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Autore: time_wings    22/12/2021    2 recensioni
La finestra della cucina di Sakusa affaccia su quella di Atsumu e fuori fa freddo.
Nonostante le giornate sempre più corte, la luce si farà strada tra tazze di tè a orari improbabili e lezioni private sull'uso corretto delle tende.
In cui Sakusa non esiste e Atsumu esiste quattro volte.
[Questa storia partecipa all'iniziativa "Calendario dell'avvento" indetta da Coraline sul forum "Ferisce la penna"]
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Atsumu Miya, Kiyoomi Sakusa
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Riflessione, rifrazione e altre forme di autotortura






Le luci sono calde, si accendono all’improvviso, rimbalzano sui maglioni intrecciati, pregni d’inverno e di freddo e di paura di congelare. Ma il gelo è scomparso, il radiatore dev’essere da qualche parte in un angolo. Diffonde il suo calore quanto basta per venire dimenticato.
Lo sconosciuto dice qualcosa, le labbra parlano una lingua inudibile. Poi si sfila il maglione ed è pelle su pelle. Le scapole seguono quel movimento in un’onda perfetta, una mappa di nei si dispiega alla luce del lampadario che pende dal soffitto. Un bacio bagnato sul collo lo costringe a reclinare il capo all’indietro. Ha gli occhi chiusi e sembra che la vita l’abbia scelto e baciato per prima, in una cascata di fortune, una pila di regali sotto un albero dal diametro infinito.
Se a Sakusa non facesse vagamente schifo, resterebbe a guardare il vicino che scopa davanti alla finestra, così distratto, così sicuro, da concedersi il lusso di dimenticare di tirare le tende.
Ma a Sakusa fa vagamente schifo. E non ha voglia di passare per il tipo strano dal gusto perverso per questo genere di intrattenimento. Nessuno lo penserebbe, a dire il vero, perché nessuno lo vedrebbe guardare, visto che lui non esiste, ma non potrebbe vivere con se stesso.
Così chiude le sue, di tende, e torna a sedersi alla scrivania. Raggiunge le viti più lontane e le spinge indietro, affinché il piano si inclini, poi vi stende sopra un foglio ampio, immacolato. Poggia perpendicolarmente la punta della matita, la lampada getta la luce giusta, un cerchio di fuoco crudele nella sua chiarezza. Se sbaglia, lui illuminerà l’errore. In quell’istante, alla sua sinistra, il vicino sospira. Forse geme proprio, è difficile dirlo, perché ci sono strati e strati di mura tra loro. Il suono dovrebbe incagliarsi da qualche parte tra i vetri e il vento che li separa, e invece lo raggiunge.
Sakusa sbuffa. Non è quel tipo di vicino intollerante. Glielo perdonerebbe se si fosse degnato di tirare le tende, ma è una questione di principio. Non ha tirato le tende, crede di poter fare tutto il rumore che vuole, poi se a Sakusa sfugge una tazza di mano, in altri giorni e in altri contesti, lui lo sente e si mette a guardarlo.
Lui lo vede. Ma Sakusa non esiste.
Sul suo foglio illuminato, abbozza il profilo di un giardino. La prospettiva va aggiustata, ma può farlo più avanti, quando avrà più chiaro il quadro completo.

 
Atsumu alza la testa e sono già le due del mattino. A stento distingue il fumo nella sua tazza arricciarsi verso l’alto, in un contrasto lattiginoso col buio che lo circonda. La cucina è piena di tutti quei riflessi sorprendenti che la notte mette in risalto. Di giorno ce ne sono di più impellenti, di giorno questi si nascondono per far posto a luci dirette e raggi decisi come riflettori. All’altro capo della finestra, il suo vicino – si chiama Sakusa, l’ha letto sulla targhetta – alza lo sguardo in riflessione e si porta una tazza fumante alle labbra.
Atsumu abbassa il capo, entrambe le mani strette attorno alla tazza, lo guarda prendere un sorso e appoggiare la testa allo schienale della sedia. La lampada da scrivania alle sue spalle concede ad Atsumu il lusso del suo corpo in ombra. Segue con gli occhi il pomo d’Adamo, i tratti spigolosi di chi non è mai stato smussato. Distingue solo una goccia di luce sulle labbra, il riflesso di qualcosa negli occhi e l’ombra che si infila tra i capelli, disegnandone nuovamente i ricci.
