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Autore: Fauna96    19/12/2021    1 recensioni
Nell’esperienza di Pavel, bardi, cantastorie e simili erano molto vecchi, un po’ rimbambiti e solitamente si facevano pagare in cibo e una notte tranquilla in un fienile. Era chiaro che Pavel era vissuto finora fuori dai giri più importanti, dato che l’uomo col liuto era piuttosto giovane e le sue dita scintillavano ammiccanti quasi quanto i suoi occhi.
Genere: Fluff, Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Geralt di Rivia, Geralt di Rivia, Jaskier/Ranuncolo, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Discrezione
 


N.d.A: Questa storia è stata scritta per my liege Alsha, che mi ha affidato questi tre prompt: Outsider!POV; “Non sai con chi stai parlando”; Rubare per celebrare l’uscita della seconda stagione di The witcher. Premetto che Alsha ha già scritto e pubblicato la sua di storia, che è divertentissima e tenera e che trovate qua.
La mia è ambientata in un ipotetico dopo (anche perché non ho ancora visto i nuovi episodi); trovate anche uno smaccatissimo cameo nella ballata di Jaskier perché sì e sempre per Alsha; per i lettori dei libri, diciamo che Jaskier si è basato sulle avventure di Ciri in Il battesimo di fuoco, che spero vedremo.
Jaskier e Geralt non mi appartengono, ma Pavel sì, lui è tutto mio.
Se volete venire a dire ciao su Tumblr, fatelo.
 
Per Alsha
 

 
La nonna di Pavel era solita dire ai suoi adorati nipoti che tutti hanno un talento: nascosto o evidente, semplice o bizzarro, l’importante è coltivarlo e cercare di lavorare sfruttandolo appieno. Solo così, diceva, si può vivere una vita soddisfatta e senza rimpianti o amarezza.
Pavel, che all’epoca era alto più o meno come un ginocchio della vecchia, si chiedeva e chiedeva a gran voce alla nonna quale potesse mai essere il suo, di talento. La nonna gli batteva la mano raggrinzita sul capo e gli diceva di avere pazienza, che presto o tardi sarebbe saltato fuori. Non avrebbe potuto ignorarlo, diceva: sarebbe stato come mettersi una benda sugli occhi e girare come dei ciechi per la casa.
Pavel non aveva mai avuto intenzione di ignorare il proprio talento, una volta scoperto, dato che ci campava sopra; tuttavia, dubitava che la nonna avrebbe approvato. Perché il talento di Pavel era rubare.
Dalle mele al mercato alla collana di perle della moglie del voivoda: niente resisteva alle sue dita, i fermagli si scioglievano come burro, le scarselle scivolavano fuori dalle tasche con solo il minimo sforzo da parte di Pavel.
La nonna non avrebbe approvato. Ma la nonna era morta da dieci anni, se non di più, per cui Pavel continuò a tenere gli occhi puntati sulla folla che si andava ammassando sulla porta della locanda, guadagnandosi il diritto a entrare con gomitate ben assestate.
L’occhio analitico di Pavel individuò subito quel che bisognava scartare: ragazzini, contadini appena arrivati dai campi ancora sudati e sporchi di terra, e garzoni delle botteghe. Con loro, c’era ben poco da fare; inoltre, il padre di Pavel era stato un contadino, ed era morto con la schiena spaccata in due da un aratro, lasciando poco e niente ai suoi figli.
Pavel non si dava delle ridicole arie da “ladro gentiluomo”, come si fregiavano certi idioti che rapinavano in gruppo le carrozze dei nobili per farsi quattro risate; ma comunque evitava di maltrattare un poveraccio fregandogli i miseri soldi messi da parte per l’altrettanto misera dote della figlia. Alla fine, erano un po’ tutti sulla stessa barca: Pavel, semplicemente, aveva deciso di abbracciare il suo talento poco legale invece di accontentarsi, nonostante tutti i contro.
