l’aveva spronata ad andare a lezione, che al resto avrebbe pensato lui. Aurea non avrebbe voluto lasciargli le sue cose, ma guardandolo negli occhi vi aveva visto una scintilla stanca e lieta insieme; senza riuscire a processarne il significato aveva acconsentito con timidezza, poi a testa bassa era partita.
   Era entrata in aula, si era seduta. La lezione l'aiutò a distrarsi. Talmente coinvolta ad ascoltare quelle cose nuove che finalmente le si dischiudevano all’intelletto aveva perso cognizione di dove fosse, dell'angoscia tremenda che l'aveva oppressa poco prima.
   Fin da subito Aurea cominciò a buttarsi a capofitto nello studio, a soffocare l'inadeguatezza tra le pagine e i fogli. Ci si era avvolta dentro, suo mantello, una coltre di salvezza.
 

 
   Così era trascorsa la prima settimana. Smossa dall'entusiasmo per le nuove materie, Aurea aveva posto una cura tutta particolare e affettuosa nel procurarsi i quaderni, nello scegliere le penne. Si sedeva al banco con l'astuccio a portata di mano e non appena iniziava la spiegazione gli appunti fluivano ininterrottamente finché un crampo alle dita non la costringeva ad arrestarsi. I pomeriggi, allo stesso modo, erano occupati dagli schemi, dai riassunti e dagli evidenziatori. L'eccitazione dei primi giorni ben presto però aveva lasciato il posto a una tristezza indefinita, e Aurea aveva dovuto realizzare che non avrebbe potuto appigliarsi oltre a quell'emozione del primo periodo, perché più passava il tempo più si rendeva inconsistente, inafferrabile. Quindi aveva iniziato a guardarsi intorno, a vedere che già certi gruppi si erano formati. E lei, senza accorgersene, era rimasta in disparte.
   La sera in cui l’aveva accompagnata all’appartamento, suo padre aveva riprovato a farsi avanti: «Proprio non ti va?» le aveva chiesto, «Guarda che è tutto attrezzato. Sono certo che nel dormitorio del campus ti troveresti bene, potresti farti degli amici».
   Ma Aurea gli si era opposta, aveva preso le borse e gli aveva chiuso la porta in faccia.
   Una mattina, Aurea di nuovo era entrata in aula e si era seduta. Ora però piuttosto che fissare in attesa trepidante la lavagna si rivolgeva a quegli altri seduti intorno. Il sedile accanto al suo rimaneva vuoto, lo scrutava col batticuore che cresceva aspettando che si riempisse, e non si riempiva, chiunque passasse lo lisciava, oppure vi poggiava le borse sopra per poi recuperarle e spostarle; finché al suo fianco prese posto una ragazza – una ragazza graziosa. Aurea sentiva di essere scortese, ma non riusciva a distoglierle gli occhi di dosso. In qualche modo, e non sapeva se fosse per questa disperazione che la rinnovata solitudine le gettava dentro, le pareva di percepire la sua presenza gentile e calda. Aveva un buon profumo, di fiori e altre cose dolci. Un Munna gravitava sulla sua testa sonnecchiando. Prese a spiarla, piegata sul quaderno che si addormentava anche lei come il suo Pokémon, rintronata dalla spiegazione.
   Non sapeva come esprimersi, in che modo esporsi senza perdere subito il contatto. Gli occhi le cadevano sulle sue scarpe, raffinate, pulite, che le sfioravano casualmente le sneakers sporche e ammaccate.
   Questo è ciò che mio padre vorrebbe che io fossi, si materializzò perentorio nei suoi pensieri.
   Un'invidia, una paura. Troppo confusa, Aurea non la svegliò neppure, né le venne d’istinto di salutarla, e appena finita la lezione scappò via.
 

 
   C’era una memoria, in particolare, che spesso tornava a galla tra i ricordi quando si trovava in conflitto con sé stessa. In quei momenti, Aurea percepiva il proprio corpo appesantirsi, e nelle orecchie riecheggiavano come un mormorio distante i discorsi di suo padre in sottofondo al fruscio delle pale eoliche fuori dalla loro casa a Soffiolieve. Li ascoltava inerte sul divano, fissando le piante alla finestra e pensando di volerne strappare le foglie una ad una e spezzettarle ancora più piccole, sminuzzarle, sbrindellarle, sbudellarle; e ancora bruciarle, carbonizzarle nel fuoco con la furia di un Lanciafiamme. Ma restavano tutte fantasie, e non appena Minccino si acquattava minacciando di rosicchiarle Aurea si tirava di colpo in piedi e lo scacciava – che dopotutto a legarla a suo padre non aveva nient’altro.
