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Autore: avoidsoma    23/12/2021    2 recensioni
Una donna fa un incontro inaspettato al supermercato che la porta a visitare il cimitero della città, in una giornata di neve e a pochi giorni a Natale. Scritto per il calendario dell'Avvento di Natale 2021 organizzato da Fanwriter.it.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Attraverso la strada trafficata ed entro nel supermercato. Sbuffo: fare la spesa con un sacco di gente mi provoca fastidio, il frigorifero però non si riempie da solo. Il negozio mi accoglie con una ventata d’aria calda e, come previsto, con una marmaglia di gente: clienti che spingono i carrelli o portano le buste, che studiano con dedizione gli scaffali o che razziano i banchi della frutta e della verdura. Mi faccio coraggio tirando fuori la busta e partecipo in quella che pare una danza mistica. I banconi sono addobbati con striscioni rossi e bianchi, mentre dal soffitto pendono sagome di stelle, casette e cappelli di Babbo Natale. Il chiasso delle persone è sovrastato dalla classica musichetta natalizia di sottofondo, che riscalda gli animi e rende propensi all’acquisto. Ma io prendo soltanto il necessario: qualche pacco di pasta e di riso, latte, formaggio, pane e la carne. La busta si fa sempre più pesante. Manca una cosa da prendere, entro nello scaffale dei dolci e vado dritta sullo stesso pacco di biscotti preferiti. Soddisfatta, sono pronta per andare a pagare e uscire da quel caos, tuttavia mi volto e le barrette di cioccolato, i biscotti farciti e le merendine sullo scaffale catturano la mia attenzione. Non tanto per le confezioni di plastica a tema natalizio, quanto per il cioccolato. In un ripiano sfilano una serie di torroni di tutti gusti possibili e immaginabili. Saggio la busta: in fondo non è così pesante, c'è un pertugio in cui entrerebbe bene un torrone. Quello all’arancio mi sta chiamando, mi viene un certo languore. E perché non assecondare l’istinto per una volta? In fondo è il periodo di Natale.

«Deborah?» mi sento chiamata da dietro. «Sei proprio tu?»

Mi giro e riconosco la voce, ma è ormai troppo tardi per fare finta di nulla. Incrocio i suoi occhi verdi che spenti mi fissano con un barlume di speranza. Di tutte le persone che potevo incontrare, mai mi sarei aspettata lei. Rimango immobile, incapace di rispondere. È invecchiata, dimostra almeno dieci anni in più nonostante il leggero ombretto e il debole rossetto sulle labbra rugose. Avvolta in una sciarpa folta e il cappello abbassato poco sopra alle sopracciglia, ha la schiena curva in avanti, come se volesse indagare meglio su di me.

«Oh mi scusi…​ devo aver sbagliato persona» dice con un tono smorzato e fa per andarsene.

«Ma'» le dico. «Sono io.»

Sorride, forse per la prima volta da anni, i suoi zigomi cadenti si alzano. «Deborah, non sai quanto ti ho cercato figlia mia!» e con uno slancio rinnovato si avvicina per abbracciarmi. Mi scanso all’indietro, tocco con le spalle lo scaffale dei dolci.

Mia madre rimane a mani vuote che subito raccoglie vicino a sé: «Ah…​ è così…​»

«Senti, cosa ci fai qui?» domando io senza esitazione.

«Sono venuta a fare la spesa» indica il suo trolley accanto.

«Abiti dall’altra parte di Milano e sei venuta fin qui?»

«Il dottore mi dice che fa bene muoversi.»

«Lo stesso che non riuscivi a sopportare quando portavi papà?»

«Non dire così…​ è cambiato, ora c'è uno giovane e in gamba.»

«Dimmi: perché sei venuta?»

Vacilla a rispondere, ma io già l’ho capito. Nel frattempo la corsia è diventata deserta, eppure fino a poco prima ero entrata in un supermercato affollato. Non ho idea di dove possano essere finiti tutti, in più è scomparsa anche la musichetta.

«Io…​ ogni tanto passo per sperare di incontrarti, sapevo che abitavi in questa zona. Non sai quanto mi manchi, lo diceva anche papà. Guardati ora come sei cambiata, sei cresciuta tanto, ti sei fatta una donna. Mia figlia poi! Hai un fidanzato? E invece il lavoro?»

