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Autore: ClodiaSpirit_    17/12/2021    3 recensioni
[Un Professore]
[Un Professore]
- - Dopo la delusione del finale, ci rifacciamo scrivendo - -
Missing Moments #Simuel
E' passato un mese, Simone e Manuel si ritrovano dopo un anno scolastico che sta letteralmente volando. Tutto sembra andare bene, ma dopo essere stato sulla tomba di suo fratello, Simone manifesta ancora l'essere scosso da questa notizia e altri pensieri. Dall'altra parte Manuel sembra sempre di più mentire a se stesso su ciò che è successo tempo prima, alla famosa festa di compleanno di Simone (1x10 SPOILER).
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash, Crack Pairing
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Boh raga, qua la sezione Un professore non c'è nella barra delle serie tv,
e forse è anche meglio perchè
se ritorno a scrivere una ONE SHOT dopo anni,
vuol dire che questa serie mi abbia fatto male.
Simone e Manuel mi sono entrati dentro -
nonostante chi li ha scritti ha
fatto un buco nell'acqua negli ultimi episodi.
Vi regalo quello che per me, è la riflessione di Manuel 
o che comunque doveva avere dopo quello che 
è successo con mio figlio, Simone Balestra (Cuoricino,
cercati un altro che problemi non ha,
lo diceva pure la mitica
Raffaella)
Buona lettura


- Clò



Un mese dopo. Simone e Manuel se ne stavano seduti su un piccolo muretto che dava sul Tevere.                                               
Lo sfondo dava sulle case, palazzi in profondità e come cornice, le mattonelle di cotto sbiadite si stagliavano, impiastricciate di nero dallo smog della città e con qualche groviglio di verde che ci cresceva in mezzo, rimanendo intrappolato dalla materia dura. In lontananza le auto passavano, sfrecciavano nel casino di una Roma sempre in fermento, mentre i due motorini erano stati parcheggiati e abbandonati pochi isolati più in là.  Era passato un mese dall’incidente di Simone, che si era andato a schiantare in una notte giusto sotto casa di Manuel, il quale era rimasto vicino al suo corpo steso a terra, almeno quindici minuti prima che l’autombulanza arrivasse. Manuel, aveva in silenzio maledetto se stesso: Simone era riverso a terra, il sangue secco gli copriva metà viso e il casco era scivolato malamente a terra, accanto ai suoi capelli ricci, crepando istantaneamente per lo schianto con un buco la visiera. Ricordava l’attimo stesso in cui si era sentito debole vedendo in quel modo l’amico senza sensi. Di peggio c’era che Manuel aveva sferrato colpi di parole piene di rabbia e di cattiveria quello stesso pomeriggio su Simone, come se fosse il suo bersaglio preferito da colpire più e più volte.               

Colpisci e fai centro, colpisci due volte e spezzi ancora di più.                                                                             

Manuel si era fatto schifo immediatamente dopo che l’amico aveva lasciato l’officina in preda all’ira. I suoi pensieri sfumarono però, riportato alla realtà dalla voce fisica di Simone.                                                        

« E’ assurdo che sia passato quasi un anno di scuola » Simone si portò una mano dentro la giacca di jeans, focalizzando il suo sguardo su un piccolo filo d’erba che spuntava sotto le sue scarpe da ginnastica.
                                                    
« Il tempo è ‘na merda » rispose Manuel, con un tono scazzato e acido. « Non puoi rimandare niente che ti piomba addosso come una catapulta, però c’abbiamo ancora 16 anni, » lo guardò di nascosto « veniamo promossi, ci liberiamo e poi quest’estate ci rifacciamo, tranquillo Simò »     
Simone per risposta fece una smorfia, portando la sua faccia a deformarsi quel tanto che gli permetteva. I suoi occhi erano distanti rispetto a quelli dell’altro. Manuel se ne accorse subito. « , Simone che c’hai? » 
Quello si strinse nelle spalle, con un movimento spontaneo, giungendo le mani vicino alle ginocchia che penzolavano snelle dal muretto.                                                             

