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Autore: mat46    14/12/2021    0 recensioni
Io e Nino eravamo sempre stati migliori amici da che ricordi. Eravamo sempre immersi in fulgide fantasie fanciullesche della quali eravamo i protagonisti eroici degni di ogni storia d'avventura. Eravamo bambini e le nostre storie fantastiche erano semplicistiche e dominate da quel senso di ego che solo i bambini possiedono. Se solo potessi tornare indietro brandirei ancora la mia spada di legno ricavata dal "Barbone" per fendere qualche colpo ai miei avversari immaginari.
Genere: Avventura, Introspettivo, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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“Albertonto”

La luce del sole di settembre entrava ancora prepotentemente nella mia stanza, attraversando la porta vetrata che dalla mia cameretta affacciava al piccolo balcone in ferro battuto. Quella mattina ero sdraiato sul letto a disegnare cerchi immaginari con la mia spada di legno. Ero fiero di quell’arma, più volte mi balenò l’idea di portarla a scuola e farla ammirare dai miei compagni, magari suscitando qualche invidia tra loro, acquistandomi pure l’ammirazione delle ragazze. Ma non lo feci mai o, perlomeno, mia madre non me lo permise mai. Più volte avevo cercato di nasconderla tra i pantaloni, ma puntualmente venivo scoperto.

Resi partecipe Nino della mia idea, ma lui si mostrò contrariato “Altro che ammirazione, ti prenderebbero in giro” sentenziò una volta, frustrando le mia aspirazioni.

Il silenzio pomeridiano venne interrotto da una voce. La conoscevo benissimo, era quella di Nino. Mi chiamava da sotto casa. Sapevo molto bene che se solo l’avessi fatto aspettare troppo avrebbe cominciato a tirare i sassi sulla porta di vetro, con il rischio che la frantumasse, cosa già accaduta una volta .

Dovetti dire a mia madre che ero stato io a romperla mentre giocavo in stanza.

Così prima di farlo alterare piombai sul balcone ed ebbi la conferma che fosse lui. Capelli castani e folti, mi guardava dal basso della strada con un occhio completamente chiuso e l’altro arricciato per evitare di essere abbagliato dal sole, alle spalle aveva uno zaino da cui sbucava la punta leggermente appuntita della sua spada. Fui sorpreso.

Per la prima volta Nino non era solo, accanto a lui c’era Albertonto che si stava grattando la testa.

“Che ci fa qua”? Chiesi a Nino sul ciglio della strada.

“Scendi” si limitò a rispondere.

“Non posso!”. Abbassai la voce quanto bastava per evitare di farmi sentire da mia madre che era in casa. “Ieri ho perso le chiavi”. A quel punto Albertonto si mise a ridere a squarciagola e a battere le mani. Nino dovette dargli un piccolo spintone per acquietarlo.

“Le hai perse sicuramente sotto al Barbone”.

L’avevo pensato anche io, in effetti era l’unica spiegazione plausibile.

Così entrai nuovamente in cameretta mi misi gli stessi vestiti del giorno prima, agguantai la spada e uscii dalla stanza “io esco !” mi limitai a dire a mia madre.

Pochi minuti dopo era sotto la strada con Nino e Albertonto.

“Non avevi trovato un lavoro, tu?” chiesi perentoriamente ad Albertonto.

Quello si limitò a sorridere “Vanni mi ha cacciato, dice che spavento i clienti”.

Nino si mise a ridere e Albertonto ricominciò ad applaudire.

“direzione Barbone !” sentenziò Nino e lo seguimmo.

Dopo dieci minuti eravamo usciti dal Paesello. A pochi metri si ergeva maestoso il Barbone, mi misi a correre per raggiungere velocemente la meta in ansia di scorgere da qualche parte il mio mazzo di chiavi perduto il giorno prima.

Ci mettemmo tutti e tre alla ricerca a sondare il terreno sotto l’albero che era circondato da un umido pagliericcio. Ogni tanto Albertonto si metteva a battere le mani quando scorgeva i resti mortali di qualche cicala con il dorso squarciato dalle formiche, desiderose di nutrirsi delle interiore del povero insetto. “Eccone un’altra” diceva e applaudiva.

Delle chiavi nessuna traccia.