«Il lavoro!» esclamo per un impeto di rabbia improvviso. «Stai scherzando vero? Quello che tu e papà odiavate con tutto il cuore? No grazie, non è necessario incontrarmi.»

Vorrei andarmene, lasciare la busta e scappare via. Però il mio corpo non si muove. Tirare fuori il lavoro, soprattutto dalla sua bocca, non fa altro che peggiorare la situazione. I ricordi, tanto archiviati con cura negli antri più oscuri e remoti, ribollono freschi nella memoria. Rivedo mio padre litigare per il mio lavoro nella multinazionale, troppo progressista per lui, e a mettermi i bastoni tra le ruote rendendo la vita in casa impossibile. Tutto ciò con mia madre che lo sosteneva. E ora era venuta a redimersi senza neanche ammettere le sue colpe?

«Ho visto che stavi prendendo un torrone. Io li adoro. Ti consiglio quello al cioccolato e al pistacchio, uno dei miei preferiti. Oppure — »

«Mi è passata la voglia di dolci» taglio corto.

«Ma li hai sempre amati! Ne andavi pazza e io dovevo sempre trovare nuovi nascondigli in casa per non farli finire.»

«Il tempo passa, e come dici te, sono cambiata.»

Il barlume di speranza nel suo volto non trova corrispondenza nel mio. Sostengo il suo sguardo, impassibile e fredda.

«Hai gli occhi proprio come tuo padre» mormora sottovoce. Fa un altro passo verso di me. Mi sottraggo. «E hai anche il suo atteggiamento testardo…​»

Tutte ovvietà inutili da ripetere. Se mi voleva disturbare rievocando ricordi scomodi allora ci è riuscita.

«Davvero, se era solo per incontrarmi sono state solo energie sprecate. Direi di finirla qui, io e te non abbiamo più nulla in comune.»

Abbassa lo sguardo da sconfitta. «E quindi…​ non vuoi sapere come sta Greta?»

Greta. Con i pensieri concentrati su mio padre mi è proprio sfuggita dalla mente. L’unica della famiglia che non odiavo, con cui potevo parlare e stare insieme. «Come sta?»

«Ha iniziato da poco la magistrale, dovresti vedere com'è cresciuta. Le manchi.»

Riesco a bloccarmi prima di aggiungere “anche a me”. E si liberano questa volta ricordi piacevoli, in cui giocavamo insieme da bambine, oppure come ci aiutavamo a vicenda nei momenti difficili, tra cui il periodo complicato con mio padre.

«In tutti i casi» continua mia madre, forse consapevole di aver colto il segno «sei invitata alla vigilia di Natale. Saremo soltanto noi, ci farebbe molto piacere se tu venissi. Sempre se vuoi».

«Io non penso proprio» rispondo con fermezza.

«Come vuoi, la porta di casa rimane aperta» stringe il trolley e lo trascina a sé, quindi si incammina. A ogni passo che fa io mi sento più leggera e meno oppressa. Dopo neanche tre passi si volta: «Tuo padre è sepolto nel riparto XIII, spazio 102. Vallo a visitare almeno una volta. Se non vuoi farlo per lui o per me, fallo per tua sorella, è stato anche suo padre».

Detto ciò si allontana. Sono tentata di fuggire nella direzione opposta, invece rimango ferma e la osservo. Il suo passo lento e afflitto sospetto è voluto. Se ne va diretta in fondo alla corsia per poi svoltare e uscire dalla mia visuale. Entra un signore con il carrello e torno a sentire la musichetta natalizia. La busta si fa pesante e non ho più voglia di dolci, meno che di torroni. Procedo per la parte opposta, allungo un occhio oltre l’angolo e vedo solo persone sconosciute. Faccio un giro lungo prima di andare nelle casse. Non c'è traccia di mia madre. Mi torna in mente mio padre in cui una volta nascose i vestiti e la borsa, e io ammattita a cercarli perdendo l’intera mattinata lavorativa. Oppure le sfuriate a cena, imbastendo teorie e supposizioni sulla rovina della società e dei principi morali a causa delle società multinazionali e del lavoro da ufficio. Ha sempre disprezzato il mio lavoro, in un posto mille volte più grande del suo laboratorio artigianale. I ricordi virano al giorno in cui ho lasciato casa, e di come mia sorella piangeva, mentre alle sue spalle mio padre mi insultava e mia madre restava in silenzio.

