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Autore: whitemushroom    25/12/2021    2 recensioni
Tuona ancora dentro Hartsvale, tuona fino a mangiare il coraggio, il valore, il futuro fatto di neve.
Tuona dentro Hartsvale e gli uomini tremano.
Tuona perché sono soltanto loro sei, e nessuno arriverà in tempo. Possono solo rallentare l’avanzata della tormenta, ma sanno che la prossima alba la vedranno seduti alla grande tavola di Helm.
Storia partecipante al contest per il dodicesimo anniversario del mitico thexiiiorderforum
Prompt: #"Cosa annuncia il rombo del tuono?"
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Ajantis, Keldorn
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Fandom: Baldur's Gate 2
Genere: Introspettivo, Missing Moments
Rating: giallo
Prompt: "Cosa annuncia il rombo del tuono?"
Avvertenze: nessuna


Il ragazzo che sognava i giganti

“Giganti?”
“Sì, contro i giganti!”
I colpi della nuova recluta sono terribili. Fendenti aperti, difesa senza speranze, passi che fanno dubitare che il ragazzo abbia mai avuto un vero insegnante di scherma. Manovra la spada peggio di un halfling e con la stessa tendenza ad inciampare nei propri stivali, e chiunque gli abbia messo in mano uno scudo dell’armeria non ha chiaramente considerato l’esigua forza di quel braccio minuscolo.
Se il Cuore Radioso è costretto ad arruolare ragazzini del calibro di Ajantis Ilvastarr è solo per le ingenti donazioni che la famiglia ducale ha lasciato all’Ordine per tenere il loro inqualificabile secondogenito lontano dagli eleganti salotti e dalla vita politica di Baldur’s Gate. E Keldorn Firecam è stanco di trascorrere inverni cercando di trasformare mocciosi adatti al massimo al rango di scudieri in paladini scelti in grado di difendere la Costa della Spada.
“E perché non un drago?” domanda, sollevando di nuovo il proprio scudo. Non che ve ne sia reale necessità –il ragazzo non riuscirebbe a colpirlo nemmeno se scendesse Helm in persona- ma i movimenti di una vita intera sono difficili da abbandonare. Anche quando si tratta di allenamenti senza speranza in un cortile vuoto, quando ormai tutte le altre reclute sono andate a riempirsi la pancia di stufato caldo.
Il giovane muove ancora la spada, stavolta tentando un affondo contro la sua coscia. “Perché un drago è banale. Tutti vogliono sconfiggere un drago e rubarne il tesoro”.
L’attacco parte, ma non giunge nemmeno al culmine; Keldorn si limita a spostarsi, e per poco l’aspirante paladino non finisce a faccia in giù. Si rimette in piedi sulle punte, lo sguardo carico di tutta la testardaggine dei suoi sedici anni scarsi. “Io voglio sconfiggere i giganti. Un intero esercito. E tenerli lontani dai villaggi della brava gente. Voglio diventare un eroe che tutti possano ricordare!”
Carica di nuovo, stavolta preso soltanto dalla stanchezza e dalla frustrazione, dimenticando persino le basi della postura, e l’uomo decide che lo stufato caldo non può aspettare un minuto di più. Gli basta un movimento rapido per insinuarsi nella guardia del ragazzo, e con un solo guizzo del piede si infila tra i passi privi di equilibrio dell’altro, mandandolo diretto contro il fantoccio da allenamento che Ajantis si era testardamente rifiutato di usare.
“Se fossi in te rivedrei la mia lista delle priorità, ragazzino”.



Tuoni.
Rimbombano nel cielo, nella neve, persino nella sua tenda.
La pelliccia che gli hanno portato non ripara affatto dal freddo.
Quanto potranno durare, lassù? Due, massimo tre giorni.
L’ultima lettera del comandante Nimur risale a sette giorni prima, e Keldorn sa benissimo che le truppe di rinforzo dell’Amn non arriveranno mai in tempo.
Si stringe le mani nei guanti, cercando di ascoltare le voci dei suoi compagni al di fuori della tenda, ma i tuoni coprono persino gli ordini gridati a squarciagola.
Il tempo degli uomini sta per finire.