« C’abbiamo solo 16 anni e già la vita è un casino, il tempo è una costante, che ci piaccia o no,  » affermò amareggiato « soprattutto se ti ritrovi addosso un sacco di notizie senza avere il tempo di metabolizzarle. Finisci che ti schianti un giorno, finisci in ospedale e vieni a sapere di avere un fratello morto » deglutì a forza.                                                                           
Manuel si sentì impotente, ma non lo diede a vedere.                                                               

« Simò non ne potevi sapere niente, non ne hai colpa »

« Ho cancellato metà della mia vita perché fottuto dal dolore. Un po’ di colpa ce l’ho anch’io »

Manuel ricordava di averlo accompagnato pochi minuti fa davanti alla tomba di Jacopo. Aveva percepito i singhiozzi trattenuti di Simone, gli aveva portato un braccio attorno alle spalle, la sua mano si era posata su una di quelle e lo aveva sostenuto. Ricordava il modo in cui erano stati in silenzio, mentre il tempo si cristallizzava sul fermo immagine della piccola lapide, con ai piedi un orsacchiotto infantile e ormai spelacchiato, intaccato dalle intemperie, il vento, la pioggia. Tutto ciò che Manuel era riuscito a fare era stato quello, stargli accanto, per tutto il tempo che gli servisse, saltando le ultime lezioni di scuola per l’urgenza del suo amico di andare a piangere una persona che non c’era più, che aveva eroso dalla sua memoria.  Glielo doveva: per tutte le volte che lui c’era stato nella enorme marea di casini in cui si era cacciato.                          
                                                                                                        
 « Lo hai fatto per proteggerti »
                                                                                                       
Simone si girò a guardarlo, ora, con il sole che si fiondava sulle trame dei suoi ricci, ricadenti sopra la fronte. Manuel vide l’altro nudo, aperto, proprio come quel giorno al cimitero. Certo, non aveva pianto, ma si era dimostrato fragile – com’è giusto che fosse.  « Eri un bambino, non c’abbiamo colpe a quell’età, anzi » sottolineò « siamo giustificati per un sacco ‘de motivi. E’ pericoloso raccontarsi altrimenti »  
Simone annuì piano, fissandosi le mani.  « C’hai 16 anni Simone, ma proprio per questo non ti devi azzardare a farti un patema ogni volta che c’hai un dubbio, un pensiero di troppo, » il tono di Manuel era diventato di colpo brusco e amaro « ci sei quasi morto per quello. »

« Vabbè sto qua ora, è passato un mese, scemo! »

« Mi hai fatto prendere un cazzo di spavento, che manco lo puoi capire, coglione » Simone ritornò a guardarlo: Manuel stava fissando il fiume, scuotendo malamente la testa, amareggiato, forse incazzato. Non era leggibile, Simone lo aveva ormai imparato. Manuel era criptico per natura. « Non devi fare più cazzate, almeno non falle pe’ me, Simone. Non ne valgo la pena. So’ che sono uno stronzo di natura, c’ho il brevetto ormai, ho un carattere di merda, » sputò fuori sincero « ma tu no. E se ce l’hai c’hai un motivo giusto per esserlo. Sei un bravo ragazzo, ‘ste cose non fanno parte della vita tua e così deve continuare ad essere. I problemi non t’appartengono, io ne sono pieno »
                                                                                            
Silenzio.
In sottofondo si sentivano i rimbombi dei motori, gente che magari camminava o parlava per strada, sul fiume c’erano due signori, - Simone e Manuel gli davano le spalle  - che fumavano delle sigarette, vestiti di tutto punto, in giacca e cravatta. Poi il teppistello si voltò verso Simone, riprendendo parola.
« Io ci voglio provare a cambià, mi sono stufato di essere così, non c’ha proprio più senso » scalciò la gamba destra in avanti, come se stesse scacciando via una pietra invisibile « non va bene per me, ‘pe mi madre, ‘pe te Simone, ‘pe tuo padre »
                     
« Se vuoi davvero diventare filosofo, un maestro ce l’hai, pur cazzaro che sia »     
                   
Manuel vide per la prima volta quella mattina l’altro ridacchiare. Era la cosa che lo faceva sentire meglio. Tanto che il sorriso apparve anche sulla sua faccia, sghembo, mezzo accennato. Gli occhi scuri si strizzavano e il volto si girava verso l’altro di sua sponte. Vedere Simone sereno era un po’ il modo di ripagare il suo debito con lui, per tutto quello che gli aveva buttato addosso in quei mesi.                                                                       

« Mi dispiace di essere stato un coglione totale con te, Simò, lo sai »                              

« Lo so »                                                                                                                                                                                     
« Com’era quella cosa della legge morale dentro di noi e il cielo stellato sopra di noi? Che ogni nostra azione è la conseguenza del nostro essere, eh… mi sa che me ne sono sbattuto il cazzo proprio » 
Si ritrovarono a ridere entrambi, quelle risate genuine che affacciavano la testa dopo un temporale burrascoso.

