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Autore: ROSA66    21/12/2021    2 recensioni
Questa storia partecipa al contest "Paradiso, Purgatorio, Inferno" indetto da mystery_koopa sul Forum di EFP
Marsiglia, 1815. Alla vigilia del ritorno in Francia di Napoleone Bonaparte, in procinto di fuggire dall'isola d'Elba, la vita di Marguerite è apparentemente perfetta. Ha lottato duramente per acquisire quel prestigio sociale e quella ricchezza che l'hanno resa una delle donne più in vista della città. Ma il destino è in agguato, e il passato rischia di farle perdere tutto quanto, mettendo in pericolo anche il suo matrimonio con Gustave.
Genere: Drammatico, Malinconico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Rivoluzione francese/Terrore, Periodo Napoleonico
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Mea culpa
 
We smoked the screen to make it what it was to be
Not to know it in my memory
 And at once I knew I was not magnificent
Strayed above the highway aisle
(Jagged vacance, thick with ice)
I could see for miles, miles, miles
“Holocene”- Bon Iver
 
Marsiglia, 1815
Marguerite si adagiò sulla chaise long della sua stanza da letto, spiluccando con annoiata lentezza alcuni acini d’uva presi da una fruttiera dorata. La dolcezza le inondò la bocca, donandole un vago senso di piacere.
Era così che amava iniziare le sue giornate, con il sole che, filtrando attraverso le tende, illuminava l’ambiente con il suo calore, esaltando il giallo della tappezzeria e degli arredi.  Adorava circondarsi di quel colore in tutte le sue sfumature, dal crema delle lenzuola e delle tende, all’ocra delle mantovane e del copriletto, perché le donava serenità e leggerezza.
Si guardò intorno. Quella camera, come il resto della residenza, era il tripudio di un’ostentata raffinatezza per mostrare agli altri – e ricordare a sé stessa – ciò che era diventata a prezzo di numerosi sacrifici.
Per tutta la sua esistenza aveva lavorato duramente, lasciandosi alle spalle un passato di dolore e privazioni che sentiva ancora sulla pelle e nel cuore.
Rabbrividì, chiudendo gli occhi al ricordo che la portò lontano, a ventidue anni prima. Come un sogno, rivide una Parigi cupa e nera, massacrata da un’ondata di terrore che non distingueva più vittime e carnefici, tutti colpevoli di qualcosa. Amare troppo la Francia, o amarla troppo poco, erano considerati crimini in egual misura e si poteva essere giustiziati per un semplice sospetto come il peggior traditore della Patria.
 
La lama insanguinata della ghigliottina era sempre lì, in bella mostra, splendendo di sinistro piacere. E quando calava, quel rumore crudo mozzava le teste e i respiri, gelando tutta l’aria intorno.
Un attimo per gettare via il cadavere, ed era di nuovo pronta.
«Avanti un altro», pareva sibilare compiaciuta alla folla.
 
Il cuore di Marguerite ebbe un sussulto ripensando agli occhi di suo padre Guillame – quasi una muta richiesta di perdono – la notte in cui lo portarono via con l’accusa di aver cospirato contro il Comitato di Salute Pubblica. Era un povero oste, la cui unica colpa era stata quella di servire un pasto a due sconosciuti, identificati poi come coloro che stavano pianificando l’uccisione di Robespierre.
Una parola di troppo, sussurrata sottovoce da uno degli avventori, e per lui fu la fine.
 
«Prendetelo, sta scappando!» Il tentativo di fuggire con Marguerite attraverso i tetti si rivelò un fallimento. «Vattene, Marguerite, vai da zio Xavier!» le sussurrò disperato guardandola per un’ultima volta prima che la bambina, gli occhi pieni di pianto, annuisse e si infilasse nell’abbaino della casa vicina.
 
Non lo rivide mai più.
All’alba era già fuori Parigi, portata a peso da suo zio Xavier lontano da quella città e dall’orrore indicibile di cui era diventata simbolo. Scalciava come un animale selvaggio mentre veniva issata sul carretto malmesso che li portava verso il sud del paese, in Provenza, dove si nascosero in attesa di tempi migliori.
Una lacrima solitaria si fermò tra le ciglia scure: aveva soltanto sei anni, ma le immagini di quanto accaduto le tornavano sovente, invadendo i suoi sogni con particolari sempre diversi.
Rivedeva il volto incredulo di suo padre, quegli occhi ambrati, così simili ai suoi, annichiliti dalla consapevolezza che tutto, ormai, era perduto: i loro ideali di libertà, fraternità e uguaglianza erano annegati in un bagno di sangue, traditi dalle stesse persone che li avevano tanto osannati, oscurati dall’eclissi totale della ragione.
Marguerite sussultò al ricordo: sentì dentro di sé le risate sguaiate delle guardie, e rivide i loro sguardi luciferini al pensiero dell’ennesima esecuzione.
Era una ferita ancora aperta, e non si sarebbe più rimarginata.  
 
