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Autore: Swan_Time_Traveller    19/12/2021    0 recensioni
Il professor D. se ne stava tranquillamente seduto nel suo studio provvisorio, ritagliato maldestramente dall'Ateneo nella vecchia caffetteria della facoltà.
Molto più preoccupata di lui, esordii: "Professore, perdoni la mia impazienza: posso considerare con certezza lei come relatore?" Srotolai rapidamente quelle parole, con un tremolio nella voce che tradiva il mio timore.
"Senza dubbio. Personalmente lo consideravo già scontato. Errore mio. Come anticipatole però, ho pensato di parlarle di un progetto ... Specialmente dopo un confronto coi colleghi, che mi hanno confermato quanto sospettavo: lei è una delle studentesse più brillanti del suo corso di laurea, e per questo motivo ci tenevo molto ad invitarla al mio laboratorio di metà semestre, di cui forse lei ha già sentito parlare."
Annuii, sebbene fossi ancora confusa.
"La partecipazione però richiede massima discrezione, glielo dico molto schiettamente: non le sarà possibile raccontare del laboratorio a nessuno." Aggiunse. Annuii di nuovo, ancor più disorientata di poco prima.
"Mi rendo conto che sto chiedendo un atto di fede, ma lei mi dà modo di credere che sia disposta a farlo, per questo le faccio una domanda."
Proseguì: "Se lei avesse modo di tornare nel 1963, sarebbe in grado di cambiare le sorti a Dallas?"
Genere: Avventura, Malinconico, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Il Novecento, Dopoguerra
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UNO
 
“Se resto qui ancora un po’ continuerò a non combinare nulla.” Bisbigliai rileggendo forse per la tredicesima volta le prime righe del manuale che avrebbe segnato, almeno teoricamente, l’ultimo esame della mia carriera universitaria. La luce fioca della lampada posizionata proprio sopra la scrivania di legno poi non aiutava granché: erano complici le poche ore di sonno per far cadere le mie palpebre in uno stato di apparente meditazione. Poco dopo sarebbe subentrato il crollo del busto, e la mia testa avrebbe senz’altro battuto sul mobile. La figuraccia era dietro l’angolo. Mi alzai facendo sfregare i pioli della sedia sul pavimento, per cui qualche studente si girò, più per noia forse che per il rumore.
“Non riesci nemmeno a finire il capitolo? Mi costringi a mollare quindi.” Replicò a bassa voce Elena, che aveva deciso per qualche assurda ragione di aggregarsi a me, in quella mattinata gelida di metà dicembre, nel tentativo maldestro di avanzare in modo soddisfacente verso la preparazione dell’esame di storia contemporanea “due”.
A molti non era chiara la precisazione numerica, dal momento che quel settore lo avevamo approfondito già al primo anno del corso specialistico di Scienze storiche: io di domande me ne ero poste poche, dal momento che l’area di studi era quella su cui mi sarei concentrata, progetti accademici permettendo, anche nei successivi anni.
Elena si alzò e rapidamente infilò libro, astuccio e laptop in borsa: sebbene il suo tono fosse stato forzatamente impostato per apparire seccata dalla mia resa, le sue azioni tradivano un sollievo quasi totalizzante.
Era chiaro che anche la mia compagna di corso aveva aspettato pazientemente un mio segnale per abbandonare la postazione di studio, seppur con motivi differenti dai miei.


Una volta fuori dalla biblioteca, prima di salutarla le dissi: “Comunque non volevo costringerti ad uscire, potevi tranquillamente restare.” Elena fece spallucce e sfoderando un sorriso liberatorio, replicò: “Fa niente, ti confesso che non ne avevo proprio voglia oggi. In realtà non mi sembra mai un buon giorno per studiare quella robaccia pesante.”

Quella robaccia pesante.