« Ce ne siamo sbattuti tutti e due »                                                                                                                                    
« Già »                                                                                                                                         

« Ho solo una richiesta però Manuel, » Simone prese coraggio, sospirò e si massaggiò le tempie con una mano libera  « puoi chiamarmi come vuoi, ma evita di ripetermi frocio »

« Simò- »                                                                                                                                      

« Mi da fastidio, tutto qua »                                                                                                           

« C’hai ragione.»
             
In realtà Manuel non collegava mai il cervello prima di dire certe cose, sparava a cento senza rendersi conto di ciò che usciva realmente dalla sua bocca. Premeva play senza considerare che ci fosse anche un tasto pausa o che il tasto successivo, il rec, poi si ripetesse nella testa del destinatario. Quando ci pensava, era veramente troppo tardi. E dopo, ad azioni sgradevoli compiute, si sentiva una merda umana. 
                         
« E un’altra cosa » Simone giocò nervosamente con le sue mani – torturarle era un modo per concentrarsi su altro ed evitare magari di scoppiare in sentimenti non richiesti e inopportuni « Non ti chiederò più cos’è successo quella notte, alla mia festa, non ne parlerò più »  e allora s’agganciò subito a Manuel, come per cercare conferma di ciò che stava dicendo. Quello annuì piano, rispondendo allo sguardo. « E’ inutile girarci ancora attorno, no? E’ stata una cosa senza importanza, eravamo ubriachi e non c’abbiamo capito niente »
                                                                                          
In quel momento uno dei due avvertì una strana sensazione. Stomaco, petto, testa? Non lo capiva con certezza, ma Manuel si sentì sconfitto nel vedere che Simone era ritornato cupo e fermo, nonostante capisse il perché stesse alzando una barriera. Lui era stato il primo a farlo, perché l’amico non doveva servirsi della stessa arma per difendersi? Combattere ad armi impari non era possibile, in guerra tutto era lecito.                                         
Manuel sentiva la testa annebbiarsi, come se ci passasse del fumo denso e scuro che appannava ogni cosa davanti a sé. Cosa strana il sentirsi stranamente e di colpo buttati in mezzo alla nebbia, come dei ciechi che pur avendo qualcosa a cui reggersi, rimangono fermi senza sapere come muoversi.                                                                                                                             
« Non ti chiederò più niente al riguardo, non ne parleremo più, va bene per te? »
                                    
« Certo, Simò »     

Ma era l’ennesima prova che Manuel parlava senza connettere il cervello - di nuovo.



 
**
 

 
Ritornato a casa, il ragazzo chiuse la porta. Anita si affacciò dalla piccola cucina, i capelli erano raccolti in una crocca con un elastico. Salutò il figlio.                                                                                                                                                                 
« Mamma so un po’ stanco, mi vado a sdraià un attimo »                                                           

« Va bene, tesoro »

Anita non voleva ribattere sull’aspetto distante di suo figlio Manuel, d’altra parte impicciarsi con lui era il più delle volte inutile. Sviava la maggior parte dei discorsi intavolati e mentiva. Essendo sua madre, ormai sapeva come funzionava, aveva Manuel entrò in camera sua, chiuse la porta dietro di sé.                                                 
Si buttò a letto, lanciando incurante lo zaino e le chiavi del motorino sulla scrivania. Il letto lo accolse sonoramente poiché ci piombò sopra e incrociò le braccia al petto. Come se fosse un soldato, Manuel stava disteso dritto immobile. A occhi chiusi, respirò piano, concentrandosi sul silenzio della stanza, sui poster appesi alle pareti, sulle piccole fotografie di lui e Anita insieme vicino l’armadio, sulle piccole scritte imbrattate sul muro dietro la sua testa.
Senza essersi nemmeno tolto le scarpe, avvertì la morbidezza del materasso contro la rigidità del suo corpo. Provò a rilassarsi chiudendo ancora una volta gli occhi, portando le braccia dietro la testa questa volta, i capelli gli ricadevano sul cuscino.         
Non ti chiederò più cos’è successo quella notte, alla mia festa, non ne parlerò più  Le parole dell’amico gli rimbombarono in testa con un rumore sordo, insinuandosi a ogni tentativo di Manuel di pensare ad altro.  
Perché stai sempre a pensà, a fissatte sulle cose, fa male Simone. M’hai rotto il cazzo!
Lo sai che se forse ti sforzassi di pensare un po’ di più eviteresti anche di essere così stronzo? 