A volte lo guarda perché sembra quasi un segreto e la cosa più affascinante dei segreti è che sono sinceri, di un’onestà brutale che si tende a nascondere per inclinazione naturale. A volte lo guarda perché la solitudine è più straziante quando viene vista. Ad Atsumu mancano entrambe le cose: la sincerità e la solitudine. 
Ma quel ragazzo non esiste. Atsumu non sa niente su di lui, eppure sa che il tavolo nella sua cucina si trasforma in una scrivania inclinata. Sa che se non ci sono tempere è perché disegna palazzi, non ritratti. Sa che dorme spesso con una maglietta grigia. Sa quale marca di caffè preferisce. Sa che un po’ si incazza con lui quando porta qualcuno a casa e si dimentica di tirare le tende. Sa che non l’ha mai visto portare qualcuno a casa, indipendentemente dalle tende. Sa che a volte si addormenta sui suoi progetti. Una volta l’ha visto prendersi la testa tra le mani, la manifestazione emotiva più evidente che gli avesse mai visto indosso. Quella volta, Atsumu aveva sperato che piangesse. Non sapeva bene perché.
Atsumu sa che a volte va a letto tardi come lui, e in quelle notti si scambiano uno sguardo, un brindisi che non contempla bicchieri levati in alto, solo uno sguardo. Uno di quelli da sconosciuti in metropolitana, uno di quelli che sembra dire ‘esisti solo nel tempo in cui ti guardo’.
Ma Sakusa esiste sempre.

 
Kiyoomi Sakusa è matto da legare.
Matto di quel tipo di follia caotica e disfunzionale che porta le persone a fare la doccia alle tre del mattino e mandare a puttane i bioritmi. Per rimanere in tema, Kiyoomi Sakusa dice una marea di parolacce. Lui la chiama ‘la caduta dei tranquilli’.
Con gli schemi succede spesso così: quelli più elastici, se cadono, non si fanno male. Ma uno schema di cristallo, dopo, è da buttare. Ci sono dei momenti in cui un passo indietro nella lotta alla perfezione genera un effetto a cascata, il caos si insinua nel sistema con legge esponenziale e dopo non c’è più nulla che sappia riportarlo sulla retta via.
L’unica è resettarlo.
Kiyoomi Sakusa, stranamente però, è famoso per essere pazzo, ma non matto.
Pazzo di quel tipo di pazzia da perplessità sociale. Di quella che se dici che ti fa schifo al cazzo di bere dalla cannuccia del tuo amico, la gente aggrotta la fronte e si chiede in segreto se scopi. Poi trova il modo di chiedertelo ad alta voce e ti dà dell’ipocrita se dici di sì e ti dà dello sfigato se dici di no, come se il terrore del contatto l’avesse scelto al mercato dei tratti di personalità. Come se fosse un tratto di personalità, come se a fargli schifo fosse solo la sporcizia e non altre declinazioni di ‘marcio’. Eppure non c’è tosse di estraneo in faccia che possa competere con quello in cui si sa trasformare la sua testa, se un pensiero trova la giusta frequenza.
Se c’è qualcosa che Sakusa odia di se stesso non è la stretta di mano che gli fa schifo dare, ma è la perdita di rotta.
Ed è per questo che sono le tre e mezza del pomeriggio, quando un suono secco finalmente lo distrae. Lancia uno sguardo alla sveglia vicino alle pentole di rame (è un tipo pulito e ordinato, ma non nel senso convenzionale dei termini) ed è così che scopre che ha passato cinque ore e mezza su quel progetto, che era stato così assorbito da quella roba sul tavolo inclinato da non essere certo di ricordare cosa sia, ora che si è finalmente distratto. Sa solo che non aveva altra possibilità che essere perfetto, e quindi ha finito per perderci dietro un po’ di se stesso e darlo al progetto.
Il rumore si ripete, viene dalla finestra alla sua sinistra.
Kiyoomi Sakusa è matto da legare.
Matto di quel tipo di follia caotica e disfunzionale, sì, ma non matto in quella maniera imprevedibile che non si può, in nessun modo e con nessuna formula, spiegare. Se c’è un tipo di follia che dovrebbe essere bandita dalla faccia del pianeta è proprio quella, e a quanto pare ne è affetto in grave forma il vicino delle tazze fumanti alle due del mattino.