Le ultime parole avevano rimbombato violentemente nel mio cervello, stimolando sul mio viso una smorfia di disapprovazione che non riuscii a mascherare: è un mio problema, mia mamma me lo dice da quando ho la facoltà di comprensione. La mia faccia non mente praticamente mai, e per questo motivo sicuramente Elena quella mattina sarebbe rimasta offesa se avesse notato la mia personalissima reazione alle sue parole: fortunatamente per me però la mia compagna di corso era troppo distratta dalle luminarie natalizie e da quel via vai di gente frenetica votata alla spasmodica ricerca dei regali perfetti, per cui non fece granché caso alla mia espressione di disappunto.
“Comunque a questo punto tanto vale fare un giro nei negozietti del corso, quelli sotto al portico!” Esclamò lei in preda ad un entusiasmo per nulla contagioso, iniziando ad indicare alcune vetrine parallele a noi, che tutto mi ispiravano fuorché voglia di shopping estremo. “Poi magari ci fermiamo a mangiare in quel ristorantino che ha inaugurato poche settimane fa. Fanno cucina marocchina, che in realtà non ho mai considerato un’opzione, sinceramente mi fa anche un po’ ribrezzo pensare all’odore di quella roba che usano per insaporire i piatti, ma cosa posso dirti a mia discolpa? Che ci è andata quella tizia che fa le storie a tema, ti ricordi no? Ha un sacco di collaborazioni interessanti, e proprio ieri sera recensiva il locale giudicandolo davvero figo. Mi sembra un’ottima idea provare, che dici?”
Non sono mai stata abituata alla maleducazione: non la tollero e per coerenza, cerco sempre di non risultare sgradevole (sebbene a volte appunto le mie espressioni tradiscano gli intenti). Per quel motivo, pur avendo ascoltato un mucchio di luoghi comuni misti a chiacchiere “social” già ascoltate più o meno ovunque e costantemente, cercai di non replicare immediatamente: non consideravo Elena un’amica, dal momento che avevo iniziato a farci due chiacchiere in facoltà e a pranzarci assieme pochi mesi prima, dopo un esame difficile durante il quale c’era palesemente bisogno di trovare qualche sguardo alleato. Era una persona molto lontana da me e con abitudini diverse dalle mie: aveva qualche anno in più di me e si era trasferita in città alla ricerca di una facoltà universitaria che potesse fare al caso suo. Suo padre, medico chirurgo affermato e docente universitario famosissimo, aveva chiaramente tentato di avviare sua figlia verso una brillante carriera medica, che tuttavia era naufragata dopo il primo esame: nonostante ciò, disponendo di una somma mensile da far invidia alla famiglia Onassis nei brillanti anni Sessanta, la famiglia le aveva permesso di vivere lontana da casa e scegliere un percorso di studi a lei congeniale. Mi aveva confessato, proprio durante l’esame in cui avevo iniziato a parlarle, di non impazzire per la storia, ma di aver scelto quel percorso nella speranza di avere sempre qualcosa da dire: forse, già da quell’ammissione, dovevo capire che non c’era molto da spartire con Elena, men che meno una solida amicizia.

“Scusami ma oggi ho davvero bisogno di procedere con lo studio. Mi sono iscritta al prossimo appello e ci tengo a fare un buon lavoro, considerato che il professore …” Non riuscii a terminare la frase, perché Elena, alzando gli occhi al cielo, mi rimbeccò: “Sì, lo so, è quello con cui vuoi fare la tesi di Kennedy. Lo dici da una vita, pensa se il professore dovesse essere già pieno per la tua sessione di laurea! Sarebbe il colmo.” Le scappò una fugace risatina, che le mie orecchie automaticamente ignorarono: non era per me sorprendente vedere in Elena certe reazioni al limite dell’educazione e complice il rapporto superficiale che avevamo, riuscii anche in quel contesto a far finta di nulla. “Che poi scusa, sei stata tu a voler uscire dalla biblioteca! Non mi sembravi molto focalizzata sullo studio. Comunque va bene figurati, mi farò un giretto di shopping natalizio e andrò a provare il marocchino un’altra volta. Così almeno hai tempo per pensarci!” Sospirai alla sua ennesima constatazione, ma non riuscii a replicare perché agitò la sua mano davanti a me salutandomi, e partì più veloce della luce verso il negozio che aveva mirato poco prima.

Nel tragitto verso casa, avvolta da una nebbia frizzantina che cadeva a gocce sottili e microscopiche sulle lunghezze dei miei capelli, iniziai a rimuginare su quanto detto da Elena, specialmente sulla risposta che le avrei dato, se non fosse fuggita in quel groviglio luminoso di Natale nel giro di un batter d’occhio: certamente ero stata io la prima ad abbandonare la biblioteca, consapevole di non esser riuscita a fare un minimo progresso da quando ero entrata poche ore prima. Ciò però non significava che io non avessi voglia di studiare, anzi: incredibilmente la mia carriera universitaria mi aveva permesso di scoprire parti di me che avevo sempre ignorato, tra cui la mia spasmodica fissa per la storia del Novecento americano e per il compianto presidente Kennedy, e il fatto che le biblioteche avevano su di me un effetto alienante. Aprivo i miei libri, mi sistemavo sulla sedia e iniziavo a guardare ovunque, tranne le righe dei manuali: questo perché le ricchezze conservate in quegli scaffali enormi mi affascinavano e distraevano costantemente, causando in me il desiderio incontrollabile di salire la scaletta del bibliotecario per iniziare a sbirciare tra le pagine dei più polverosi libri collezionati lassù.