“Basta” disse Nino a un certo punto, mettendosi in posizione eretta cercando di scrocchiarsi le vertebre. “uccidiamo i leoni”. Ero un po’ sconsolato, non avevo trovato le chiavi ma decisi comunque di assecondare la proposta del mio migliore amico.

“io non ho un’arma” si lamentò Albertonto. Nino fu lesto a recuperare un piccolo rametto del Barbone e glielo porse. Ma Albertonto parve contrariato, evidentemente non voleva un umile rametto per uccidere i leoni, ma una spada come quelle che avevamo noi.

“Non sei pronto” guardai il tonto “Devi iniziare con quello”, gli dissi indicando il rametto che aveva in mano. Sembrò essersi offeso, ma subito dopo cominciò a brandire il ramoscello nel tentativo di usarla a mo’ di arma contro i nostri avversari immaginari.

Poco dopo tutti e tre eravamo impegnati nella strenua lotta. La nostra immaginazione creava impavide creature assetate di sangue pronte ad attaccare il Paesello che richiedeva di essere salvato da prodi cacciatori. Infilzavamo le nostre armi nelle pance di leoni fatti d’aria, da cui sgorgava sangue invisibile. Urlavamo e ci stancavamo, nel momento giusto simulavamo anche le ferite che i leoni ci procuravano. Passammo tutto il pomeriggio ad ammazzare le bestie all’ombra del nostro quartiere generale, ultimo avamposto del Paesello, punto estremamente strategico del nostro territorio.

Ero a pochi metri da Albertonto, che era sul punto di essere sopraffatto da un leone dalla imponente criniera, non ce l’avrebbe mai fatta ad avere la meglio sull’animale con quel rametto che brandiva a mo’ di pugnale. Decisi di soccorrerlo sorprendendo la bestia da dietro, infilzando la mia arma nella parte superiore del cranio leonino.

Ero ansimante e grondante di sudore, ma tra un affanno e l’altro mi vantai con Albertonto. “Ti ho salvato la vita”.

Quello ricambiò lo sguardo rabbuiato in volto. Avevo il presentimento che si sarebbe messo a piangere.

Strinse forte il rametto che aveva in mano e lo scagliò verso di me “ci giochi tu con questo!” si lamentò. Prima ancora che potessi ribattere si avventò in direzione del tronco del Barbone. Pure Nino aveva fermato il suo combattimento per assistere alla scena.

In pochi secondi Albertonto aveva già scalato la parte inferiore del Barbone e si trovava all’altezza delle prime diramazioni di rami, sui quali di solito ci sedavamo io e Nino . Ma Albertonto decise di proseguire la propria scalata e con una bracciata si trovò già ad un’altezza considerevole da terra. Da lì si adagiò su un ramo dell’albero, più robusto rispetto a quello su cui ci appollaiavamo io e Nino, ma lui aveva una corporatura evidentemente più ingente della nostra, considerando che doveva avere il doppio della nostra età.

Appollaiato su quel ramo si apprestò a spezzare quello posto sopra la sua testa.

“Altro che le vostre insulse spadine” ci disse Albertonto mentre cercava di spezzare il ramo che gli gravava sulla testa, provocando pericolosi sobbalzi di quello posto sotto il suo sedere.

“Con questo ci faccio un ariete” si mise a ridere e sono sicuro che avrebbe battuto le mani se solo non fosse stato impegnato ad estrarre la sua arma dal Barbone.

Io e Nino lo guardavamo dal basso, affascinati che quel ragazzo fosse riuscito a raggiungere un’altezza così tanto considerevole del nostro quartiere generale.

A un certo punto sentii un fragoroso e netto scricchiolio. Mi apprestai a guardare che il ramo sul quale era adagiato Albertonto si era spezzato e lo vidi cadere rovinosamente verso il terreno abbozzando una sorta di giravolta in aria con braccia e gambe divaricate . Dal rumore del ramo spezzato al tonfo sordo dell’urto del corpo sul terreno ombreggiato passarono pochi istanti.

Io e Nino fummo colti da una scarica elettrica, con due falcate raggiungemmo l’infortunato che era caduto sopra lo stesso ramo che lo aveva tradito. Sotto la sua testa una pietra, un tempo grigia ora coperta di liquido rosso molto scuro, a tratti nero, la parte inferiore del cranio di Albertonto squarciata, gli occhi spalancati circondati da schizzi rossi e il viso contratto in una smorfia di terrore.

   
 
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