«Eh signorina! Si è decisa cosa vuole fare?» mi risveglio dal torpore. Una donna accosta il suo carrello. «Mica ho tutta la giornata, ho altro da fare.»

Sbrigo a porre il cibo sul nastro. La giornata è finita male, il fine settimana presumo non sarà meglio.

 

Non mettevo piede in un cimitero da almeno quindici anni. Con il freddo che serpeggia nell’aria e la neve caduta non c'è nessuno per la piazza principale di fronte al famedio, neanche i turisti a visitare la tomba del Manzoni. La portineria è sbarrata e, senza nessuno a cui chiedere, affondo i passi sulla neve soffice, poco battuta, per raggiungere un cartellone informativo. L’idea di rimandare fino alle sedici del pomeriggio è stata sconsiderata, il sole ha cominciato una rapida discesa portandosi via l’effimero calore dei raggi.

Da fuori il cimitero pare molto più piccolo di quello che è realmente: una fitta rete di vie e vicoletti che formano un labirinto. Facile trovare il riparto XIII, vicino alla necropoli centrale, più complicato sarà trovare la tomba precisa. Mordo leggermente la lingua: perché non ci sono andata al funerale all’epoca? Mi sarei tolta un pensiero.

Passo sotto la galleria di ponente. Un placca di marmo mi intima “rispetto e silenzio”. Ai lati della galleria incontro le prime sepolture: decine e decine di nicchie che partono ai piedi del pavimento fino al soffitto. Alcune hanno dei fiori freschi, ma la maggior parte sono vuoti. Sotto la luce del lampadario osservo una donna ferma di fronte a una tomba. C'è solo lei nella galleria che si estende per almeno un centinaio di metri. Mi sale un vago senso di nostalgia per qualcosa di lontano e perduto. Scrollo le spalle e mi sforzo ad andare avanti. I cimiteri non mi sono mai piaciuti, ciononostante rimango sbalordita quando arrivo nel piazzale interno: in ogni direzione poso gli occhi trovo sempre delle tombe, alcune anonime e raccolte in nidi, altre con sopra statue dalle forme più disparate, oppure edicole per le famiglie più facoltose e ricche. La neve ricopre tutto, comprese le vie che non sono state spazzate, battute dagli anonimi visitatori della giornata. In lontananza si alza il muro perimetrale e i rumori della città roboante arrivano deboli, come se il cimitero esistesse in un mondo diverso da quello reale. Qui il tempo scorre più lentamente, non c'è fretta nel visitare i morti.

A giudicare le impronte sulla via, molte sepolture sono rimaste solitarie. Un gatto nero mi fissa da lontano, quando mi avvicino scappa seccato. Una targhetta indica che sono arrivata al riparto. Svettano intorno le edicole, bastioni di marmo e granito, decorate con ghirigori scolpiti, oppure di mattoni, alcune con piccole guglie gotiche o colonnati. Più in basso sfilano le tombe con meno pretese ma a loro modo appariscenti: statue marmoree di angeli piangenti, santi prostrati sulla sepoltura, oppure le più semplici croci arricchite con nastri su basi composite, fino ad arrivare alle umili lapidi con scolpito il volto dei morti che vi dimorano.

C'è una tranquillità da mozzare il fiato, come se avessi lasciato fuori all’ingresso il mio corpo e fossi entrata solo con l’anima. Sposto con la punta del piede la neve sulla base rettangolare della sepoltura a me più vicina. Come immaginavo il numero non è quello giusto. Provo con la successiva ma senza successo. Vado avanti fino a raggiungere una piazzola senza uscita. Circondata da edicole con l’ingresso nel lato opposto, l’ambiente è dominato da cipressi alti e spelacchiati. Le tombe formano un semicerchio, al centro ce ne sono altre, sotto un cedro maestoso che cerca di abbracciare l’intero luogo. Deve essere più vecchio di molti dei sepolti.