Era giusto. Era giusto non parlarne più, eppure perché gli faceva male adesso? Perché tutto il viaggio di ritorno verso casa aveva pensato alla faccia triste di Simone? Perché come amico era un vero e proprio fallimento, pensò.

Amico.                                                                                                                                   

Non si guarda un amico in quel modo, non si parla così a una persona a cui tieni, non lo si fa sentire piccolo, indifeso, in difetto. Non si prova un dolore del genere a sapere che il tuo amico sta tra la vita e la morte, non come lo aveva provato lui almeno. Manuel sapeva che in fondo Simone non era solo un amico.  Non lo era quando aveva deciso di baciarlo la sera del suo compleanno.  Quando, dopo essere stato malamente scaricato, frustrato, era arrivato a scuola e aveva cominciato a bere qualsiasi cosa gli capitasse a tiro. Simone, che lo aveva seguito fuori e che era lì anche quando doveva essere il suo giorno libero – perché Manuel era il re delle cause perse, nella vita e l’amico, veniva sempre in suo soccorso anche non chiedendone l’aiuto.  Simone c’era e gli voleva bene. Quando tutti sembravano averlo lasciato, abbandonato, Simone era lì a strattonarlo e a intimargli di non fare cazzate, lo stesso ragazzo che aveva messo il naso nelle faccende di Sbarra che riguardavano solo Manuel e che per ciò aveva rischiato la vita.                                                                 
In quel preciso momento, Manuel non aveva più capito niente. Aveva bevuto, sì, ma era lucido. L’alito sapeva di birra e cocktail, ma la testa funzionava come un motore in fase continua di accensione – si stava riavviando e inceppando fino a quando non si era trovato davanti l’altro. Il viso di Simone preoccupato, ansioso, ansimante, sfatto dopo aver urlato con tutta la voce a disposizione gli ritornò alla mente.                        
Manuel non gli aveva chiesto niente, ma Simone era lì.
                                                                                                                                             
Manuel sospirò forte, deglutì, inspirò. Le narici che si dilatavano nervose, il petto che si alzava in una morsa meccanica.  E in quell’istante, con Simone davanti a sé, Manuel aveva pensato se le sue labbra fossero come quelle di Chicca, di Alice o di qualche altra ragazza che aveva frequentato e baciato. Si era chiesto se c’era davvero un modo possibile per provare un sentimento simile, al di là di chi si avesse davanti: uomo o donna.     
Chi cazzo se ne frega, è la festa sua e sta qua appresso a me.                                                                               

Così lo aveva baciato.                                                                                                                                               
Lo aveva tirato a sé, sconnettendo il cervello e anteponendo alla ragione, l’istinto. Protagonista assurdo, l’istinto ebbe la meglio.
Baciando Simone, Manuel capì che le sue labbra non erano né come quelle di Chicca, né come quelle di Alice.  Provò subito una scarica di adrenalina salirgli e pompare lungo tutto il suo corpo, scendere e salire continuamente, in modo frenetico. Simone era un gigante rispetto a lui, perciò Manuel si era aggrappato come meglio poteva, stringendogli la felpa, cercando un appiglio stabile. Gli tremavano le gambe.
                               
A Manuel Ferro tremavano le gambe.
 