Infilandosi tra due pance particolarmente pasciute, non fu sorpreso di scoprire che le tasche dei signori erano altrettanto imbottite. Pavel non sapeva cosa si fosse inventata la locanda Dente di drago per attirare una così grande folla, ma non avrebbe mancato di ordinare da mangiare e da bere generosamente. Dopotutto, il vitto sarebbe stato offerto da svariate Gilde dei Mercanti, a giudicare dall’aspetto dei gentili contribuenti.
Con una pedata bene assestata, Pavel riuscì finalmente a entrare nella sala, e nella nuvola di fumo d’arrosto che sembrava avvolgere tutti gli avventori.
E sopra la cortina e il cicaleccio, sopra un palco costruito alla bell’e meglio con mobilia varia, era appollaiata la ragione di tutto quel trambusto.
Nell’esperienza di Pavel, bardi, cantastorie e simili erano molto vecchi, un po’ rimbambiti e solitamente si facevano pagare in cibo e una notte tranquilla in un fienile. Era chiaro che Pavel era vissuto finora fuori dai giri più importanti, dato che l’uomo col liuto era piuttosto giovane e le sue dita scintillavano ammiccanti quasi quanto i suoi occhi.
Pavel non era uno sciocco; era un ladro, certo, ma sapeva quando fermarsi. In più, grazie a quel bardo aveva concluso in dieci minuti quello che a volte racimolava in giorni, per cui sarebbe stato davvero villano allungare le mani su uno di quegli anelli. Così scelse un tavolo in penombra, vi si accomodò con la sua birra e la sua cena, e si rilassò. La sua età e i suoi abiti facevano pensare a un giovane artigiano, forse un carpentiere, o magari un calzolaio: nessuno trovava sospetto un giovanotto impegnato a mangiare dopo una giornata di lavoro.
La folla sembrò stabilizzarsi; il bardo salutò, sorrise, brandì il liuto e iniziò. Pavel non aveva molto orecchio per la musica, ma la voce del bardo era energica, la canzone ribalda ma non troppo, così che anche le fanciulle più pudiche potessero partecipare ai cori. A ognuno il suo talento, no?
Il bardo fece una mezza piroetta – gli stivali erano di buona qualità, ma impolverati e graffiati – e, con gran stupore di Pavel, strizzò l’occhio nella sua direzione.
Solo allora, Pavel si accorse che il suo angolino non era solo suo: ancora più nascosto, addossato contro la parete, vi era un altro tavolo con un altro avventore. L’uomo non indossava l’armatura, ma tutto, le spalle, la postura, persino il taglio della mandibola gridavano all’uomo d’arme. Pavel si dondolò leggermente sulla sedia e fu compiaciuto di notare la spada appoggiata sulla punta contro la coscia, pronta in caso di necessità.
A un uomo del genere persino la più spudorata delle prostitute avrebbe esitato ad ammiccare; quanto a Pavel, aveva fatto sua regola di vita evitare come la peste uomini dall’aria di potergli spappolare la spina dorsale con un ceffone. Quel bardo, invece, apparentemente senza alcun timore o senso di autoconservazione, l’aveva salutato allegramente, per così dire.
Con tutta la discrezione del ladro, Pavel puntò gli occhi sul guerriero; la luce giocava strani scherzi sui capelli lunghi dell’uomo, che non era certo così vecchio da averli completamente bianchi. Anche gli occhi apparivano bizzarri, simili a quelli di un gatto mentre seguivano ogni singolo movimento del bardo. Inquietante… Si era offeso, forse? Ma no: la linea delle spalle era rilassata e le labbra piegate in quello che forse voleva essere un sorriso. Oh be’, una spada di acciaio non equivaleva a mancanza di senso dell’umorismo.