   Un giorno era venuto, con una busta di semi nella mano, e li avevano piantati insieme dopo aver preparato il vaso con la terra, e mentre lui le spiegava della vita che cresce ad Aurea avevano brillato gli occhi, una scintilla incandescente in fondo al cuore: per quanto lo detestasse, il primo spunto a diventare professoressa le era venuto proprio da suo padre.
   Aurea era cresciuta senza madre e da madre aveva dovuto farsi da sola. La sopravvivenza in appartamento non era stata che la prova ulteriore di un precoce adattamento a una vita autonoma. Aveva già imparato a prepararsi cene e pranzi da sola, abituata agli orari di lavoro proibitivi del padre, a caricare una lavatrice, a dosarsi nelle spese, e tutti i suoi impegni si susseguivano in una tabella di marcia rigorosa in cui lo studio aveva la priorità. Non c’era tempo materiale per distrarsi, eppure il malumore che aveva sentito crescere all’inizio dei corsi aumentava indisturbato senza darle pace un istante. Aurea si era rimboccata ancor di più le maniche opponendo un muro di silenzio a suo padre ogni qualvolta lo incontrasse, rifiutando qualunque richiesta di tregua e giungendo anche a sopportare i morsi logoranti della solitudine. Finché un giorno svegliandosi e guardandosi allo specchio comprese, con una lucidità mai avuta prima di allora, che anche così, vivendo nell’appartamento che lui le aveva trovato e che lui le aveva preso in affitto, sarebbe sempre stata sotto il suo controllo, sotto la sua egida opprimente. Quindi riprese i bagagli e si arrese, gettò tutto nel vagone della metro con un sentimento sconsolato intanto che le porte si richiudevano dietro di lei. Si accorse, tuttavia, in quello stesso istante, di non essere sola.
   La prima volta in cui Aurea aveva trovato il coraggio di rivolgerle la parola, Zania era seduta accanto al finestrino con il manuale sulle ginocchia. I suoi capelli ricadevano pesanti sopra le pagine del libro nascondendole in parte il viso – l’aveva riconosciuta appena dal grazioso fermaglio a forma di fiore che teneva fissato sulla frangia. Si era fatta strada sgomitando tra la folla, e:
   «Stai andando a lezione anche tu?» aveva chiesto.
   Zania aveva sollevato la testa, l’aveva guardata con questi due begl’occhi azzurri e assonnati. Poi le sue guance avevano preso a tingersi lievemente di porpora, e quell’espressione d’imbarazzo si era fatta così adorabile che Aurea avrebbe giurato di star arrossendo lei stessa.
 

 
   Una ragazza riservata e molto gentile. Con lei si poteva parlare più o meno di tutto. Ma sopra ogni altra cosa, Zania le era sembrata un’anima affine.
   Sempre circondata dai ragazzi, preda sotto i loro sguardi così come era stata lei durante gli anni della prima adolescenza, Zania pareva destare un’attrazione irresistibile, e forse proprio questa sua discrezione era ciò che la rendeva affascinante in un modo unico e inaspettato. Spesso si ritrovava accolta nelle grazie di certi uomini, a volte notava Aurea con un vago allarmismo – ma non sapeva se fosse anche questa un’invidia –, non soltanto matricole.
   «Certo che devi essere piena di spasimanti, con tutti quelli là che ti vengono dietro», l’aveva punzecchiata una volta.
   «Non m’interessano», aveva detto candidamente lei, ma Aurea lì per lì non aveva capito, o forse aveva fatto finta di non capire, perché scavando più a fondo si era sentita in imbarazzo.
   Nonostante questa vicinanza in procinto di sbocciare, in effetti, Zania per quanto riguardava sé stessa non si confidava, o lo faceva a malapena lasciando le proprie parole sospese in un alone d’incertezza. Aurea passava il tempo a domandarsi perché non le si aprisse come avrebbe voluto, desiderando appurare l’affinità che le aveva fatte incontrare. A volte si scopriva a osservarla in biblioteca seduta accanto a un’altra ragazza e a provarne gelosia senza saperne il motivo, si rodeva smaniosamente finché non arrivava qualcuno a scuoterla per la spalla, con la bandiera che faceva capolino dallo zaino.
   Augustine aveva la sua stessa età, si era trasferito da Kalos un mese prima del suo arrivo in università e aveva già avuto modo di far parlare di sé. Aveva preso per qualche tempo a ronzarle attorno, sfoggiando il proprio accento esotico con malcelata veemenza e certe galanterie per attirare la sua attenzione e ingraziarsela. Ma Aurea, piuttosto che dargliela vinta, si divertiva ad assecondarlo e mandarlo in bianco all’ultimo.