Gli sta lanciando degli acini di uva sui vetri.
Detta così fa un po’ ridere, ha il retrogusto di proverbio, più che di letterale avvenimento.
E invece un altro acino d’uva si scontra con la sua finestra e macchia il vetro di una polpa trasparente che distorce ciò che inquadra. Sakusa guarda attraverso due strati di finestre e incrocia lo sguardo di Miya – l’ha letto sulla targhetta –, poi aggrotta la fronte.
Sakusa non sa molto su di lui. Della sua vita non ha visto altro che ciò che la cornice della sua finestra gli mostra ogni volta che butta l’occhio. Stranamente, questo basta a volte per costituire un segreto.
Miya è arrivato quasi al filtro di una sigaretta tutta storta e, con la mano destra, mangia gli acini che non lancia sulla sua finestra.
Quando prende coscienza del loro contatto visivo, indica la ciotola in cui c’è la sua uva due volte, poi lo stesso dito lo picchietta tre volte sul polso della mano con cui sta fumando, simulando un orologio. Dopo, perché il teatro muto non può durare mai poco, lo indica con un cenno del capo.
Kiyoomi Sakusa è matto da legare, ma è intelligente. Il messaggio si traduce in maniera rudimentale così: cibo-tardi-tu, perché per qualche strana ragione Miya si è accorto che sono le tre e mezza e non ha mangiato.
Sakusa scrolla le spalle perché, a essere del tutto onesti, non gliene può fregar di meno delle preoccupazioni del vicino per la sua alimentazione.
Miya sgrana gli occhi e inizia a scuotere il capo moooolto lentamente, è un segnale piccolo ma inconfondibile che fa capire a Sakusa che lo sta prendendo in giro. Ne è certo quando gli sorride appena, un accenno di curva sulle labbra che lo lascia confuso. E la confusione pure lo lascia confuso.
Poi ancora (incredibile quanto si possa essere loquaci senza spiccicare parola), Miya indica insistentemente la maniglia della sua finestra, in una richiesta di comunicazione più efficiente e adatta all’homo sapiens sapiens. Sakusa aggrotta la fronte e, incurante, nega con la testa, poi abbassa gli occhi su un progetto che adesso gli sembra di aver toccato cinquant’anni fa.
Un nuovo acino d’uva si infrange sulla sua finestra. Miya ora sta alzando la ciotola e gli sta offrendo la sua frutta. Ha sempre quella faccia… come si dice? Quella faccia così. Quel tipo di faccia che, insomma, hai capito, no? Ah, sì, quella faccia di cazzo. Gli sorride, sempre furbo, gli angoli delle labbra piegati ad angolo disonesto. Però poi Sakusa si alza e vede (è inconfondibile, non c’è modo di sbagliarsi) che negli occhi del vicino s’è accesa una speranza. Sakusa è così esperto in fatto di speranza che ormai sa esattamente come s’ammazza e quindi tira le tende (lui lo sa fare) e non ha il tempo di vedere che faccia ha fatto il vicino.

 
Atsumu Miya è strano forte.
È troppo orgoglioso anche solo per sfiorare l’idea che qualcuno possa chiudergli una porta in faccia. Ma se questa porta gli viene chiusa in faccia in un determinato modo (non ha capito se dipenda dal suo umore o da incontrollabili fattori esterni), lui non farà altro che persistere come un picchio nella stagione degli amori.
In questo caso la porta è una tenda.
Fuori fa freddo, il numero di persone affaccendate che balzano da un angolo all’altro della città è aumentato con una rapidità sorprendente. Sembra che nell’aria si attardi sempre una canzone di Natale, abbandonata in uno speaker in un centro commerciale, distorta dal filtro elettronico di un servizio telefonico quando chiede all’utente di attendere in linea. C’è questa sorta di seminazione generale del Natale, che s’impenna in un giorno solo, resta costante per tutto il periodo delle feste e vola in picchiata in un altro giorno solo, alla fine.