Un brivido inatteso mi scuote. Nella strana quiete del cimitero, avverto una vibrazione nell’aria, dei bisbigli, all’inizio indefiniti, che poi aumentano d’intensità fino a poter distinguere le lettere e le parole. Sono suoni sordi, soffocati come se le bocche fossero premute sui cuscini. Sono vicini a me, dietro le mie spalle, anzi provengono da sottoterra. Ascolto con attenzione.

«Insomma ma che è questa sfortuna? Mi stai prendendo in giro per caso?»

«Io? Non posso farci nulla, le carte le hai mescolate tu, non è colpa mia se pesco di continuo briscole.»

«Diamine. Pesco solo carichi da buttare via, sono cinque mani che non prendo, cinque, mica una!»

Che cosa inattesa! Chi mai può giocare a briscola in un cimitero? Non scorgo nessuno nascosto dietro gli alberi, né tra gli interstizi delle edicole o dietro una statua. Le uniche impronte sulla neve sono le mie. Sono forze impazzita? Tuttavia ho udito in modo distinto le due voci, una cavernosa e autorevole, l’altra smielata di un giovane.

«Basta, così non si può giocare. Mischio le carte.»

«Eh no, oramai finiamo la partita.»

«Io a queste condizioni non gioco, dammi le carte.»

«Vieni a prenderle se riesci, o stai lì fermo a fare il morto?»

«Ma la volete finire voi due?» risuona la voce arrogante di una donna. «Ogni volta vi mettete a litigare e non se ne può più, disturbate la quiete pubblica.»

La voce proviene dalla tomba centrale, una lapide con sopra una grande croce raccolta da un drappo di marmo nero. Nonostante il gelo, i fiori posti sulla tomba sono freschi e colorati, spezzano il biancore e grigiore circostante. Leggo di chi si tratta: Rosa Chinella, una signora di sessant’anni morta nel 1973. Non c'è dubbio che qualcosa echeggia da sotto il terreno. Indago intorno alla tomba, eppure non trovo niente a parte la neve, il selciato e il marmo.

«Tu, tu» ringhia all’improvviso la voce rauca di prima, che all’inizio mi spaventa perché credo essere rivolta a me. «Non osare più interrompere le mie partite con Alvaro, altrimenti…​»

«Altrimenti cosa? Dai che voglio proprio sentire» chiede con sagacia la signora Chinella.

La tomba dell’uomo è costituita da una lastra unica di granito, scarna senza decorazioni o intagli. Scosto la neve caduta sopra: Giovanni Brioschi, un quasi centenario morto nel 1997. Al centro risalta la foto a colori dell’uomo, un anziano attempato con un sorriso da una parte all’altra del volto.

«Signori, voi mi deludete» interrompe una nuova voce sprezzante e altezzosa maschile. Proviene dal lato opposto della piazzola. «Dov'è finito lo spirito natalizio? Mancano pochi giorni a Natale e il clima dovrebbe essere di festa, di gioia e di pace, nella concordia e nella condivisione. Se non riuscite a tenere calmi gli animi vi chiedo almeno di stare in silenzio.»

«Vecchio bacucco dell’ottocento, smettila di fare la predica e lasciaci spazio che qui è un mortorio, tu sei troppo vecchio per stare in un cimitero» gli risponde irato il signore Brioschi.

Il sole cala tra le edicole e con lui va la luce che si indebolisce. Il cimitero si fa cupo, non è illuminato, ma non avverto paura anzi seguo con interesse l’accesa discussione. Tempo di fare un passo verso la tomba dell’uomo che ne sento una uscire di fianco a me.

«Mi sento chiamata in causa. Signor Brioschi, quello che ha detto è irrispettoso verso tutti noi. Porga delle scuse.»

«Ma quali scuse e scuse, io qui faccio come mi pare, non c'è più il vecchio ordine.»

«Come sarebbe, quale ordine?»

«Bè come dire…​ vi ricordo che siamo morti, signora Opocher.»

«Teresa?» chiama Alvaro, il giovane che giocava a carte.

«Ci sono caro, dimmi tutto» risponde una voce melliflua e calma, in completo contrasto con quelle dei litiganti.