   Si era venuto a creare tra loro un rapporto giocoso. Aurea aveva trovato in Augustine un compagno all’altezza della propria ironia, così che avevano iniziato a studiare insieme e a passare i pomeriggi a ripetersi a vicenda le mappe, ad aiutarsi con le schede, le relazioni. Che in altro modo non avrebbe potuto funzionare, ma in un’amicizia avrebbero potuto avere molto da darsi.
   Nei giorni in cui faceva bel tempo avevano preso l’abitudine di sistemarsi sul prato all’aria aperta. Durante una pausa, una volta Aurea aveva lasciato Minccino libero di scorrazzare accanto a loro e aveva chiesto ad Augustine quale fosse il suo Pokémon, che ancora non l’aveva mai visto. Allora lui aveva raccolto la Poké Ball dalla tasca e con un sorriso le aveva mostrato il proprio.
   Aurea non poté contenere lo stupore.
   «Un Bulbasaur! Ma è ancora...».
   «Già. Ho provato in tutti i modi, ma non vuole saperne di evolversi. Avrà bisogno del suo tempo».
   Lo accarezzava tra le orecchie squamose con un’affettuosità tale, come fosse giunto a questa consapevolezza dell’attesa già da molto, e che la cosa non gli pesasse affatto. Aurea al contrario non vedeva l’ora di poter mettere mano a una Pietrabrillo, di ridefinire in maniera permanente Minccino in un Cinccino. L’accettazione dell’incompiutezza, del divenire in senso assoluto che le poneva adesso di fronte Augustine come possibilità concreta, era qualcosa su cui non si era mai soffermata a pensare – un’opzione inconcepibile.
   Notando la sua esitazione, Augustine le chiese se avesse qualche aspirazione per il futuro.
   «Io voglio diventare Professoressa Pokémon».
   «Però! È un obiettivo molto nobile, Aurea. Mi raccomando, devi essere forte».
   «E tu?».
   «Non ne ho idea. Sono venuto qui per scoprirlo».
   Le raccontò di aver scritto in tutta fretta un messaggio a sé stesso e di averlo nascosto nella banchina prima di lasciare la stazione, «Se non altro saprò darmi una risposta al mio ritorno», commentò. Ad Aurea sembrava un comportamento infantile e irresponsabile aver compiuto un viaggio così lungo e dispendioso senza neppure un progetto in mente per l’avvenire – si era abituata col tempo a pianificare ogni dettaglio, a svicolare qualunque cosa le remasse contro, sempre incessantemente in ritardo, sempre incessantemente rimpiazzabile. Però, in qualche modo, Augustine aveva lo stesso compiuto una scelta, e un sacrificio. E un giorno avrebbe compiuto un’altra scelta e un altro sacrificio, e forse sarebbe diventato qualcuno.
 

 
   A ogni scelta corrisponde un sacrificio. Per lei, almeno così pensava mettendosi a confronto con Zania incontrandola nei corridoi, era stata la sua femminilità. Aveva passato gli anni del liceo a cambiare senza pensarci troppo un ragazzo dopo l’altro, a consolidare come poteva la rassicurazione di riuscirli a dominare tutti in modo aggressivo e prevaricatore; per poi dover sostenere l’evidenza, appena adolescente, di non esserne in grado, la sopportazione di uno sputo sul viso – perché i maschi questo fanno, ti sputano e ti schizzano in faccia.
   A questo pensava mentre chiusa in bagno provava a forzare l’orecchino dentro un buco ormai richiuso. Non li metteva da troppo, e si diceva di essersi trascurata, una colpa imperdonabile il fatto di non aver badato al proprio aspetto come avrebbe dovuto. Ma dovuto per chi?
   La scarpa consumata si mosse con un calcio a colpire la base del lavandino, la specchiera tremò, e nello stesso istante un bruciore terribile si acuì sulla pelle arrossata, martoriata dall’indignazione e dal ribrezzo.
   Seduta a terra era rimasta a fissarsi nello specchio storto, accucciata in un angolo intanto che i minuti passavano e aspettava che il gonfiore smettesse di pulsare. Poi si era alzata, con un pezzo di carta aveva ripulito il sangue incrostato sul lobo, ed era andata come se nulla fosse accaduto.
   Arrivata all’appuntamento si apprestò subito a scusarsi, arcuando a forza la bocca, la voce modulata in un cinguettio: «Ho fatto tardi perché...».
   Con Augustine c’era un altro ragazzo. Subito la colse una gelosia infervorante, e pensava che anche lui, dopotutto, la rimpiazzava con un altro maschio, ed era come tutti gli altri.