È affascinante, ad Atsumu non dispiace, anzi solitamente ruba occhiate alle finestre degli altri. La sua finestra preferita è uno studio-cucina. La mensola con le pentole ha una catena di lucine dal colore caldo e un angolo della stanza ospita una specie di abete in miniatura, vivo, che ha un grappolo di luce in cima e ricorda più una pianta qualunque illuminata che un albero di Natale. Atsumu ci è andato giù un po’ più pesante, ma la cucina non ne porta i segni e Sakusa, ora che ci pensa, non può vederli.
Sono di nuovo le due del mattino e là fuori la temperatura è scesa al punto che i vetri della sua finestra sono appannati. Un sottile strato di condensa gli impedisce di distinguere dettagli con una risoluzione maggiore di una sagoma, ma Atsumu vede la luce soffusa della lampada del vicino attraversare i pochi metri che li separano. 
Senza pensarci troppo, si alza e si avvicina alla sua finestra.
C’è silenzio e Atsumu lo detesta. Ha una qualità sgranata, il tipo di ruvidità di una gola riarsa. Forse crede che non possa scappare da tutti i lati di sé che riesce a nascondere quando non è solo, che questi invece eruttino in una specie di essenza in cui si riconosce – perché è sua – ma che non è tutto.
Atsumu appartiene a quella categoria di persone che crede che diventiamo ciò che chiedono gli occhi di chi desideriamo compiacere e quindi, quando si guarda allo specchio, a volte non si sente all’altezza della vita che il ragazzo che lo fissa gli sta chiedendo.
Perché alle persone più sicure del mondo a volte succede così. Per essere i più belli, i più bravi, i più felici, i più riusciti finiscono per essere i più tristi. L’ambizione è un gioco pericoloso e non sa chi gliel’abbia insegnato; se sia stato Osamu, se sia stato lui stesso, se siano state tutte le persone che nel tempo si sono rivolte a loro come ‘i gemelli’, dando per scontato che per distinguerli dovessero eleggere il più qualcosa.
Un’identità spezzata in tre: se stesso, suo fratello e il suo riflesso. In quattro, se anche Osamu si sente come lui.
Quindi Atsumu è costretto a essere il migliore. Il migliore dei quattro, il migliore del mondo intero, ormai la differenza non esiste più e lo è diventato perché ancora ricorda come si è sentito la prima volta che non è stato all’altezza. Anche se al tempo è stato un misero calcio a un pallone.
Questo è il sapore di quel silenzio.
Tè? scrive Atsumu con il dito sul vetro appannato, perché proprio non riesce a controllarsi. Poi, con la manica della sua felpa, elimina la condensa sull’anta destra per guardare la finestra del vicino e lascia la sinistra intatta, per continuare a scrivere.
Stai scrivendo al contrario, gli risponde dopo qualche secondo lui. Sakusa non gli sta sorridendo, il che rende il messaggio vagamente derisorio.
Atsumu non la prende sul personale. In realtà fare colpo su di lui adesso è venti volte più eccitante. Non hai risposto, dice, continuando imperterrito a scrivere al contrario.
Vede Sakusa distogliere lo sguardo e puntarlo da qualche parte su una mensola che Atsumu non può vedere, perché è inchiodata allo stesso muro su cui si trova la finestra. Poi, però, torna con gli occhi su di lui e scrolla le spalle, annuendo appena.
Atsumu inclina il viso su un lato, si concede un attimo per guardarlo ora che non è inspiegabilmente agguerrito nella rincorsa a un rifiuto di ogni proposta. Quando Sakusa aggrotta la fronte e lo guarda male, Atsumu annuisce a sua volta e si alza giusto il tempo di mettere su il bollitore. Nel mentre, si accerta che il vicino faccia lo stesso.
Qualche minuto dopo, si trovano di nuovo entrambi davanti alla finestra, le sedie rivolte verso l’altro e una tazza fumante tra le mani.
Nome??, scrive Atsumu, prendendo un sorso.
Kiyoomi risponde lui. Si morde il labbro, combattuto, poi aggiunge: il tuo?
Atsumu.
E l’altro?
Atsumu si porta una mano al petto, fingendo offesa, e scrive, nella condensa sempre più bagnata e meno adatta alla scrittura: Osamu. Che ne sai?
Sempre in cucina è la risposta semplice di Sakusa.
Atsumu annuisce e alza gli occhi al cielo, come a dire che non può farci niente. Io sono più simpatico e guarda Sakusa socchiudere gli occhi per leggere la sua risposta, perché Atsumu si ostina a scrivere al contrario.