Con un gesto elegante si alzò, stringendosi addosso la vestaglia da camera, e si diresse alla toilette piena di creme e unguenti costosi, fermandosi ad annusare le splendide rose Tea che tutte le mattine Lisette, la sua cameriera personale, sistemava con cura in un grande vaso di ceramica.
Erano di un delicato color giallo chiaro, profumatissime, e venivano appositamente comprate per lei al Porto Vecchio.
Le sue preferite.
Accarezzò il morbido velluto di un petalo con la punta dell’indice, sorprendendosi ogni volta per quelle meraviglie della natura. Quel giorno la tonalità era perfetta.
Le ricordavano il periodo trascorso in Provenza.
 
Distese immense di girasoli in cui annegava, stordita da quel mare di fiori gialli. La mente si perdeva dietro fantasie invisibili, lontana dalla realtà, lontana da Parigi, lontana dai ricordi.
 
Lo zio Xavier, provato dagli orrori di Parigi che gli avevano massacrato la mente, era incapace di mantenersi un lavoro per più di due settimane.
Xavier le fou, lo chiamavano tutti. E così Madame la Pouvreté divenne la loro inseparabile compagna di vita.
 
Arrivata davanti alla toilette, si fermò ad ammirare il proprio riflesso: non era una bellezza classica, con gli occhi piccoli e i lineamenti un po’ troppo spigolosi, ma il caldo colore ambrato delle sue iridi e la bocca rosea ben delineata, schiusa su una chiostra di denti bianchissimi, attiravano l’attenzione degli uomini di ogni estrazione. Marguerite aveva il fascino della donna forte, determinata e volitiva, e ne era perfettamente consapevole.
Tutto ciò che possedeva, i privilegi che le erano stati concessi e il prestigio di una posizione sociale invidiabile, li aveva guadagnati con grande ostinazione: si sentiva potente­ – magnifica quasi – ma il difficile, si diceva spesso, risiedeva nel mantenersi a galla.
Non sarebbe affogata più.
 
Sull’onda dei ricordi, aprì con mano incerta un cassettino. Dentro vi era un libricino nero dalle preziose rifiniture dorate. Lo guardò con occhi tremanti, prima di prenderlo con quella delicatezza che si riserva alle cose importanti. Lo teneva nascosto, lontano dagli sguardi indiscreti di cameriere e soprattutto di Gustave, suo marito.
Gustave era il suo presente, l’uomo che l’aveva salvata da una vita di povertà e stenti, senza chiederle null’ altro che stargli vicino e volergli bene.
E lei non avrebbe mai tradito la sua fiducia.
Però…
Tornò a fissare il piccolo libretto e, dopo aver esitato alcuni istanti, lo aprì.
All’interno delle pagine invecchiate vi era una piccola margherita gialla, ormai completamente secca, i piccoli petali crepati dal tempo, e un biglietto scritto con una grafia elegante.
 
Sei la mia margherita, per sempre.
Non dimenticarmi.
P.    
 
Quel ricordo apparteneva a un’epoca lontana, a cui aveva detto addio da tempo. Ma il suo cuore sembrò sbriciolarsi, e Marguerite non aveva idea di come rimettere insieme quei minuscoli frammenti che si disperdevano ogni volta che lo prendeva in mano. Con uno scatto improvviso lo richiuse e, dopo averlo sigillato con un bacio a fior di labbra sulla copertina in pelle, lo mise nuovamente nel cassetto.
 