«Guarda che belle stelle sono uscite su nel cielo. Alcune ogni tanto si muovono, non pare strano e allo stesso tempo commovente?»

«Hai proprio ragione, sono affascinanti e — »

Ma il signore Brioschi non la lascia parlare: «Eccola, hai risvegliato anche l’ultima: le tre zitelle al completo, una di fianco all’altra. E ora non finiranno più di spettegolare sui visitatori.»

Tremo per un istante. Loro mi vedono? I miei passi attutiti dalla neve scricchiolante non paiono dare loro fastidio.

«Ciò mi offende molto!» urla la signora Opocher uscendo dai gangheri.

«E te Evelina lo stai a sentire. Di tutto il cimitero perché ti sei coricato proprio qui? Non potevi altrove?» la signora Chinella non la dà per vinta.

«Ah! Mi ci hanno messo, mi ci hanno messo i miei figli e nipoti, e pure lontano da mia moglie, mica mi sono coricato da solo. Che canaglie le donne, proprio come voi.»

«Vecchio e pure rincitrullito, ecco cosa siete. L’esatto contrario del bravo e buono Alvaro, meritavate di morire voi affogato a diciott’anni al posto suo.»

«Come osi?» il signore Brioschi è su tutte le furie. «Io non mi lamento di nulla della mia vita, l’ho vissuta come volevo e guardate a che età sono arrivato. Tu parli di Alvaro, una femminuccia che non è neanche in grado di nuotare nel mare. E vuoi sapere cosa mi ha detto una volta?»

«Signore la prego…​» Alvaro ha la voce rotta.

«Qualcuno vuole saperlo?» nessuno però gli risponde, lui però continua. «Ecco cosa mi ha detto: avrebbe iniziato a fumare solo ai diciott’anni, peccato che lui sia morto neanche un anno dopo. Bella roba eh? Sa ancora di latte ah-ah!»

«Fai solo vergogna a prendertela con lui» bisbiglia tra i denti la giovane Teresa.

Lascio perdere la confusione dei molti nuovi che intervengono per sedare, o aizzare, la discussione. Osservo invece le tre tombe delle donne, per davvero una di fianco all’altra. Quella della signora Opocher è la più antica, con una statua logora di una figura femminile piangente prostata sulla lapide. Molte lettere sono staccate, al loro posto ci sono degli anonimi buchi. Alla sinistra la tomba della giovane è di almeno mezzo secolo più recente: una lastra di marmo nero orizzontale con un rialzo centrale. Tolgo la neve dalla lastra. Teresa Gironi, nata nel 1920 e morta nel 1943. Dietro il rialzo c'è la statua scolpita che la raffigura: una ragazza che porta un libro chiuso e in mezzo un dito con la mano sinistra, con l’altra tiene dei fiori poggiati sul petto. Gli occhi vacui del viso mi fissano. Una vita spezzata di netto nel fiore dell’età per un imprevisto, come per l’altro giovane. Brutta storia, deglutisco con fatica.

«Noialtri qui abbiamo altro da fare e da pensare» interviene un uomo all’estremità della piazzola che cattura subito la mia attenzione per il suo tono rigoroso. «Io e il dottor Morelli abbiamo quasi raggiunto il termine della dimostrazione del teorema che rivoluzionerà la matematica moderna. C'è però bisogno di silenzio per finire.»

«Mi scusi» fa un altro signore sconosciuto. «Tutto molto bello…​ ma come intendete diffondere le vostre scoperte?»

«Troveremo un modo, questo è un problema di importanza secondaria al momento» afferma il matematico.

«Scommetto che è lo stesso teorema su cui lavorate da quando mi trovo qui» commenta un altro.

«Signor Gemelli, ognuno ha la sua professione e ambito di studio. La sua è quella di raccogliere soldi, la mia è quella di studiare il mondo per estrarne l’essenza.»

«Allora,» si intromette la signora Chinella «allora spieghi come mai non tutti si risvegliano. Come per esempio la moglie del signore Ferretti, sono passati trent’anni e lei ancora dorme mentre il marito se la spassa».

«Ah! Per me va bene pure che rimanga a dormire» ride il marito nominato.