Dubito.
L’espressione impassibile con cui dà queste risposte lo rende, agli occhi di Atsumu, tanto stronzo quanto interessante. Scuote la testa e gli sorride, mostrandogli il dito medio.
Sakusa fa per scrivere sul suo vetro, ma i vecchi messaggi stanno già gocciolando gli uni sugli altri e lo spazio è esaurito. Atsumu lo guarda esitare, ha la sensazione che sia un momento chiave. Forse perché è un coglione, forse perché sono le due passate, forse perché è Natale.
Sul volto del vicino passa un’ombra sofferente, prima di sporgersi in avanti e alitare sul vetro. Scrive: Vedi?
Atsumu si lascia scappare un nanosecondo di sorriso vittorioso. Sembra che l’abbia costretto a uscire dai binari solo per rispondergli e provare un punto, attaccarlo. Atsumu però sente di aver vinto per averlo forzato a impegnarsi pur di rivolgergli la parola, di trasformarla da una conversazione in cui è incappato per errore in una conversazione che ha scelto.
È un segno di interesse.
 

Sakusa è consapevole di non esistere. In realtà non gli importa più di tanto, gli sta bene esistere solo quando serve. Se presenta un progetto, allora esiste, fa un passo attraverso il velo dell’inconsistenza e si materializza. Se fa la spesa, allora esiste, il tempo di pagare per poi perdersi nuovamente nel vento. Per il resto, lui non esiste.
Non è che scompaia nell’ombra, bisogna esistere anche per essere misteriosi. Non c’è niente di sinistro in lui, perché a volte crede che in lui non ci sia niente e basta.
L’esistenza intermittente di Sakusa ha il pregio di essere controllata. Lui decide di esistere e quindi si palesa. Non c’è nessuno che lo tiri fuori dal vuoto, forse a volte c’è qualcosa, ma la sua natura inanimata può fargli scegliere di ignorarla.
Per questo quello con Atsumu è un gioco pericoloso. A Sakusa, contro ogni previsione, inizia a piacere l’idea di lanciare un occhio nella sua vita, di avere una finestra sulla sua personalità, ma questo piacere ha un prezzo ed è che Atsumu può fare lo stesso. Può guardarlo mentre non esiste, in un’intimità paradossale per definizione.
Miya è un bel ragazzo, non ha problemi ad ammetterlo, perché rasenta l’obiettività. E ha quell’atteggiamento da idioti completi che a Sakusa farebbe venire voglia di cavarsi gli occhi. Farebbe, infatti, se non l’avesse visto comportarsi un po’ meno da idiota, abbastanza per decretare una personalità a strati che trasforma l’idiozia in una pellicola esterna. A Sakusa è sempre piaciuto un sacco scartare le pellicole dalle cose nuove.
Sono le dieci di mattina passate e Atsumu compare dal nulla nell’inquadratura della finestra. Al posto della dignità in cui, Sakusa ne è sicuro, il mondo è abituato a vederlo, il vicino indossa solo una maglietta con la stampa di una renna sbiadita sopra e non è propriamente ‘in ordine’. Senza alzare lo sguardo dalla traiettoria che lo sta portando dalla credenza da cui ha preso una tazza al fornello per un caffé, Atsumu solleva una mano e lo saluta.
Sakusa è confuso da quel gesto, dal fatto che non l’abbia neanche guardato. Si aspettava che fosse semplicemente lì, ad aspettare che si svegliasse? Lo fa ogni mattina, ma questa è la prima volta che Sakusa è là per vederlo?
Non sa quale sia la verità, ma lo allarma l’idea che Atsumu possa sapere che in qualche modo lo trova attraente, nel senso che è attratto da lui, nel senso che gli gravita attorno, nel senso che è nella sua vita, che esiste e vi occupa uno spazio. È un tipo di consapevolezza che a stento ha lui e che non dovrebbe essere così facile da decodificare per Atsumu.
Dopo qualche secondo, il vicino si accosta alla finestra e indica il suo caffè, in un’offerta sfacciata.
Sakusa la considera. Non è male.