Un lieve bussare alla porta la riscosse dai suoi pensieri.
«Buongiorno Marguerite, siete sveglia? Posso entrare?» la voce ovattata di suo marito le arrivò attraverso il legno.
«Entrate Gustave, sono in piedi» rispose, alzando leggermente la voce per farsi sentire.
L’uscio venne aperto con delicatezza, e un uomo sorridente entrò nella stanza.
«Siete splendida, Marguerite», disse prendendole la mano, «spero abbiate riposato bene stanotte», continuò mentre le lasciava un lieve bacio sulle dita, con quel suo modo da perfetto gentiluomo che la donna amava tanto.
«E voi siete un bugiardo adorabile». Il sorriso che gli rivolse era tutto per lui.
«State uscendo?» chiese, notando come fosse vestito di tutto punto per andare a cavallo. Gustave Lagardiere era un uomo di bell’aspetto nonostante i suoi quarant’anni già compiuti, con due occhi sinceri, limpidi come il cielo d’estate e un portamento elegante ma, soprattutto, era un uomo di cuore e un lavoratore instancabile.
Destinatario di un piccolo capitale ereditato alla morte del padre, Gustave non si era arreso a vivere di rendita come la maggior parte degli altri benestanti di sua conoscenza ma, complice un innegabile fiuto per gli affari, aveva deciso di utilizzare il suo denaro per creare una società mercantile, ora tra le più fiorenti di Marsiglia.
Marguerite l’aveva conosciuto dieci anni prima quando, cercando di racimolare qualche soldo, bussava quotidianamente alla sua porta per consegnargli il pesce fresco acquistato al Porto Vecchio. Seppur con i vestiti laceri, Gustave rimase incantato dalla fierezza e dal contegno di quella giovane, quasi non volesse cedere al destino di povertà in cui era piombata suo malgrado.
Decise di prenderla a servizio, affiancandola alla vecchia Marie, la governante di quando era bambino. La vestì, le fece dare un’istruzione, all’epoca preclusa alle classi meno abbienti, e le insegnò tutto. Marguerite possedeva un’intelligenza spiccata e un savoir faire invidiabile.
A poco a poco, se ne innamorò, e le chiese di sposarlo.
Nonostante la differenza di età, Marguerite accettò di buon grado: conosceva i sentimenti dell’uomo per lei e sentiva che, anche se non lo amava, aveva già imparato a volergli bene.
Per lei era il riscatto che desiderava da tempo verso quel mondo che l’aveva ingannata, togliendole quanto di più caro aveva avuto.
 
«Sì, mia cara. Sto andando a una… riunione. Ma non preoccupatevi, sarò puntuale per la festa di stasera. Non vorrei che qualcuno rapisse la mia bella e giovane moglie», le disse con un sorrisetto complice. Scherzavano spesso sulla loro differenza d’età, ma nessuno dei due aveva mai dato modo all’altro di dubitare della fedeltà reciproca. Gustave la guardò con occhi innamorati: quella giovane era un’emozione costante per il suo cuore, la sua unica passione.
No, non l’unica. Il suo animo bonapartista anelava ancora il ritorno di quello che, per lui, era l’unico sovrano possibile per la Francia, un condottiero geniale e formidabile, capace di imprese straordinarie come non si vedevano da secoli.
In quel momento, però, Napoleone era recluso in un’isola dell’arcipelago toscano, lontano miglia e miglia dalla Francia e da tutti coloro che, come lui, speravano tanto di vederlo nuovamente sul trono francese. Non come Luigi XVIII, il Borbone inetto e conservatore che, con un colpo di spugna, aveva cancellato tutte le libertà conquistate con la Rivoluzione.
Il suo volto si rabbuiò al solo pensiero, mentre Marguerite lo fissava con sguardo incuriosito e un sopracciglio alzato. Gustave accennò un sorriso.
«Sta tornando, Marguerite», disse mentre le prendeva una mano, stringendo quelle dita sottili fra le sue.
«Sta tornando» ripeté, più serio questa volta, poi la salutò con un baciamano impeccabile, e uscì dalla stanza. Una sensazione indefinita di ansia, una tristezza improvvisa, quasi un’inquietante dejà-vu, le inondò il petto.
«Siate prudente, Gustave», mormorò la giovane col cuore gonfio.
 Ma le rispose solo il silenzio.
 