   Quanto a questo altro maschio, Aurea si limitò sommariamente a registrare che aveva i capelli rossi, che era in qualche modo alto, e che sembrava uscito da una setta di poeti estinti; in una parola: ridicolo.
   Si parlavano in francese. L’impossibilità di poter capire quel che si stavano dicendo l’indispettì ancora di più – perché non poteva competere.
   Augustine sfiorava la cannuccia della sua limonata con un dito, si arrestava, la colpiva facendola ondeggiare da un lato all’altro intanto che s’incartava con le parole. Poi se la riportava pensieroso alle labbra mentre lo ascoltava. Aurea accantonò la gelosia e prese a osservare la cosa interessata.
   «Lui ti piace», gli disse, una volta che il ragazzo se ne fu andato. Augustine arrossì, negò:
   «No».
   «Stavi ad armeggiare con quella cannuccia in una maniera assurda mentre ti parlava, scommetto che muori dalla voglia di fargli un...».
   «Te l’hanno mai detto che i tuoi modi sono un po’ da cafona? Su certe cose sei sempre pronta ad aprire bocca...».
   «Beh, se non l’apri tu in questo caso!».
   «E smettila!».
   Aurea lo spronò maliziosa finché Augustine non cedette.
   «Elisio... Sì, forse uno glielo farei, però vedi... Eravamo a lezione di Programmazione. Si è accorto che ero in difficoltà, così si è seduto accanto a me per darmi una mano. Ha iniziato a parlarmi nella mia stessa lingua. Ero talmente commosso che non sapevo che dire. Per venire qui ho abbandonato tutto, ho fatto terra bruciata. Potrei dare l’impressione di essere sicuro di me, ma non lo sono affatto. Lui invece è così ispirato, e maturo, ha un modo di parlare e di coinvolgerti che... Insomma, lui è come... Come una fiamma ardente, capisci?».
   Per quanto ne fosse attratta, Aurea li aveva sempre guardati con un certo disprezzo. E invece ora scopriva che anche i ragazzi avevano una sensibilità, talvolta tanto intensa come quella di Augustine.
   All’improvviso le sottopose un’insicurezza lancinante:
   «Pensi che gli sia sembrato uno stupido?».
   Aurea se ne sorprese, e non sapeva se per il fatto che la domanda le arrivasse inaspettata o piuttosto per la scoperta che sotto la pellaccia del dongiovanni in realtà ci fosse un tenero imbranato.
   Oltre di loro vide Zania che rideva, si copriva la bocca con la mano.
   «No», rispose: «L’unica stupida, in realtà, sono io».
 

 
   Una notte Augustine aveva bussato ubriaco alla sua porta. Aurea era venuta ad aprire rimproverandolo sulle prime che da queste parti non ci poteva stare, e come ti viene in mente poi a quest'ora? Subito dopo aveva visto il sangue che colava dal naso, i lividi, gli occhi arrossati di pianto.
   Augustine collassò di peso sulle sue spalle ed Aurea lo trascinò dentro con uno slancio pruriginoso.
   Richiusa la porta continuò a stringerlo, senza trovare la forza di guardarlo di nuovo in viso, e si scoprì a tremare schiacciata sotto di lui da un terrore impronunciabile che le divorava lo stomaco.
   «Per quelli come noi non c’è posto», lo sentiva dire con la voce impastata e arrochita, «Per quelli come noi non c’è posto».
   Aurea sentì che se avesse ceduto avrebbe pianto. Strofinò gli occhi contro il suo petto con le labbra che si gonfiavano e serravano a soffocare un lamento di dissenso. Lo accompagnò in bagno a sciacquarsi, lo tenne per i capelli e per tutto il tempo in qualche modo continuò a tenerlo per un braccio o per una mano, le dita improvvisamente ferme.
   Seduti sul letto lo pulì del sangue e disinfettò le ferite sulle sue guance pallide, fissandolo negli occhi stremati che si richiudevano dal sonno. Lo stese con la testa sul cuscino e gli rimboccò le coperte che ancora si lamentava, «Sst...», gli diceva «Sst...». Restò con la mano chiusa nella sua finché non si fu addormentato.
   Accovacciata sotto il lume della scrivania prese ago e filo, gli ricucì la bandiera strappata reprimendo i sospiri affannosi, le imprecazioni, gli sbadigli.
   Tornando a letto aveva coperto Augustine con la sua bandiera, ci si era rintanata sotto, e aveva dormito al suo fianco.