                                                                                                                                         
I suoi denti si scontrarono più volte all’inizio, in un contatto repentino, veloce, scoordinato per poi dare spazio a una danza vorticosa, più studiata, facendosi spazio nel palato dell’altro, usando la lingua, intrecciando i volti fino a farli scomparire. Erano due masse informi di capelli ricci e nasi appena visibili.  Mentre Simone gli sfiorava il viso, Manuel artigliava con il suo collo, diminuendo la distanza – se realmente c’era, essendo appiccicati – per spingerlo su di sé, più e più volte. Più l’altro cercava di respirare, più Manuel glielo impediva.                                 
Simone lo aveva fermato solo un momento all’inizio di tutto quello - Manuel che cazzo stai facendo? -  Manuel ricordava di averlo zittito. Di nuovo, pensare faceva male ed era meglio accantonare l’uso di una ragione logica.  In quel momento, mentre le loro mani si artigliavano vogliose sui vestiti, sulle felpe, sulle patte dei pantaloni, la logica non esisteva, era persa in un piccolo puntino in qualche dimensione spazio temporale lontana. Lontana da Roma, lontana dalla scuola, lontana da loro.                                                                                                                                                           
Mica ti piacevano i maschi. 
 Infatti chi te l’ha detto, non mi piacciono, però con te è diverso, hai capito no?


In realtà non lo aveva capito tanto nemmeno lui. Era rimasto con un pugno di mosche. Dopo aver praticamente avuto un rapporto con l’altro, era ritornato a chiudersi. Mentre stringeva i denti e si forzava a venirne accapo, Anita si affacciò dalla porta, girando la maniglia.
  « Manuel tra un po’ si cena » lo informò.  Suo figlio annuì. « Mi dici che c’hai? Cos’è quell’espressione da funerale? » 
« Mà, sto un po’ incasinato » 
« Non mi dire che hai di nuovo casini con gente come Sbarra, Manuel, ti prego » sospirò preoccupata ed esasperata Anita.       
« Ma che no, mamma sta tranquilla, » si portò a sedere sul letto, mentre Anita si avvicinava al materasso e si sedeva sulla punta « ho chiuso con quella gente, voglio mette la testa apposto, lo sai »                                 
« E allora che succede? »                                                                       
« Mamma, » Manuel si grattò la testa « tu cosa hai provato quando ti sei innamorata? » Anita spalancò gli occhi, poi sorrise premurosa e in modo sognante verso il figlio. 
« Manu, è difficile rispondere in modo logico a questa domanda »               
Il ragazzo si strinse nelle spalle, guardando di colpo il coprimaterasso e il suo motivo a forme astratte. « Non c’è uno schema, Manuel. Quando succede lo capisci, c’è poco da spiegare »                                                                   
« Sì, ma c’avevi dei segnali no? Qualcosa che te lo ha fatto capì » sembrava duro però era demoralizzato, il suo sguardo tradiva la sua voce. Ancora una volta, sconnessi.                                                                   
Anita sembrò pensarci di più, riflettendo come poter spiegare a suo figlio quella marea travolgente che era l’amore.
 « Quando ero una ragazzina, c’era questo ragazzetto a scuola, biondo, alto, era un adone praticamente » ridacchiò « gli andavano tutte dietro. Era praticamente il manzo della scuola, sai come funziona quando un tizio si fa ‘a nomina no? Ecco, a lui non fregava di nessuna. Neanche di me. Ma io ero persa. E no, non era una semplice cotta, » Manuel ascoltava attento, in posizione dritta, le mani sui piedi, le gambe divaricate, come un bimbo « ero proprio innamorata. E sai da cosa lo capivo di più di tutto?»                 

« Da cosa mà? » 

« Dal fatto che quando ci stavo vicino, nella stessa stanza, alle assemblee o anche solo quando ci incrociavamo per la scuola – ogni tanto capitava – io avevo la testa da tutt’altra parte. Me ne facevo pure una colpa, me dicevo di essere rincoglionita, pensando magari "c’ho esagerato" lì per lì, ho ingigantito una piccola cosa, però quello che sentivo era reale. »


 
Ce l’ho con quel coglione di Simone che mi fa a sta a fa’ diventà matto
Professore gli dica ‘de tornà, glie’ dica che ci manca, che le manca, che mi manca.  Che fai, torni?                                                           
Sei strano, sei strano come parli, sei strano come te vesti, sei un perfettone. E adesso ho perso pure Simone.
   
 
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