 
Quella sera la residenza dei Lagardiere era scintillante di luci. Mille e mille candele regalavano un’atmosfera carica di magia. Ovunque era un tripudio di rose Tea, i cui petali carnosi e perfetti ostentavano magnificenza e ricchezza, segno che i padroni di casa erano tra i più facoltosi di Marsiglia.
Marguerite indossava uno splendido abito tagliato sotto il seno, all’ultima moda, in seta di Lione color giallo oro, con una scollatura generosa ma non volgare e le maniche a palloncino. Lunghi guanti sopra il gomito e piccoli diamanti tra i capelli completavano il suo abbigliamento. La donna sorrideva amabilmente a tutti gli invitati, riservando una parola gentile a ogni ospite che entrava nella sua dimora.
I domestici servivano senza sosta champagne in raffinati flute di cristallo, scivolando tra i vari ospiti, mentre prelibatezze d’ogni genere venivano portate sui buffet riccamente addobbati. La padrona di casa era soddisfatta: quella festa avrebbe aumentato il prestigio dei Lagardiere, ne era sicura, e a giudicare dai luminosi sorrisi di compiacimento che le riservava la maggior parte degli invitati di sesso maschile, il merito era quasi tutto suo.
Stava salutando la contessa de la Tour, quando una voce melliflua e sgradevole alle sue spalle le smorzò il sorriso.
«Stasera siete una visione, madame Lagardiere». Il colonnello Duchamps, comandante delle guardie della Prefettura di Marsiglia, l’aveva raggiunta, fissando con insistenza i suoi occhi porcini e lascivi sull’esile figura della donna. Marguerite rabbrividì. Pareva volesse spogliarla con la sola forza dello sguardo. Quell’uomo non le era mai piaciuto, e ogni volta che lo vedeva, il suo sesto senso – affinato dopo anni e anni di quotidiana lotta per sopravvivere nei bassifondi marsigliesi – le suggeriva di stargli alla larga.
Era un uomo molto potente, e anche molto pericoloso.
Facendo buon viso a cattivo gioco, Marguerite si sforzò di sorridere e, allungando la mano verso di lui, lasciò che ne baciasse il dorso, resistendo all’impulso di graffiargli quel viso che le suscitava solo disgusto.
«Colonnello, che piacere vedervi», cercando di mascherare il disagio che quell’uomo le provocava, Marguerite ritrasse la mano, «sono veramente onorata che abbiate accolto il nostro invito». L’uomo drizzò ancora di più le spalle gonfiando il petto, compiaciuto dell’attenzione che gli stava dedicando la padrona di casa.
«Non potevo rifiutare. In questo periodo sono impegnato con una missione importante che mi lascia poco spazio per le occasioni mondane, mia cara, ma questa festa era imperdibile», rispose, avvicinandosi a una distanza che le risultava soffocante, «almeno per me, Madame».
Il suo odore, un misto di tabacco e di qualche altra cosa che non seppe identificare, le inondò le narici, facendola allontanare il minimo necessario per sentirsi un po’ più al sicuro da quell’essere spregevole. Il gesto non sfuggì all’ufficiale. La sua espressione mutò e un ghigno malefico si disegnò sulle sue labbra.
«Sapete, pare che in giro ci siano ancora persone che vogliono il ritorno di quell’insulso nano corso. Ma io sono sulle loro tracce. È solo questione di tempo…»
Marguerite rabbrividì. Perché le aveva detto quella frase? Sapeva di Gustave e dei suoi amici? Forse sì, forse no. In ogni caso non poteva correre rischi. Così, sfoggiando il suo miglior sorriso, gli rispose:
«Vi auguro di riuscire nella vostra missione, Colonnello, ma adesso vi prego di scusarmi. Gli altri ospiti reclamano la mia presenza». La giovane accennò un lieve inchino con il capo e si dileguò con eleganza tra la folla.
La serata proseguì tra la musica del quartetto d’archi, che suonava quadriglie e contraddanze, e i fiumi di champagne, versato dai solerti camerieri. A un certo punto, la sua attenzione venne attratta da Lisette, la sua domestica personale, che la cercava con gli occhi con l’evidente intenzione di dirle qualcosa. Così, defilandosi con discrezione, la raggiunse.
«Madame», esordì la ragazza parlando a bassa voce, «hanno portato questo per voi. Mi hanno detto di consegnarvelo subito», e le passò un foglio ripiegato in quattro.
Marguerite indugiò, come se avesse avuto un presentimento: prese quel pezzo di carta e se lo portò al petto, sopra il cuore.
Congedò Lisette con un sorriso per poi appartarsi in un angolo nascosto del salone, dietro una delle immense piante che decoravano la sua casa e, con il cuore in gola, aprì il biglietto.
Non poteva essere vero…
 
Il freddo di metà febbraio le gelava la pelle scoperta, penetrandole nelle ossa, mentre attraversava il giardino quasi correndo, la bella veste di seta che si aggrappava ai cespugli e le scarpette dorate che scivolavano sulla terra umida. L’acconciatura, che la faceva assomigliare a una dea greca, stava sfuggendo dalla costrizione dei fermacapelli d’oro a mano a mano che avanzava, lasciando scivolare sul viso alcune ciocche castane. 
Ma non le importava.
La sua mente non pensava ad altro che al piccolo foglio di carta, e al messaggio scritto sopra:
 
Sono tornato e vorrei tanto vederti.
Ti aspetto al piccolo boschetto vicino al cancello.
Tuo per sempre.
Philippe
 