«È un errore signora mia, un errore che presto verrà districato e risolto» spiega il matematico. «Siamo indubbiamente morti ma non del tutto, in noi scorre una scintilla di vita che va avanti per inerzia, causata dalla concentrazione di pensieri avuti durante la vita. Siamo intrappolati in un limbo.»

Cade un silenzio inatteso, come se i morti stessero riflettendo sulla loro condizione. Al che prosegue la signora Chinella: «Se è come dice, come mai il signor Fersini non si è ancora svegliato? Ogni tanto borbotta e basta».

Il matematico sospira: «Torniamo sempre allo stesso discorso, alle volte dubito che mi stiate a sentire…​ Il signor Fersini deve aver subito un trauma negli ultimi momenti della morte, e tale trauma si è concentrato nella coscienza…​»

Il signor Fersini? Sobbalzo: parlano di mio padre! Riprendo la ragione e torno sul mio obiettivo. Il cuore comincia a battere forte, sono vicina alla sua tomba, ma qual è di preciso? Delle tante sepolture da cui sono uscite le voci ne mancano una decina. Le controllo una per una. Una madre in ginocchio con un bambino al fianco, non può essere la sua…​ Due tombe una di fianco all’altra unite con un cordone di metallo arrugginito, troppo vecchia; una colonnina di marmo con sopra un busto di donna, neanche. In una noto un piccolo alberello di Natale. Disperata cerco tra le ultime rimaste. Scavo con il piede la neve per terra: è la numero centodue. Mi arresto di colpo: è la sua. Una pietra sepolcrale chiude la tomba, sopra è distesa una raffigurazione di Gesù, vestito con solo un drappello. Il nome è coperto dalla neve. Pulisco lettera per lettera: Giuseppe Fersini, morto nel 2018. Non c'è una sua foto, ma non è necessaria: basta il nome per rievocare il suo volto malvagio, stanco e furioso, pronto a riprendermi e a fomentare litigi. Ed eccolo ora, inerme e innocuo. Continuo ad ascoltare.

«Uh sì…​ Si mette a borbottare “Deborah…​ Deborah…​”, è la prima delle due figlie che l’ha tradita scappando via e lasciando la famiglia» termina la signora Chinella.

«E che storia, che storia!» segue la signora Opocher. «Una volta è venuta la moglie e si è messa a parlare con il marito sepolto sotto terra. Ha raccontato che la figlia non è mai venuta a visitarlo — »

«Oooh! Ma si può una cosa del genere?» si lamenta una voce già udita prima che però non riconosco.

Un’altra sconosciuta: «Che figlia! I miei vengono ogni settimana a farmi un po' di compagnia».

«Da me invece una volta l’anno organizzano un raduno compresi i nipoti» aggiunge una voce gracidante di una vecchietta.

«Signori, è normale che dopo un secolo venga meno gente a porre le lacrime sulle tombe. E poi non conosciamo i reali motivi dietro tale decisione, può essere come per il signore Brioschi che non era proprio un santerello» interviene il signore calmo e posato di due secoli fa.

«Noi conosciamo il motivo, lo conosciamo!» esclama compiaciuta la signora Chinella. «La settimana scorsa, mentre voi tutti dormivate, è passata la madre. Si è messa di nuovo a parlare e, tra i singhiozzi, ha detto di aver finalmente incontrato la figlia. Non ha avuto il coraggio di ammettere la sua colpa e soprattutto quella del marito. Soltanto che non si aspettava di vederla così cambiata, l’ha trovata forte e realizzata. E ha detto che non c’era più modo di rinsaldare i legami e che ormai era meglio lasciarla libera.»

«Tutto ciò cosa ci importa?» interviene il signor Gemelli.

«Già, me ne frego dei pettegolezzi» sbraita il signore Brioschi dopo una lunga assenza.

«Ma non ti eri zittito te?» riprende la signora Chinella. «Sentite qua invece: non è che se verrà la figlia il signor Ferretti si risveglierà?»