   Elisio le si presentò l'indomani chiedendole di lui avendo saputo dai compagni di stanza che non era tornato la notte. Si parlavano per la prima volta. Aurea tentennò, dissimulò, ma percepì che in realtà egli intuiva la verità pur senza farle pesare la menzogna, partecipando con discrezione al suo stesso sconcerto. Rimasero il resto della giornata in silenzio, tessendo una nuova vicinanza seduti in biblioteca uno accanto all'altra, a studiare, ma coi pensieri altrove.
 

 
   Anche grazie alla compagnia instaurata con Augustine ed Elisio, Aurea era riuscita con il passare dei mesi a sciogliersi. Vedendo loro due assieme e scoprendoli così diversi, aveva avuto modo di fare esperienza anche di una propria alterità, di venire a patti con aspetti del carattere che fino a quel momento aveva ostacolato: si era fermata ad ascoltarli, a scoprire il modo in cui emergevano nel venire in contatto coi punti di vista variegati che loro le offrivano.
   Due personalità piuttosto distinte. Aurea pensava che Augustine avesse un gusto particolare, perché caratterialmente Elisio gli era molto lontano, e tra sé e sé non sapeva se potesse davvero ricambiarlo. Si faceva scudo di un parlare filosofico, moralmente impegnato, che era certamente affascinante e tuttavia metteva soggezione. Augustine sembrava aver trovato la maniera di penetrare questo velo e si permetteva senza imbarazzo di contestarlo:
   «Tu parli così perché sei un privilegiato», gli ricordava elencando uno per uno i nomi prestigiosi degli avi da cui discendeva «Non hai nemmeno idea».
   Per quanto questo orgoglio che lo animava trasparisse malcelato nei loro discorsi a volte come una distanza incolmabile, Aurea sentiva dal modo in cui egli le si rivolgeva che Elisio la stimava, con una affezione particolare, anche. Come che Augustine avendogli messo sotto gli occhi la realtà del suo privilegio lo avesse riscosso di fronte alla consapevolezza di una difficoltà a lui rimossa – in questo scambio reciproco pareva in fin dei conti che le loro differenze combaciassero.
   Aurea si chiedeva a volte se non avessero percepito anche loro quella sinergia che aveva avvertito lei da Zania. Per un periodo non l'aveva più ricercata, se non con gli occhi e distrattamente, di tanto in tanto quando riconosceva il suo viso nella folla durante le lezioni.
   Un giorno le capitò d'incontrarla di fronte all'ascensore e, nell'attesa, di aprire con lei una conversazione banale. Poi, incalzata da tutte quelle preoccupazioni che la vicenda di Augustine le aveva rivoltato dentro e che ancora la turbavano, Aurea si era spesa in una qualche considerazione, le aveva esposto il ragionamento che Augustine le aveva trasmesso.
   «Per quelle come noi non c'è posto», aveva concluso.
   Zania era rimasta a riflettere.
   «Per quelle come noi non c'è posto», ripeté «Non posso dire che non sia vero. E pur sapendolo, di fatto siamo qui. Per quale motivo sei venuta, Aurea?».
   «Io voglio diventare Professoressa Pokémon».
   «Allora abbiamo qualcosa in comune».
   Zania l'aveva guardata complice, con un bagliore di tenerezza negli occhi, velatamente e insospettabilmente provocante, e Aurea aveva percepito nuovamente l'affinità che le aveva trasmesso le prime volte. Una comunione che nella sue possibilità molteplici si apriva ad altre convergenze, tutte da scoprire, e aveva l'impressione che proprio a un atto di spoglio la volesse invitare, mentre si sistemava il fermaglio di fiore sui capelli, come una Olympia impudica che volesse addurre a qualcos'altro. Soltanto ora si accorgeva che quest’apertura segreta gliel’avesse sempre mostrata agli occhi, e lei non era stata in grado di coglierla, di approcciarvisi con la giusta cautela, ancora troppo impaziente e superficiale.
   Aurea ricambiò con una dolcezza accaldata il suo sguardo, e sentì di essere a proprio agio in quello scambio silenzioso.
   L’ascensore arrivò e Zania prese posto. Per qualche motivo Aurea però provò una esitazione improvvisa, e non riuscì a raggiungerla per quanto dentro di lei lo desiderasse. Prima che le porte si richiudessero, Zania le disse, come un monito:
   «Non sarò mai tua nemica. Ricordalo, Aurea».
   E le era rimasto impresso, un pensiero martellante che pulsava sempre più intanto che guardava l’ascensore salire.
 

 
   «Ti hanno aggredito un’altra volta?».
   Stavano passeggiando sotto il portico del cortile quando, tempo dopo, il dubbio l’assalì di nuovo in mezzo ai loro discorsi. Augustine annuì e Aurea lo guardò turbata, lo afferrò per un braccio costringendolo a fermarsi.