Philippe.
Philippe.
Philippe.
Il passato, che aveva cercato di relegare in un piccolo cassetto per anni, chiuso dentro un libricino nero dalle decorazioni dorate, era saltato fuori, annullando in un attimo tutti i suoi buoni propositi. Erano bastate poche parole, e di colpo Marguerite si sentì catapultata in un’altra epoca, un altro mondo, un’altra vita.
Com’era possibile che fosse tornato? Da quanto ricordava, era partito per l’America dieci anni prima con pochi spiccioli in tasca e mille sogni per la testa, lasciandole una spiegazione striminzita e il cuore in frantumi.
Philippe, l’amore dei suoi diciotto anni, il ragazzo scanzonato e un po’ malandrino che l’aveva fatta innamorare con i suoi occhi, di un verde così sorprendente da sembrare innaturale, era di nuovo a Marsiglia.
Come aveva fatto a trovarla? Come faceva a sapere del boschetto all’estremità nord della sua residenza? L’aveva spiata? Il solo pensiero le mandò il cuore in subbuglio, facendole accelerare il passo. Non l’aveva dimenticato, no, e come avrebbe potuto?
Un folto insieme di alberi di stagliava al limitare del giardino all’inglese: si trattava per lo più di meli e peschi, voluti da Marguerite per creare un insieme armonico con le piante rampicanti e gli arbusti profumati che coloravano la tenuta dei Lagardiere; poco più avanti aveva fatto costruire un gazebo, sotto cui amava ricevere i suoi ospiti nei caldi pomeriggi estivi e il cui profilo le indicò che era giunta a destinazione. Arrivò con un leggero affanno: non si era fermata da quando aveva letto il biglietto, in casa, e ora faticava a ritrovare il fiato.
La luna illuminava di sublime chiarore quell’angolo di paradiso, e il suo respiro era l’unico rumore che spezzava il silenzio della sera. Nell’attesa, Marguerite poggiò la schiena a una delle colonne del gazebo e, chiudendo gli occhi, si lasciò andare ai ricordi.
 
«Posso aiutarvi, Mademoiselle? Quelle ceste hanno l’aria di essere pesanti». Una voce, profonda e musicale, le arrivò da dietro le spalle mentre, nel tentativo di evitare una pozzanghera che sembrava abbastanza profonda, stava quasi per perdere l’equilibrio.
Marguerite si voltò troppo rapidamente, finendo per sbilanciarsi e andare dritta contro lo sconosciuto. Si ritrovò stretta tra due braccia forti e delicate allo stesso tempo, le mani che le sfioravano la vita sottile. «Non toccatemi!», sibilò rabbiosa, divincolandosi.
Era cresciuta in una lotta continua tra poveri, e aveva imparato a conoscere le lusinghe degli uomini che cercavano di annegare la disperazione e la solitudine con quattro complimenti e uno sguardo di troppo verso ragazze che, come lei, faticavano a mettere insieme il pranzo con la cena.
«Mi dispiace», il tono era rammaricato, «volevo solo aiutarvi, Mademoiselle. Perdonatemi se vi ho offeso». Marguerite alzò lo sguardo verso il volto del giovane, rimanendo di stucco: due occhi di un verde intenso la stavano fissando in modo profondo ed enigmatico. I capelli bruni ricadevano ribelli sulla fronte e sul collo, donandogli un’aria quasi piratesca. Era molto diverso dagli uomini che era abituata a vedere: scaricatori di porto, pescatori, facchini, tutta povera gente che condivideva con lei una vita fatta di espedienti per andare avanti, gente semplice con cui si sentiva in sintonia. Quel giovane, invece, aveva un modo di fare così lontano dal suo vissuto quotidiano, schietto e diretto con tutti, che la disorientava. Non poté non restarne colpita, finendo per fissarlo in maniera imbarazzante tanto che lui, sorridendo, le chiese: “Cosa c’è? Ho qualcosa sul viso?”
Scoppiarono a ridere, gli occhi che non la smettevano di studiarsi e il cuore con qualche battito in più.
«Permettete?» Il giovane le prese dalle mani una delle due ceste. Forse fu la gentilezza con cui accompagnò quel gesto, forse l’atteggiamento di assoluto rispetto nei suoi confronti, a farla cedere. Marguerite era confusa. Dentro di sé sentiva un miscuglio di sentimenti contrastanti, divisa tra la lusinga di essere oggetto delle attenzioni di un ragazzo bello e cortese, e la paura che lui stesse soltanto fingendo.
«Comunque, io sono Philippe de Saint-Yves, al vostro servizio, Mademoiselle», la sua presentazione, impeccabile, fu accompagnata da un leggero inchino con la testa.
«Marguerite, Monsieur».
Il giovane alzò un sopracciglio, leggermente sorpreso.
«Marguerite, siete bella come il fiore di cui portate il nome…»
La giovane abbassò gli occhi, arrossendo imbarazzata per quel complimento semplice e bellissimo. Il suo cuore si sentì all’improvviso più leggero.
 