Poi considera le sue implicazioni. Sono catastrofiche, perché il vicino potrebbe iniziare a piacergli davvero, senza il filtro della finestra, senza i tranelli di luce a cui alla rifrazione piace giocare. Senza la distanza fisica. E lui ha vissuto una vita intera a considerare qualunque implicazione romantica futile e stupida, fatta per chi ha tempo da perdere e per chi non ha tempo da perdere con i suoi problemi.
Che storia completamente imbarazzante sarebbe! Innamorarsi del vicino della finestra di fronte, a Natale, comunicando per messaggi sul vetro su cui lui non smette di scrivere al rovescio. Che cliché ridicolo, che banale romanzo rosa!
Così Sakusa affonda la parte di lui che vorrebbe accettare l’invito, la soffoca e la pressa finché non la sente spirare, poi con le dita sfiora l’orlo della tenda e la chiude in faccia ad Atsumu. Lo intravede solo mentre lo guarda, con la tazza ancora in mano e le sopracciglia aggrottate. Non offeso, non confuso, per nulla stanco.
Non è che l’amore sia del tutto un sentimento mediocre, non è che sia precluso a chi è intelligente, è che amare qualcuno significa spogliarsi nel senso meno letterale del termine, significa essere visti tanto quanto si guarda e fa paura. Fa paura lasciarsi toccare, fa paura emozionarsi, fa paura condividere. Fa paura tremare, se qualcuno guarda.
E la paura sarà certo meno eccitante, ma è più sicura.
 

Quando arriva effettivamente il Natale, Atsumu ha la sensazione che invece che raggiungere un climax, la musica si affievolisca, venga attutita da quel silenzio raccolto che non è sgranato né ruvido come gola riarsa.
“Col cazzo” dice, con una risata sulle labbra, mentre lascia il salone.
“È solo giusto!” gli urla dietro Osamu. Atsumu riesce a sentire la risata di Bokuto, smorzata da qualunque cosa si sia ficcato in bocca. “Io ho cucinato, tu fai i piatti.”
“Ma che t’importa, scusa? È casa mia.”
Sulla strada per la cucina, Atsumu scrolla le spalle e stacca qualche bacca di pungitopo da una pianta finta lì vicino, poi rovista nelle sue tasche, alla ricerca di un accendino.
Quando spalanca la finestra della cucina, il gelo si scontra con il muro di calore dei radiatori. Allo stesso tempo, le parole dei suoi amici nell’altra stanza sembrano rinchiuse in una bottiglia e gli arrivano distanti, trascinate via dal freddo.
Una volta accesa la sigaretta, Atsumu recupera le bacche di plastica, le dispone in fila ordinata sul davanzale e la cura nel dettaglio lo fa anche un po’ ridere. Poi ne prende una e la lancia contro la finestra di Sakusa.
La fila di bacche viene decimata solo di tre, prima che il vicino si decida a presentarsi alla finestra. La apre un po’ stizzito e Atsumu lo vede rabbrividire.
“Buon Natale” gli dice, un sorriso sbilenco piantato in faccia, perché spera di mandarlo ai matti.
“Che c’è?” Sakusa lo guarda, in realtà lo squadra, ma non sembra un’occhiata gentile. Atsumu attraversa un momento di realizzazione profonda e arriva alla conclusione che se non fosse così bello quando lo guarda male, altro che ai matti, lo manderebbe a fanculo.
Atsumu si stringe nelle spalle e prende una boccata di fumo. “Volevo compagnia. Mi mancavi.” Poi attinge di nuovo alla sua scorta di bacche di pungitopo e prova a lanciargliene una addosso.
“Bella mira” commenta Sakusa sarcastico, guardandola atterrare infinitamente lontano da lui.
Atsumu sorride. “Grazie.”
“Guarda che non era un complimento.”
“Eri più simpatico quando scrivevi sul vetro.” Sakusa, per tutta risposta, solleva un sopracciglio. Sembra che abbia sentito un cattivo odore, ma Atsumu sa che per un momento ha sorriso. Anzi crede che se ci fossero di nuovo due vetri a separarli, la luce giocherebbe in suo favore e gli mostrerebbe quella confessione di divertimento. 
“Tu no.”
Atsumu annuisce, espirando in una nuvola di fumo. “Sì, infatti, perché sono sempre simpatico.”