A quel punto dunque studiare a casa risultava sempre la soluzione migliore per me, e anche quel giorno non fu diverso, sebbene Elena non avesse compreso a pieno le mie difficoltà: probabilmente mi avrebbe ignorata per il resto del mese, facendo trascorrere tutto il periodo natalizio in silenzio, perché convinta che in realtà volessi stare per conto mio anziché con lei. Non era assolutamente vero, ma non m’interessava granché farglielo sapere: per tale motivo il resto della mia giornata si prospettava davvero all’insegna dello studio matto e disperatissimo, per citare Leopardi.
Mi resi ben presto conto che l’esame di storia contemporanea “due” era uno di quelli per cui avrei donato la mia totale attenzione e notti insonni, in attesa del giorno dell’appello: ero sinceramente intenzionata ad ottenere il massimo, non solo perché gli argomenti scelti e la bibliografia suggerita dal docente erano affascinanti, ma anche per il fatto che, come sottolineato bruscamente da Elena, il professor D. era il relatore perfetto per me. Il mio piano era chiaro nella mia testa già da tempo: avrei svolto l’esame nel migliore dei modi (o al massimo delle mie capacità, almeno) per poi chiedere prontamente appuntamento al professore per le settimane successive, anticipandogli già il desiderio di realizzare la tesi con lui.
Avevo seguito le sue lezioni per tutto l’autunno, ed ero rimasta stupita non tanto dalla giovane età (trentasette anni secondo il Curriculum Vitae pubblicato nello sportello online dell’università, accuratamente scandagliato dalle altre ragazze del corso, pazze di lui dalla prima lezione) bensì dalle sue ricerche e dal suo modo di raccontare e spiegare parti di storia davvero complesse: sicuramente la maggior parte del corpo studenti lo aveva apprezzato appunto non proprio per la sua carriera accademica o per le capacità, ma perché oggettivamente era davvero da considerarsi un bell’uomo.
Alto almeno un metro e ottantacinque secondo le ragazze più fissate (quelle che arrivavano sempre un’ora prima dell’inizio delle sue lezioni per piazzarsi in prima fila e fantasticare su improbabili scenari erotici con loro e il professor D. come ospite d’eccezione), capelli color pece e spesse sopracciglia, che incorniciavano gli occhi chiari sprizzanti di energia e dinamicità: a mio avviso però era il suo abbigliamento a costituire il punto forte, sempre contraddistinto da un giubbotto di pelle nero, anfibi e pantaloni scuri, abbinati il più delle volte da camicie a quadretti che ricordavano spesso e volentieri le vibrazioni grunge degli anni Novanta.  

In ogni caso non mi ero mai sentita più di tanto attratta dal suo aspetto fisico, perché ero sinceramente intenzionata ad impegnarmi nel passare col massimo dei voti quell’esame e chiedere subito una collaborazione con lui in vista di una tesi che mi avrebbe permesso di intraprendere una ricerca storicamente incredibile: avevo già purtroppo captato la tendenza di molte mie compagne di corso però, che avevano iniziato a blaterare a proposito del professor D. come possibile relatore delle loro tesi, il che faceva presagire in me l’idea di essermi avventurata in un percorso un tantino tortuoso. Avevo già per fortuna attraversato, processato e accantonato il periodo di pelide ira provocato dalla fondata consapevolezza che a nessuna di quelle ragazze interessasse sinceramente l’area approfondita dal docente, per cui mi ero semplicemente rassegnata, incrociando tuttavia tutte le dita delle mie mani, in attesa del giorno dell’esame e del possibile colloquio.