Marguerite sorrise nel ricordare il loro primo incontro. Era così disillusa dalla vita che Philippe aveva rappresentato una ventata d’aria fresca, un balsamo per quelle ferite dell’anima che ancora si portava dentro, indimenticate e indimenticabili. Nel profondo del proprio essere sapeva che non avrebbe mai più amato nessuno come aveva amato Philippe, anche se spesso si chiedeva, a distanza di anni, se lo avesse capito fino in fondo. Voleva bene a Gustave, suo marito, gli era grata per tutto ciò che aveva fatto per lei, lo apprezzava come compagno e come uomo, ma Philippe era stato quella passione capace di farla sentire incredibilmente viva. Lei gli aveva dato tutta se stessa, anima e corpo, ma sentiva che c’era qualcosa di lui che le sfuggiva.
Chiuse gli occhi, rabbrividendo per il freddo che si stava facendo più pungente, e pensò che avrebbe dovuto prendersi uno scialle di lana.
«Sei sempre la più bella, Marguerite».
Quella voce… l’avrebbe riconosciuta tra milioni.
Aprì le palpebre più lentamente di quello che avrebbe voluto, quasi incredula.
Eccoli, quegli occhi meravigliosi che non si sarebbe mai stancata di contemplare. Sembravano stanchi, come se non avessero riposato da giorni, come se si fossero portati appresso esperienze indicibili, spettatori di chissà quali eventi.
«Philippe», disse Marguerite con un filo di voce, «Philippe, sei qui…»
L’uomo avanzò, un sorriso enigmatico sul viso. Era cambiato, il volto mostrava qualche segno che dieci anni prima non c’era, mentre i capelli scuri non erano più lunghi e ribelli, ma tagliati corti alla moda del tempo. Marguerite pensò che fosse bellissimo.
«Non riesco a credere che tu sia qui, a Marsiglia… Perché non mi hai scritto?» la voce le tremava leggermente dall’emozione; cercò comunque di non scoppiare a piangere.
«Sono successe tante cose, Marguerite, in tutto questo tempo», iniziò a dire fissandola negli occhi, «non capiresti».
«Non mi capiresti», aggiunse con tono sconsolato incurvando di poco le spalle, come oppresse da un peso enorme.
«Potresti provarci» esordì la donna, un po’ risentita. Philippe non poteva dubitare di lei, qualunque cosa gli fosse successa.
«Mi hai lasciato all’improvviso, senza salutarmi né chiedermi di venire con te. Un solo biglietto, Philippe, un solo biglietto miserabile… Come pensi che mi sia sentita?» La giovane avvertiva che tutta la rabbia e la frustrazione accumulate dentro di lei in quei dieci anni stavano per esplodere, collimando con l’amore che, nonostante tutto, ancora provava.
«Marguerite, Marguerite, io… io ti spiegherò tutto. Ma non ora», le rispose carezzandole le braccia con una dolcezza che lei non aveva mai dimenticato. «Ho bisogno d’aiuto. Mi stanno cercando. Devo nascondermi».
A quelle parole, Marguerite spalancò gli occhi. Cosa era successo? Perché Philippe era ricercato? Decine di domande si affollarono nella sua mente, confondendola ancora di più.
«Ma, cosa...» La frase le morì sulle labbra, catturate in un bacio famelico, il corpo stretto tra le braccia di lui, come se temesse che potesse svanire da un momento all’altro. Dopo il primo attimo di smarrimento, Marguerite lasciò che Philippe le esplorasse la bocca, lentamente, assaporando il calore che le era mancato in tutti quegli anni. Non mentì a sé stessa: l’aveva sognato per così tanto tempo che, egoisticamente, lo voleva anche lei.
Si accorse che era naturale baciarlo di nuovo, aggrapparsi a lui come un’ancora di salvezza dalle atrocità del mondo, scoprirlo e lasciarsi scoprire come se fosse la prima volta.
Il suo cuore batteva talmente tanto forte da farle male, mentre la passione cominciò a crescere, divampando in un incendio dalle proporzioni gigantesche: le invase il viso, il petto, le braccia e le gambe, canalizzandosi poi nel basso ventre.
A corto d’aria, Marguerite si staccò, ansante, gli occhi febbricitanti. In un attimo, le venne in mente la dolorosa consapevolezza che fosse una completa follia. Pensò a Gustave, che non meritava quel suo comportamento, un inganno da parte sua. Cercando di districarsi dall’abbraccio dell’uomo, gli soffiò sulle labbra: «Non possiamo… io… sono sposata».
Si fissarono per diversi minuti, il calore ancora sulla pelle, i respiri vicini.
«D’accordo», Philippe annuì, allentando la presa delle sue braccia, «ma puoi nascondermi?» Marguerite sentì di nuovo tanto freddo.
«Voglio sapere cosa hai fatto». Il suo tono deciso non ammetteva repliche.
L’uomo scosse la testa, ghignando appena «Niente di particolare. Ho solo manifestato apertamente le mie idee politiche. Sono stato accusato di volere il ritorno di Napoleone in Francia».
«Cosa? Quindi tu sei…»
«… un fedele bonapartista, sì. Ma la Prefettura di Marsiglia e del resto della Francia sono sulle mie tracce», continuò, «anche adesso».
Marguerite pensò al colonnello Duchamps, che in quel momento di trovava proprio lì, in casa sua, e a cosa sarebbe successo se avesse visto Philippe.
Rabbrividì al solo pensiero.
«Va bene, però non dentro casa. C’è una depandance, dall’altra parte del giardino. Era la vecchia abitazione del custode. È quasi completamente nascosta da piante. Puoi rimanere lì tutto il tempo che vuoi e…» si interruppe, indecisa se dirglielo, «ne parlerò con Gustave, mio marito. Sai…», sospirò, mentre fissava gli alberi del boschetto che, per un attimo,  sembrarono creare ombre sinistre, quasi un presagio di morte. Ignorando il brivido lungo la schiena, la giovane continuò: «… anche lui è devoto a Napoleone. Insieme con altri amici sta organizzando la sua fuga dall’Elba». Marguerite notò un guizzo negli occhi che non riuscì a decifrare, come una scintilla di interesse.
Troppo presa dal ritorno di Philippe, non diede retta al suo sesto senso.
Fu l’inizio della fine.
 