Pavel abbassò lo sguardo sul proprio piatto; il bardo si era lanciato in un’epica appassionata che narrava le vicende di, ironia voleva, una banda di giovani ladri. Pavel ascoltò ridendo sotto i baffi, mentre le imprese si facevano sempre più incredibili e rocambolesche. Magari la sua vita fosse stata così interessante! E magari rubare fosse stato davvero materia epica…
La ballata prese una piega più dolce, più morbida; Pavel sentì le ragazze sospirare mentre il capo della banda, Manisporche, dichiarava il proprio amore allo Spettro, la sua complice più fidata. Gli occhi chiari del bardo scivolarono sulla folla come in cerca di qualcuno cui dedicare quelle parole d’amore; la sua bocca bisbigliava che nessun tesoro aveva valore quanto il cuore dell’amata, e che Manisporche non aveva però nessuna intenzione di rubarlo. Aveva rubato per tutta la vita, continuava il bardo, almeno una cosa voleva lasciarla intonsa, pura.
Pavel non era un tipo particolarmente romantico, ma doveva ammettere che le parole erano toccanti al punto giusto, dolci senza essere smielate, la musica avvolgente e appassionata, e il bardo… be’, sembrava crederci. Aveva il capo quasi chino e le labbra piegate in sorriso morbido, quasi fuori luogo considerato il luogo e l’esibizione… C’era un’intimità che non riguardava il pubblico. A Pavel sembrò che il suo sguardo fosse fisso su di lui, sul suo angolo… Ma no, non c’era nessuno a cui il bardo avrebbe potuto dedicare quelle strofe d’amore, solo lui e il guerriero.
Pavel per pura curiosità lanciò un’occhiata al suo compagno di angolo e notò con sorpresa che pareva ascoltare attentamente. Non sorrideva, non esattamente, e certo non sospirava, ma le linee del volto apparivano ammorbidite, e l’espressione della bocca era… quasi dolce.
Dopotutto, un guerriero poteva avere senso dell’umorismo e apprezzare le ballate; aveva sicuramente qualcuno a cui pensare, qualcuno da cui tornare a casa.
Il bardo concluse e rimase per un attimo immobile; poi una voce di ragazzina gridò: «Maestro! E lei cosa risponde?»
Il bardo sbatté le palpebre e sorrise. «Mia cara, dovrai aspettare la seconda parte per scoprirlo!»
Gli applausi si riversarono come cascate insieme alle monete, ai fiori, ai fazzolettini; il bardo si inchinò più volte. Il guerriero, notò Pavel, non applaudiva ma un luccichio giocava in quei suoi strani occhi.
«Va bene! Ultima canzone, a vostra grande richiesta!» strepitò il bardo.
Persino Pavel riconobbe all’istante l’inizio di Dona un soldo al tuo strigo: aveva perso il conto di quante volte l’avesse sentita negli anni. Doveva ammettere, però, che il bardo ci sapeva fare persino con un grande classico come quello. E lo pensava anche la folla, che non voleva più mollarlo.
«Grazie! Grazie davvero! Ma, per pietà, non mangio da stamattina!»
Con un ultimo inchino svolazzante il bardo balzò giù dal palco, con enorme sbigottimento di Pavel, si diresse spedito nel suo angolo e, ancora più sorprendentemente, sprofondò nella panca accanto al guerriero.
Pavel rimase a guardare sbalordito mentre il bardo trangugiava senza alcuna remora la pinta di birra dell’altro, che avrebbe dovuto essere vuota da un pezzo, vista l’ora.
«Uff, ci voleva proprio. È rimasta della carne?... Grazie, caro».
Il guerriero parlò per la prima volta: «Dovevi proprio finire con quella?» Aveva una voce roca, bassa, e se il tono appariva brusco, Pavel, che poteva definirsi un acuto osservatore e ascoltatore, avvertì l’affetto fare capolino a ogni parola.
«Oh, andiamo. Lo sai che fa sempre piacere alla gente sentirla. Ooooh, quelli sono crauti?»
Il bardo si sbracciò per raggiungere il piatto, quasi arrampicandosi sopra il guerriero; una volta riuscita l’impresa, la sua spalla rimase incollata a quella dell’altro, nonostante la panca fosse tutt’altro che stretta.