 
Il giorno dell’esame non tardò ad arrivare, anzi: mi sembrava passato troppo poco da quella mattina in cui avevo abbandonato Elena nelle grinfie dei commercianti del centro storico, eppure era già trascorso un mese e con esso, per fortuna, anche tutte le festività natalizie.
L’aula magna dove il professore aveva organizzato l’esame era piena zeppa di studenti che bisbigliavano, creando una sorta di bolla caotica nella quale non avevo alcuna intenzione di immergermi: per fortuna, essendo io una persona traboccante d’ansia universitaria e di talvolta insopportabile determinazione, ero riuscita a mezzanotte del giorno dell’apertura delle iscrizioni, a prenotarmi per prima all’esame orale. Sapevo quindi che, a prescindere dall’angolo in cui mi sarei seduta e fatta inghiottire dal vortice di parole dei miei colleghi, il nodo allo stomaco sarebbe durato ben poco.

Fui costretta a posizionarmi in alto, in una delle file più lontane dalla cattedra dove il professor D. era già posizionato, in attesa di iniziare l’appello e procedere all’interrogazione: quel giorno aveva deciso di cambiare scarpe, e non lo capii certamente guardando dalla mia postazione (la mia miopia per giunta dava ulteriori difficoltà), bensì dalle chiacchiere rumorose che stavano facendo le ragazze poco più avanti rispetto a me. “Beh quegli scarponi sono molto tattici se pensate che li uso anche io in montagna!” Commentò una delle studentesse del corso, quella che era sempre riuscita a posizionarsi in prima fila (tranne quel giorno) e a speculare sopra l’immagine del professore varie ed eventuali storie che le mie orecchie avevano volutamente lasciato fuori dai timpani e dalla mia mente. “Sì, appunto, in montagna. Così mi spiegate chi se lo piglia? Cioè, quelle scarpe tolgono tutto il fascino.” Ribatté la biondina seduta a fianco dell’amica, scuotendo la testa. “Beh tu pensala come vuoi, io me lo farei anche se avesse abbinato i calzini con le infradito!” Squillò la terza comare, che fino a quel momento era rimasta zitta, in fase di contemplazione.
Le cazzate volavano. Erano sempre volate a qualsiasi appello, ma il professor D., suo malgrado, attirava massicce dosi di disagio: non mi reputavo migliore di nessuno in quell’aula, anzi. Ero ben consapevole di quante persone potenzialmente studiose e ben preparate ci fossero, ma in quel contesto mi ero trovata a contatto con soggetti a cui non interessava minimamente la storia contemporanea, ancora meno il programma affrontato dal professor D. nei mesi passati: il fatto che proprio quelle tizie lì volessero realizzare la tesi con lui, era per me davvero inconcepibile.
Feci comunque in quel contesto lo sforzo di non fossilizzarmi su quei pensieri, e decisi di conseguenza di attendere il mio turno ripetendo silenziosamente alcuni concetti che fino al giorno prima sembravano ben impressi, ma in quel momento avevano acquisito le ali e apparivano anni luce dalla mia rete cognitiva. Nella folla, poche file più avanti, scorsi Elena che sfoggiava un maglioncino peloso color fucsia, probabilmente acquistato di recente (era solita indossare gli indumenti un paio di volte, per poi rivenderli a macchinetta su Vinted): sembrava guardare altrove, ma certamente aveva già avuto occasione di fulminarmi con gli occhi senza che io me ne accorgessi, visto che non si era davvero più fatta sentire nel corso delle settimane.

Il professor D. fu veloce a fare l’appello, complici gli squillanti toni delle studentesse che rispondevano prontamente appena venivano nominate: come da piani strategici, effettivamente il professore iniziò ufficialmente la sessione d’esame chiamando me.

Rigoni, Emma.” Disse lui ad alta voce, iniziando a scrutare tra la folla, in attesa di vedermi: mi alzai velocemente, raccattando in modo maldestro i miei effetti. Nella fretta, complice il cuore che batteva all’impazzata a causa dell’ansia e della tensione provocate dal mio cercare di raggiungere l’obiettivo massimo, dovetti recuperare i miei occhiali da vista, che avevo distrattamente tentato di mettere nella taschina laterale della mia borsa: qualcuna ridacchiò, ma io procedetti a passo spedito verso la cattedra. Una volta arrivata davanti alla cattedra, il professore sorrise e mi fece accomodare.
“Molto bene, lei è la prima della giornata quindi auspichiamoci di partire bene.” Disse lui, forse con l’obiettivo di tranquillizzarmi, ottenendo in realtà l’effetto opposto. Annuii, ricambiando il sorriso e deglutendo più volte, in attesa della domanda numero uno.
 
   
 
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