Gustave se ne stava in piedi, gli occhi a fissare un punto imprecisato fuori dalla finestra della stanza da letto di Marguerite, mentre lei gli raccontava tutto. Pareva tranquillo, ma un occhio più attento avrebbe notato il lieve contrarsi della mascella ascoltando come quell’uomo fosse ricomparso nella vita della moglie. La notizia positiva che Philippe fosse un altro sostenitore della causa si scontrava, infatti, con la consapevolezza che costituisse un pericolo per l’integrità del suo matrimonio. Non era uno sciocco, e sapeva perfettamente che Marguerite aveva vissuto un grande amore, prima di sposarlo. Ma pensava che, ormai, il passato fosse morto e sepolto. Invece quell’uomo era tornato.
«Bene», esordì alla fine, «cosa intendete fare, adesso?»
Si girò a guardarla negli occhi. Avrebbe accettato qualsiasi decisione: era troppo innamorato di lei da lasciarla andare, se fosse stato necessario.
Marguerite lo fissò con dolcezza, carezzandogli il volto con la mano.
«Voglio soltanto che lo aiutiate, Gustave, nient’altro. Io sono vostra, ormai. Ho promesso di restare al vostro fianco, per sempre».
Quando le prese la mano per baciarle le dita, il suo cuore si era fatto più leggero.
 
 
Marguerite tornò nei giorni successivi a trovare Philippe nella dependance per portargli da mangiare e un cambio di abiti. Non poteva fidarsi di nessun altro, perché il pericolo che potessero tradirlo era alto. C’era, però qualcosa di diverso in lui, come se, durante tutti quegli anni lontano da Marsiglia, avesse perso la leggerezza di un tempo. Lo vedeva dagli occhi, sempre bellissimi, ma a volte velati da un’ombra scura.
Non gli chiese mai cosa avessero visto, anche se, dentro di sé, avvertiva una nota stonata.
Qualche giorno dopo avrebbe capito che il suo sesto senso non falliva mai.
 