Mormorii sfrenati si accavallano uno sopra l’altro. Nessuno osa commentare. Dentro di me percepisco un nodo sciogliersi che stringeva di nascosto da anni e che ormai era diventato parte integrante. E ciò che lascia è l’angoscia tremenda di aver perso tempo e di aver sbagliato dal momento della sua morte. Mio padre è morto, tuttavia nel frattempo mia madre e mia sorella hanno continuato a vivere. Cosa ho perso di loro? Perché d’un tratto è scomparso l’odio verso mia madre e l’indifferenza verso mia sorella?

Parte la voce seria del matematico che raccoglie tutta la platea: «Ciò significa che c'è modo di uscire dal limbo. Può essere, può essere che…​ Se il trauma venisse risolto con un intervento esterno si potrebbe districare la massa dei pensieri e lasciare libera l’anima di salire nel cielo. Il signore Fersini è in una situazione dubbia, non sono certo che funzioni. Lo scopriremo se e solo se la figlia verrà.»

«Lei?! Non verrà mai, ha abbandonato la famiglia» afferma la signora Chinella.

Può darsi che non sia stata una buona idea lasciare mia madre e mia sorella.

«Concordo» sostiene la signora Opocher. «Padre e figlia si detestavano fin troppo per stare nella stessa casa. E con la sua morte tutto è ricaduto sulla minore…​»

Mia sorella! Proprio lei, che da inseparabili siamo passati a rapidi sguardi freddi e lontani. Cosa mi sto perdendo di lei in tutti questi anni? Posso continuare in questo modo, sapendo che non c'è nulla a separarci e che un qualsiasi imprevisto può interrompere la vita? Ripenso alle morti premature di Alvaro e Teresa, ma ecco che all’improvviso, senza l’intenzione di farlo, mi esce dalla bocca un grido di ribellione: «Io sono qui!»

Chiudo la bocca con la mano. Tutto tace e si dissolve come un sogno, cala un silenzio di tomba. Il signor Brioschi non insulta, il matematico non spiega la sua teoria, le signore Opocher e Chinella non spettegolano. I giovani Teresa e Alvaro tacciono, forse guardano insieme il cielo fattosi scuro per la notte.

Nella semioscurità osservo per qualche secondo la tomba di mio padre. Di odio non ne provo più, ma ciò non significa che l’ho perdonato. Lui di certo no. Aspetto che succeda qualcosa, percepisco invece il freddo pizzicare le guance e infiltrarsi tra le vesti. In lontananza torna il rumore lontano delle automobili, con il traffico che scorre inesorabile oltre le mura. Lascio la piazzola. Ogni tanto mi fermo per ascoltare, ma ci sono soltanto rumori ambientali, non più voci. Esco allora dal cimitero.

 

L’appartamento è al quarto piano. Salgo le scale senza fretta, un gradino alla volta. La scatola con il panettone cade sullo scalino. Lo riprendo e questa volta lo afferro meglio con le dita. Arrivo di fronte al portone di casa. Sospiro. Forse ho sbagliato a venire, o forse no. Suono il campanello.

Qualche istante e la porta si apre. È Greta. Sbarra gli occhi appena mi vede, a quanto pare non mi aspettava. Così da vicino non la vedevo da quando sono andata via per la stessa porta. È cresciuta sì, ma non troppo. Il suo volto ha un’espressione matura di una che ne ha passate tante.

«Ciao» le dico.

«Ciao…​»

«Ehm…​ Posso entrare?»

 

«Quella non è una stella, è un aeroplano» osserva Teresa.

Alvaro non è del tutto convinto: «Io sostengo sia una stella cadente, guarda come si muove bene».

Una forte luce interrompe i due dallo scrutare il cielo di Natale. E mentre gli altri si riposano, i due guardano uno spettacolo mai visto prima sulla tomba del signore Fersini. Una luce candida aleggia nell’aria prendendo forma fisica, filamenti trasparenti volteggiano fino a formare le vesti di un fantasma umano. Nel silenzio, l’uomo si volta verso i due giovani e fa un cenno d’assenso con un sorriso di gioia che li contagia. Si libra quindi nel cielo, supera il più alto grattacielo della città, si alza verso le bianche stelle che traspirano nel cielo sporco, diventando esso stesso un punto bianco in movimento.

Alvaro domanda: «E quello cos’era?»
   
 
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