   «Perché non sei venuto da me?».
   Si accorse che era stranamente sereno.
   «C’era Elisio, con me», rispose – Aurea se ne stupì «Li ha sfidati in una lotta con il suo Gyarados... Non l’avevo mai visto così arrabbiato. Faceva paura. Li ha stesi con una tale violenza... Diceva che meriterebbero di morire ammazzati... Mi ha preso per mano e siamo andati via».
   «E poi?».
   «E poi... Siamo rimasti abbracciati un sacco di tempo. Mi veniva da piangere e mi è stato vicino finché non mi è passato. Ecco... Quando mi ha riaccompagnato in dormitorio avrei voluto dargli un bacio, ma non me la sono sentita».
   Aurea se li immaginava stretti insieme in silenzio e spaventati, colmi di dolore e di rabbia, schiacciati contro un muretto per non farsi vedere e sentirsi protetti in una invisibilità ingiusta. Ma intanto Augustine era tranquillo, e questo era ciò che contava.
   In quel momento li raggiunse Elisio. Ci fu uno scambio impacciato di sguardi, un silenzio teso.
   «È ora», accennò.
   Augustine si rivolse ad Aurea annuendo: «Vado a discutere della mia tesina con Rowan».
   «Lo accompagni tu?» chiese lei guardando gravosa l’altro.
   «Sì. Non preoccuparti», rispose. Augustine gli si accostò e fecero per andare, le loro spalle si toccavano appena.
   «Vi aspetto qui fuori».
   Si sedette su una panchina a sfogliare un libro. Mentre guardava loro due allontanarsi, pensava adesso che fossero due stupidi a non dirsi nulla. Poi si ritrovava a ragionare di quel silenzio – un amore inconfessato, maturo, che non ha bisogno di dichiarazione – e si chiedeva se potesse essere questo il tipo di amore che provano gli adulti. Ma quanto sarebbe tutto più semplice, se ci si potesse parlare e confessare a cuore aperto – non aveva neppure il coraggio di farlo con suo padre.
   Davanti alle sculture di Reshiram e di Zekrom che campeggiavano in cima alla fontana si diceva di aver sempre riflettuto sul bianco e sul nero. Cos’era ora questa ambiguità che sentiva, ogni volta più forte man mano che si scontrava con le sue certezze? Che il mondo fosse in realtà qualcosa di fluido, d’irriducibile, in costante mutazione e contraddizione con sé stesso?
   Notò per caso Zania seduta sul prato dall’altro capo del cortile. Riposò gli occhi su di lei, pigramente, e dopo un poco la colse la fantasia di sfilarle una scarpa, di sentire il dorso del suo piede nudo poggiarsi sulla propria guancia e attirarla a piegare il viso verso il basso tra le sue gambe, oltre le pieghe della gonna. Provò il desiderio di essere sedotta, di prestarsi a una seduzione matura e consapevole.
   Si accorse che Zania la salutava. Aurea arrossì, riaccostò le ginocchia tra loro e distolse lo sguardo.
 

 
   Vennero i mesi estivi. Augustine tornò per qualche tempo a Kalos, ma ci fu anche il tempo per qualche gita insieme. Con Elisio non si erano ancora detti nulla, eppure Aurea aveva l’impressione che qualcosa fosse successo, tra le passeggiate innocenti in mezzo ai campi di lavanda della Provenza. Bulbasaur si era evoluto in Ivysaur.
   Distratta sopra i libri per l’esame guardava Minccino sonnecchiare pacificamente accanto ai germogli che aveva sistemato alla finestra della sua stanza e pensava con rammarico che nonostante un altro anno fosse passato in mano non aveva ancora nessuna Pietrabrillo.
   Le cose accadono intorno a me e io mi sento tagliata fuori, si sorprendeva spesso a riflettere mentre pettinava i capelli allo specchio o provava degli orecchini nuovi. I buchi erano guariti da un pezzo, ma a volte infilandoli tentennava ancora nell’aspettativa di un dolore che poi di fatto non compariva.
   Alla vigilia dei suoi vent’anni, sorgeva in lei la consapevolezza di un’insoddisfazione. Eppure io mi sento sicura, rifletteva tra sé e sé, mi sento sicura di quello che voglio. Si diceva di essere cambiata molto dall’inizio, di aver scoperto nuove strade fino a poco prima impensabili. Però, la necessità di esporsi sempre più agli occhi dei professori, il giudizio che leggeva sui loro volti continuando ad andare avanti un esame dopo l’altro, in qualche modo queste cose la gettavano nel più completo smarrimento, anche se solo per poco. Vedeva Augustine andare d’accordo con Rowan e costruire il loro rapporto con tutto l’imbarazzo e la riservatezza del caso. Poi sfogliava il proprio libretto e si fermava a fissare la casella vuota che sarebbe toccata a suo padre.