Si guardano per qualche secondo. Atsumu è uno spaccone ed è arrogante ed è convinto di essere un astro nascente della comicità mondiale, ma ha visto Sakusa a lungo abbastanza da sapere di non dover mai invadere certi confini. Se non fosse stato così premuroso, avrebbe bussato alla sua porta il primo giorno, l’avrebbe spinto sul tavolo inclinato e avrebbe dato un nuovo significato all’espressione ‘presentarsi ai vicini’. Invece ha aspettato che a bussare fosse lui, anche se non l’ha mai fatto.
Ad Atsumu, però, piacciono le cose difficili. Gliel’ha insegnato il suo riflesso.
“Omi, mi chiedevo…”
“Non chiamarmi così.”
Lo ignora. “Festeggi con noi?”
Sul volto di Sakusa si stende un’ombra. Atsumu, nella vita, è uno che calpesta. Non gliene importa niente, non presta attenzione, sa che il mondo è egoista e quindi si concede di esserlo anche lui. Questo vuol dire che ha un sacco di tempo per osservare le cose di cui, invece, più o meno sorprendentemente, gli importa. Che ha tempo di studiarle, guardarle sotto luci che rendono loro giustizia o meno.
Significa che ha tempo di prendersene cura.
Con metodi suoi, forse poco ortodossi, ma vestiti delle migliori intenzioni. E poiché ad Atsumu di Sakusa importa, sa che non accetterà l’invito.
“No, grazie” declina prontamente lui, schietto, che è parte del motivo per cui Atsumu lo trova interessante. Perché Sakusa esiste e non esiste, è onesto ed è un segreto, forse in equilibrio su una spaccatura, su due placche tettoniche. Proprio come lui.
Atsumu scrolla le spalle come a dire che non è un suo problema, l’unico segno che, nonostante tutto, un po’ gli rode nella violenza con cui spegne la cicca ancora accesa nel posacenere. Poi soffia via l’ultimo respiro di fumo, solleva una mano come quando lo saluta ogni mattina e scherma nuovamente il gelo.
Sente gli occhi di Sakusa su di sé, mentre lascia la cucina.

 
È mezzanotte e quarantadue della notte di Natale e Sakusa sa intimamente che è l’ora del tè. Quindi si dirige verso il bollitore, accanto alle pentole di rame e la sveglia improbabile, ma non ci arriva indenne. Qualcosa gli trafigge il piede… forse l’influenza del vicino si sta iniziando a far sentire nella forma del melodramma.
Trafigge.
Insomma pesta qualcosa. Così Sakusa la raccoglie e, non troppo sorpreso, scopre che è la bacca di pungitopo rossa di cui è stato bersaglio qualche ora prima. Schiacciandola, però, scopre un fatto esilarante: è di plastica.
Non fa ridere, in verità, ma quando si è soli e quando si combattono certi sentimenti si finisce col trovare divertenti cose molto strane.
Il motivo per cui Sakusa non ha accettato quelle che ormai è ovvio fossero le avances del vicino è sempre stato logico e razionale, freddo e inflessibile. Indiscutibile.
Questo motivo è la rifrazione.
Sakusa esiste per Atsumu solo attraverso quel vetro, un silenzio che qualche volta hanno spezzato e le tazze fumanti quando il mondo si spegne. È una persona inconsistente, che è lì solo se si guardano attraverso due vetri chiusi. Forse il gioco sta tutto nell’attrazione dal mistero, nel fascino che innamorarsi alla finestra, in un mondo frenetico, forse ha esercitato su entrambi.
Più che una questione di insicurezza, è una questione di concretezza. Stare dietro a queste cose richiede troppo lavoro e Sakusa è disposto a rompersi la testa dietro a sfide impossibili solo se crede che ne valga la pena.
E questa? Questa non vale la pena.
Con questo in mente, è singolare il fatto che sorridere per una bacca di pungitopo finta abbia portato Sakusa a infilarsi scarpe e mascherina e dirigersi comunque verso un paesaggio che è abituato a guardare solo limitato dagli infissi di una finestra.
“Tè” dice. Forse avrebbe potuto piegare almeno un pochino il tono perché suonasse come una proposta, ma Sakusa è così poco abituato all’impulsività che onestamente o così o niente.