«È un classico, Geralt! E la gente apprezza, guarda! Giovanotto!»
Pavel trasalì, un bizzarro miscuglio di paura e vergogna che gli risaliva il petto. La paura veniva dall’essere stato notato, cosa che poteva risultare fatale per lui; la vergogna…
«Giovanotto!» ripeté il bardo, appoggiando un gomito noncurante sulla spalla del vicino. «Vi è piaciuto sentire Dona un soldo al tuo strigo, non è così? Anche se, immagino, l’abbiate sentita innumerevoli volte?»
Il guerriero roteò gli occhi, ma non accennò a spingere via il braccio invadente. Pavel si sentiva molto ottuso, anche se non aveva ancora capito perché.
«Sì» rispose cauto, subodorando una trappola ma non sapendo cosa fare per evitarla o se, effettivamente, tale trappola fosse diretta a lui. «È sicuramente una delle versioni migliori che abbia mai sentito».
Voleva chiaramente fare un complimento, e lo pensava davvero; ci rimase male quando il bardo sgranò gli occhi, un’espressione da pugnalata al petto. La bocca del guerriero si piegò decisamente all’insù e il naso gli si arricciò in un’inequivocabile risata trattenuta.
«Una? Una?! Stai dicendo che hai sentito una versione migliore della mia? Io, che l’ho scritta?!»
Pavel batté le palpebre, instupidito.
«Pensavo che la gente ormai sapesse riconoscermi! Dalla maestria e dalla voce! Scommetto che non hai nemmeno capito che lui è proprio lui, il leggendario Geralt di Rivia!»
«Jaskier» borbottò il guerriero – lo strigo, si corresse Pavel. Certo che ne aveva sentito parlare, e certo che aveva sentito parlare anche del bardo Jaskier, ma…
«Chiedo scusa» farfugliò. «Non intendevo offendere…»
«Ignoralo» tagliò corto lo strigo Geralt. Jaskier rivolse a lui tutta la forza del suo affronto. Rimanevano comunque seduti vicinissimi, un solo piatto condiviso, un ginocchio contro la coscia e dita nervose che tamburellavano sul braccio dell’altro.
Pavel aveva sentito, come chiunque, delle storie sul Lupo Bianco diffuse da Jaskier il bardo. Aveva sentito anche molte storie sul Lupo Bianco e su Jaskier il bardo. Pavel aveva ascoltato, come ascoltava tutto, ma in fin dei conti non gli interessavano troppo: aveva sempre altre cose più importanti a cui fare attenzione, per esempio la ronda delle guardie.
Rimase a osservare quelle due figure quasi leggendarie battibeccare tra loro nella maniera rilassata che Pavel associava ai ricordi che aveva dei propri genitori, quando si conosce a fondo l’altro, e si sa che è più un gioco che una vera discussione.
Il braccio dello strigo, quasi invisibile nella penombra, era scivolato all’indietro, attorno alla schiena del bardo. Gli occhi chiari di Jaskier brillavano alla luce delle candele con lo stesso sguardo, pensò Pavel in un lampo di chiarezza, che aveva dato nella sua ballata al ladro Manisporche.
 
Pavel uscì dalla locanda insieme al grosso della folla, confondendosi in mezzo ad altri giovani. Sulla porta, si voltò per un attimo a guardare: Geralt di Rivia, il temibile strigo, era rilassato contro il muro e sembrava appisolato; ciocche di capelli bianchi si riversavano sulla spalla di Jaskier. Questi strimpellava il liuto piano, gli occhi persi nel vuoto.
Erano rimasti quasi soli nella sala, loro, qualcuno che non aveva voglia di tornare a casa o che già russava e la cameriera che raccoglieva piatti e boccali sparsi in giro.
L’ultima immagine che Pavel ebbe di loro, prima che la gente lo trascinasse con sé, fu un bacio distratto premute tra le ciocche candide e note tenere e sommesse quanto dita intrecciate sotto un tavolo.
  
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