   Una mattina di pioggia Aurea prese il pullman e attraversò il Ponte Freccialuce. Aveva deciso, il giorno prima del suo compleanno, di tornare a Levantopoli per rivedere la sua vecchia scuola e prendersi una pausa dallo studio. Restò davanti al portone chiuso, osservando l’acqua scivolare sui gradoni dell’ingresso. Aveva pensato che quella visione le avrebbe riportato il buonumore e che le avrebbe ricordato il motivo per cui una volta era stata felice. Al contrario, si sentì invadere da una malinconia asfissiante che non sapeva come scacciare. Andò a ripararsi dentro la caffetteria, dove un tempo da ragazzina aveva trovato rifugio. Non potendo più contenere l’urgenza, all’improvviso scoppiò a piangere. Si accucciò sul tavolo con il viso nascosto tra le braccia a singhiozzare, a rivolgersi insulti sottovoce: Pensavo di aver superato tutto questo, di non farne più un dramma.
   Poco dopo un calore conosciuto si posò sulla sua spalla. Aurea sollevò gli occhi, aveva dovuto sforzare la vista oltre lo sguardo lucido, e la prima reazione istintiva che provò fu di vergogna. Davanti a lei c’era Zania che sorrideva affettuosa. Proprio nel momento in cui si sentiva più sola, ella tornava un’altra volta a dimostrarle il contrario. Si sedette al suo fianco e la tenne per mano. Tirò fuori dalla borsa la sua trousse, con una salviettina le tolse il trucco colato già dagli occhi, le risistemò il mascara sulle ciglia. La lasciò un attimo sola per riprendersi, poi riapparve con due tazze di cioccolata.
   «Va meglio, Aurea?».
   «Sì... Ma tu che ci fai qui?».
   «Io ci abito, qui. Sono tornata per il finesettimana».
   Aurea si chiese perché non si fossero incontrate prima, e pensò che le sarebbe tanto piaciuto. Il contatto tra le loro scarpe ormai non la metteva più a disagio.
   «Ti va di fare due passi insieme?» propose. Zania accettò.
   Si diressero verso il parco, camminando vicine per scaldarsi. Zania canticchiava sovrappensiero o faceva una battuta sciocca per rallegrarla, e pareva a tratti una bambina ingenua. Aurea la ammirava in questa veste a lei meno familiare, ma pur sempre dolce e accogliente. Si diceva di esserci cascata anche nei suoi confronti, di averla idealizzata suo malgrado – tuttavia lo svelamento non la irritava.
   Stavano girando in tondo attorno alla fontana osservando i rigagnoli argentei dell’acqua che si mischiavano alle gocce di pioggia sulla pietra.
   «La verità è che mi sento fuori posto», ammise a un certo punto.
   Zania la guardò, la rimproverò:
   «Che sciocchezze sono queste, Aurea?» ma la voce era un sussurro, «Tu vai bene così come sei».
   Le accarezzava piano i capelli sulle spalle, si avvoltolava una ciocca attorno a un dito e intanto la fissava silenziosa, gentile. Aurea avrebbe voluto baciarla – sentiva la sua mano scorrere lungo la scollatura, sopra il proprio petto. Poi sopraggiunse il piacere nell’essere scrutata a quel modo da lei, oggetto della sua attenzione, ed era un tipo di sensualità tutta nuova e deliziosa.
   La avvertì avvicinarsi, all’orecchio la tentava: «Vuoi venire a vedere il mio posto preferito?».
   Quindi le prese un’altra volta le dita e la condusse verso la periferia, in una zona dove Aurea non era mai stata e che non conosceva. Intanto che la pioggia cessava, in mezzo alla foschia cominciarono a emergere i contorni di quella che sembrava una struttura ancora in costruzione.
   «Questo è il Cantiere dei Sogni», spiegò Zania. «È un luogo che non esiste e che non avrà mai forma. Qui tutto è possibile».
   Rapidamente la superò fino a raggiungere la cima della scala dinnanzi a loro. La guardava dall’alto con due occhi sibillini, accostandosi contro un pilastro. Aurea capì che voleva essere rincorsa. Accolse il gioco e saltò sul primo gradino, sorridendo divertita mentre la vedeva filare a nascondersi per essere trovata.