Atsumu, quando apre la porta e se lo trova davanti, si lascia scappare un attimo di sincera sorpresa. Poi lo guarda da capo a piedi, come a voler misurare le dimensioni del sacco in cui lo nasconderà quando lo avrà ucciso. “Certo, signore, desidera anche una fetta di torta per accompagnare o gradisce che la conduca semplicemente al suo tavolo?”
Sakusa lo guarda male, almeno queste sono acque conosciute. Atsumu gli piace perché lo guarda a sua volta, lo vede, e non distoglie lo sguardo.
“Be’, mi lasci entrare?”
“Lo sai che è quasi l’una?”
Sakusa lo sa, ma a voler essere del tutto precisi… “Tu mi hai invitato qui.”
Atsumu scrolla le spalle e si scansa per lasciarlo passare, anche se l’ha invitato almeno quattro ore fa. Casa sua, Kiyoomi scopre per la prima volta, è un corridoio lungo che si perde nel buio e adesso è vuota. 
Atsumu lo conduce ciabattando fino in cucina e, qualche minuto dopo, si ritrovano al tavolo, seduti uno di fronte all’altro, due tazze lasciate a fumare tra loro. Atsumu prende la sua con entrambe le mani e se la porta alle labbra, scrutandolo oltre l’orlo. Poi prende un sorso e Sakusa sospetta seriamente che abbia fatto rumore solo per irritarlo.
Ci riesce.
“Sai” inizia, schiarendosi la voce e appoggiando nuovamente la tazza sul tavolo, “di fronte abita uno sfigato.” Glielo dice con tono confidenziale, accennando con il pollice alla finestra ancora illuminata dalla lampada-riflettore e il tavolo ancora inclinato. A Sakusa sembra di guardare qualcosa di simile a una fotografia, la cristallizzazione di sé stesso. Non sapeva neanche che si vedesse l’abete in miniatura, fino a qualche attimo fa. È 
sempre stato certo che Atsumu non potesse vederlo scomparire.
E invece si scopre che per tutto questo tempo esisteva.
Kiyoomi Sakusa è matto da legare. Infatti lancia un’occhiata alla mascherina che ha lasciato sull’estremità del lavello di Atsumu e, a tutti quelli che nel tempo gli hanno dato del caso perso, urla che hanno ragione, perché tra tutta la brava gente che esiste sul pianeta Terra lui si sporge in avanti sul tavolo, sfiora il mento di Atsumu con un dito e lo bacia sulle labbra.
Sakusa è un tipo onesto, in maniera così cristallina da venire facilmente scambiato per stronzo, ed è anche un tipo logico: le cose vanno analizzate razionalmente e risolte nella maniera più ragionevole possibile. Sarebbe estenuante, oltre che profondamente irrazionale, non affrontare il fatto che provi qualcosa per il suo vicino, quella sarebbe la vera perdita di tempo, arrivati a questo punto, e Sakusa è bravo a sottrarsi ai pensieri inutili finché non diventa più facile fronteggiarli e accettare che esistano.
Atsumu inspira di scatto e ricambia entusiasta, in un contrasto all’approccio prudente iniziale che rende più elettrizzante quel precipizio d’ignoto. Fa anche una cosa intelligente, ovvero circumnavigare il resto del tavolo, per avvicinarsi a lui. Per un momento, Sakusa si chiede come diavolo abbia fatto a non sembrare goffo.
Ma il punto è questo. Che invece un po’, ora che lo sta provando, ne vale la pena.
È un cliché ridicolo, una frivolezza imbarazzante, innamorarsi del vicino e baciarlo la notte di Natale, con quel retrogusto di campanelle vomitevoli e neve sintetica e lucine nel salotto che, facendo mente locale, Sakusa ha intravisto prima di svoltare nella cucina di Atsumu.
Ora che ci pensa non lo conosce neanche così bene, ma lo mette a suo agio, il che è un fatto raro e può essere in effetti scorrelato dal grado di intimità che si condivide con qualcuno. Sorprendentemente non gli fa schifo, altro fatto raro, ed è felice che sia così impaziente, perché non vorrebbe mai sembrare lui quello più impaziente.
“Miya” lo chiama, quando Atsumu gli lascia per qualche ragione un bacio vicino all’occhio. Non ha capito perché, ma può imparare. Lui gli risponde con un mormorio, rimbomba nel silenzio. “Puoi chiudere quelle dannate tende?”







 
   
 
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