 
Era il sabato mattina successivo, e Marguerite, già sveglia, attendeva che Lisette tornasse dal mercato con le rose Tea. Qualcosa nell’atmosfera la rendeva ansiosa, come l’animale che fiuta il pericolo e si aggira irrequieto e con i sensi all’erta. Mentre beveva il suo the al limone, un lieve tremore della mano la costrinse a poggiare la preziosa porcellana sul piattino, ma lo mancò e la tazza finì a terra, in mille pezzi. Migliaia di schegge si sparsero sul pavimento, mischiandosi con il liquido chiaro.
“Cosa mi succede? C’è qualcosa…”
«Madame… Madame» La porta si spalancò, lasciando entrare una Lisette sconvolta, le guance rosse per la corsa, gli occhi sgranati e la bocca che sembrava trattenersi dal singhiozzare. Tra le braccia teneva stretto un enorme mazzo di rose gialle. «Madame», ansimò, «il padrone…»
A quelle parole Marguerite l’afferrò per le braccia, cercando di farla parlare scuotendola, il cuore che le rimbombava nel petto, «Cos’è successo? Dov’è Gustave? Parla, in nome di Dio!».
«I soldati, Madame, ci sono i soldati giù… lo stanno portando via…» Una lacrima uscì dagli occhi della ragazza che, alle sue stesse parole, iniziò a piangere a dirotto.
Ignorando totalmente il fatto di essere ancora in déshabillé, Marguerite uscì – si precipitò – fuori della sua camera da letto, correndo verso le scale. Tra sé e sé maledisse il fatto che le sue stanze si trovassero, per sua precisa scelta, dal lato opposto dell’ingresso principale: proprio così aveva voluto, per ammirare la vista dello splendido giardino e non essere disturbata dai rumori che provenivano dall’entrata. Non aveva sentito nulla, quella mattina. Magari, se avesse percepito qualcosa, magari…
A mano a mano che si avvicinava alle scale, le arrivavano dei suoni, delle voci concitate. Tante voci. 
“Mio Dio”, pensò col cuore in gola, “fa che non gli sia successo nulla”.
Lo spettacolo che le si presentò appena arrivata all’ingresso la inorridì: davanti a lei una dozzina di soldati avevano bloccato Gustave che si dibatteva come una belva in gabbia. Il volto era tumefatto, una vistosa ferita sulla tempia destra, dalla quale colava sangue lungo la guancia e il collo, macchiandogli la camicia di candido lino. C’era stata un’evidente colluttazione, e Gustave aveva avuto la peggio.
Uno dei soldati lo colpì in testa col calcio del fucile, e l’uomo cadde a terra, tramortito.
«Gustave, no!» gridò Marguerite in preda al terrore, lanciandosi verso gli uomini in divisa che avevano violato la sua casa, la sua famiglia, il suo uomo.
«Madame Lagardiere, mi dispiace per questo brusco risveglio», il colonnello Duchamps le si parò davanti, strattonandole un braccio per fermarla, «ma, come vedete, il dovere non può aspettare». Nonostante il tono lezioso, non c’era traccia di bontà nella sua voce, mentre un sorriso artefatto gli comparve sul viso. «Vostro marito è un traditore della Patria e da voi…» sottolineò il voi fissandola con sguardo disgustato, «mi sarei aspettato più devozione verso la Francia. Ma, per fortuna, esistono ancora uomini leali». L’ufficiale girò la testa verso uno dei soldati che aveva un aspetto familiare. Marguerite seguì il suo sguardo, scoprendo un paio di occhi verdi che la stavano fissando.
“Non può essere, sto sognando… è un incubo…”
Philippe, con la divisa dell’esercito francese, era lì, in mezzo a quei soldati, e la guardava con un’espressione di vittoria sul volto.
«Tu», Marguerite sentì montarle un sentimento di rabbia, «maledetto… hai tradito la mia fiducia, la nostra fiducia… Come hai potuto?» Con gli occhi iniettati di sangue si avvicinò all’uomo che aveva amato tanto in passato ma che – se ne stava rendendo conto solo in quel momento – non aveva mai conosciuto veramente.
Cercò di colpirlo scagliandosi contro di lui, inferocita, ma la presa d’acciaio del colonnello la bloccò.
Philippe ghignò, «Te l’avevo detto che non avresti capito…». Un ultimo sguardo, e se ne andò con gli altri soldati che stavano trasportando di peso il corpo tramortito di Gustave.
Marguerite era annichilita.
Tutto il suo mondo era crollato un’altra volta, si era frantumato in dieci, cento, mille pezzi, come la tazza da the che ancora giaceva sul pavimento della sua camera.
Un opprimente senso di déja-vu la invase, paralizzandole le gambe. Si era sentita potente, magnifica, e ora era caduta nuovamente nel fango.
Ed era tutta colpa sua.
 
And at once I knew I was not magnificent
 
Il colonnello Duchamps, che le teneva ancora il braccio, si chinò fino a sfiorarle l’orecchio con le labbra. «Tornerò, Madame, molto presto tornerò».
Rabbrividendo per il disgusto che quell’uomo le provocava ogni volta che le stava vicino, Marguerite si divincolò dalla presa e lo fissò, uno sguardo di sfida nei suoi occhi fieri.
Non poteva soccombere ancora all’arroganza di chi usava la violenza contro la ragione, spezzando le ali della libertà.
Avrebbe trovato il modo di aiutare Gustave, a costo di corrompere l’intero esercito francese.
Sarebbe risorta. Per non cadere mai più.     
 
 
 
 
 
Nota dell’autrice:
Questa storia partecipa al contest "Paradiso, Purgatorio, Inferno" indetto da mystery_koopa sul Forum di EFP.
Il contesto, storico, è quello antecedente il ritorno in Francia di Napoleone Bonaparte in esilio all’Elba. La canzone che mi è capitata, e che ispira questo testo, è “Holocene” di Bon Iver: spero di averla resa al meglio.
Il prompt era: inganno.
I nomi dei personaggi sono tutti originali, e qualsiasi riferimento a persone, fatti ed episodi veri, è puramente casuale e non voluto.
Il titolo, “Mea culpa”, mi ricorda un romanzo d’amore che lessi quando ero piccola, anche se non rammento l’autore.
Ringrazio tutti coloro che sono riusciti ad arrivare fin qui, digerendo ben 5360 parole.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
  
 
 
 
 
 
 
 
 
  
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