   Le andava dietro lasciandosi guidare dalla scia del suo profumo, dall’incedere leggero dei suoi passi affrettati. Aurea alzava lo sguardo verso di lei, e le sembrava che la sovrastasse in tutti i sensi, sia nel ruolo di guida che si era scelta senza la minima esitazione, sia in quel suo esserle perennemente di fronte, visione incancellabile tanto dagli occhi quanto dai pensieri. Un gradino dopo l’altro, aveva l’impressione che l’unico scopo di quella salita costante lungo tutti quei mesi fosse stato di anelare a lei, e l’eccitazione cresceva mentre cercava di stare al suo passo.
   L’afferrò per i polsi e rintanò il viso tra i suoi capelli.
   «Ti ho raggiunta».
   «Ti stavo aspettando».
   Aurea la sentì adagiarsi serena sul proprio seno. L’abbracciò teneramente lasciando esitare le labbra sopra il suo fermaglio, sospirando. Fremeva di desiderio. Zania parve accorgersene.
   «Ma tu ricordi, Aurea, qual è il tuo vero desiderio? Te ne sei dimenticata?» le chiese.
   Quindi con delicatezza sfuggì dalla sua presa. Munna uscì dalla sua sfera e la seguì, cominciò a emettere una nebbiolina rosata che l’avvolse tutta. Aurea corse verso di lei a riafferrarla, ma offuscata dal fumo non riusciva a vederla. Disorientata la chiamò, si mosse a tentoni temendo di cadere.
   All’improvviso una schiera di banchi apparve davanti ai suoi occhi, ai suoi piedi il pavimento marmoreo di un’aula scivolava verso il basso a congiungersi alla cattedra. Lì una donna, ritta in piedi, la osservava da lontano. Aurea scrutò i suoi occhi verdi e fiduciosi, decisi, fino a provarne riverenza. Poi notò le scarpe consunte, sporcate di fango – le sue.
   Come assistendo alla più solenne delle epifanie, Aurea sentì gli occhi bruciare e le gambe tremare inermi di fronte a ciò che le si stava manifestando. Nel petto si accese una fiamma commossa e impetuosa, che le ravvivava le carni, si mosse a cogliere quella visione allargando entrambe le braccia per stringerla, per farla sua. Ma non appena giunse a sfiorarne il camice con le dita, il miraggio si fece evanescente e si dissolse, il suo sogno scomparve, e si ritrovò a stringersi in un abbraccio solitario piangendo di gioia e spavento.
   Zania accorse.
   «Che cos’hai visto?» le chiese.
   «Non ne sono sicura, ma credo di aver visto me stessa... Ho visto me stessa, ed ero bellissima...» rispose gemendo Aurea, e dovette chinarsi a terra sopraffatta dall’emozione.
   Zania passò una mano tra i suoi capelli, la accolse a consolarla contro le proprie ginocchia, confortandola con parole carezzevoli:
   «Aurea, tu hai il nome dell’oro. E non c’è nulla che possa ostacolarti nel raggiungere te stessa, il desiderio a cui aspiri. Ma per farlo devi scegliere la tua strada – che non è né di Augustine, né di nessun altro – è tua, tua soltanto. Dovrai essere forte, perché non c’è posto per noi a questo mondo. Ma hai tutto il diritto di rendere il tuo cammino degno del tuo nome».
   «Ho paura, Zania. Non ci capisco niente».
   «Non avere paura, perché io sarò con te».
   Zania si chinò, le prese il viso bagnato di lacrime nelle mani e la baciò sulla bocca.
   Intanto che le loro labbra si scaldavano, le campane della mezzanotte suonavano e battevano l’ora.
   Aurea sentì una voce, che era quella di Zania, o forse era la propria pulsante nell’animo, non le distingueva – diceva:
   Sorridi! Oggi è festa!
 

 

 



Questa è la versione definitiva di quella storia che mi stavo portando dietro da qualche anno su Aralia e Zania e che avevo ricordato più volte nelle note delle ultime raccolte: sono molto contenta di aver colto l’occasione di questo contest per metterla finalmente per iscritto! Spero vi sia piaciuta
So che adesso con Galar, la Professoressa Flora e Sonia il tema di base perde un po’ di senso, ma avevo iniziato a progettarla ancora in piena VII generazione.
Nell’idea originale Aralia e Zania dovevano essere già adulte, però ho pensato che in un contesto universitario come questo le loro dinamiche potessero funzionare meglio. Platan ed Elisio non dovevano esserci, li ho aggiunti come controparte.
Grazie per essere passat*, un abbraccio 
Persej

 

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Pagina del contest Teenage Years
Pagina giudice di Asmodeus
Pagina autore di Asmodeus
 

  
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