Respira lento, cercando di non far caso al fetore che infesta la cripta. Ci sono corpi marcescenti persino ai piedi del sarcofago, ma l’uomo non può permettersi alcuna distrazione, nemmeno quando si rende conto che alcune di quelle ossa sono appartenute a dei bambini. Le lunghe gambe della vampira scivolano contro il marmo, disegnando immagini e pensieri che soltanto la sua fede in Helm riesce a scacciare. Fede che non ha chiaramente supportato il giovane Ajantis, il cui capo riposa beato sul grembo di quella creatura, un sorriso languido che non nasconde i pensieri che gli animano la mente.
Keldorn sa bene quanto potenti le lusinghe della non morte possano essere, ma senza dubbio i lunghi capelli bluastri della vampira e le sua mani perfette potrebbero aver giocato un ruolo importante nel controllo della mente non proprio aguzza del suo labile pupillo. Gli occhi scuri della donna si poggiano su di lui, e parole nere danzano nella sua testa senza che quelle labbra fredde si schiudano.
“Adorami, umano. Servimi”.
Qualcosa, in quelle parole, sembra essere sussurrato con la voce di sua moglie: è un pensiero fugace come un alito di vento, ma il vecchio paladino è costretto a scuotere la testa e scacciare quanto delicata e bellissima quella voce possa risuonare. “Il tuo compagno ha scoperto la felicità eterna del mio amore. Non lo desideri anche tu più di ogni altra cosa?”
“Chiudi la bocca, progenie della non morte!” grida, sovrastando i sibili della creatura. La sua spada, che con tanta fatica è riuscito a sguainare, si alza in direzione della figura pallida. “Sarà mia cura trasformarti in cenere”
“Tu e quale paletto di frassino, umano? La tua arma non può certo scalfirmi”
Keldorn deglutisce, ricordandosi di aver lasciati i paletti ad Ajantis nella vaga speranza che riuscisse a manovrare almeno quelli e non tentasse colpi di testa con i suoi traballanti fendenti di spada. Paletti che adesso giacciono abbandonati nella sacca ai piedi del ragazzo, beato tra le braccia della creatura del Sottosuolo che non aspetta altro che usarlo come nutrimento per i prossimi decenni.
La figura si erge dal sarcofago, eterea come il soffio di un elfo. Non si accorge neppure dei suoi passi, del suo sorriso carico di morte, la osserva senza vederla, ricacciandone la malia. Sa che la sua spada non può molto contro quell’essere privo di sangue o vita, e quando prova a puntarla contro il suo ventre l’esito è un ghigno in grado di trascinarlo nelle profondità dei Nove Inferi. Un ghigno che però perde quasi subito la propria forma, trasformato in un sibilo stridente mentre la creatura si contorce a meno di un braccio da lui, avvolta nei vapori del suo stesso corpo, con un paletto di frassino che le sbuca dalla base del corpo e la trapassa da parte a parte.
“Proprio come dici sempre tu, maestro …”
Dal corpo incartapecorito della creatura ormai immobile la faccia di Ajantis, molto più vispa del solito, sbuca senza nascondere un’espressione soddisfatta. Retrae il braccio con il paletto, e la loro nemica si tramuta in cenere prima di toccare terra. “… la prima cosa da fare è capire come entrare nelle difese del nemico”.
“La prossima volta che tenti un piano così ardito, ragazzino …”
“Dovrò avvisarti prima, lo so”.
Il ragazzo che sognava di abbattere i giganti si sistema l’elmo sulla testa, e per un attimo Keldorn sente la gloria di Helm poggiarsi su quelle spalle non ancora piegate dal tempo.



Carsomyr, il Santo Vendicatore. La spada che lo stesso Helm ha benedetto con la Sua mano destra, il Suo vessillo nel mondo degli uomini.
Anche i paladini più anziani esultano al suo passaggio.
Keldorn fa scivolare la lama nell’aria, attento a non ledere la tenda per errore.
Sono dieci anni che la lama prescelta di Helm non si bagna del sangue dei nemici, e le sue dita dai sessanta inverni hanno perso la presa un tempo così familiare.
Tuona.
Tuona nel gelo dell’inverno, della montagna dal ghiaccio immortale.
Un tempo qualcuno gli disse che con una spada del genere sarebbe stato più vicino ad un dio che ad un uomo.
Ma un uomo, riflette con dolore, può fallire anche con l’arma migliore del mondo.
Perché anche Carsomyr è solo una spada, e Keldorn in fondo è il relitto di una gloria passata.


“Non montarti la testa, adesso!”
Poche cose riescono a urtargli il fegato come le cerimonie dell’Ordine. Cibo sufficiente a sfamare i bassifondi di Athkatla passa sotto il suo naso senza alcun ritegno, e chiaramente i paggi sono troppo stupidi dal capire che al suo settimo rifiuto non dovrebbero più avvicinarsi a lui con insistenza. Un bel boccale di birra, secondo Keldorn, sarebbe più che sufficiente per festeggiare la promozione di quella faccia che dal suo ritorno sfoggia una vistosa cicatrice. “Per me rimarrai sempre lo sbarbatello con il pallino dei giganti!”
Si è fatto un uomo, Ajantis.
Sa infilarsi un’armatura completa senza aiuto di un paggio, e adesso è difficile che la sua spada non colpisca il bersaglio. Ha imparato a prendere la mira con un arco e negli ultimi due anni ha avuto persino l’ingrato compito di addestrare l’ennesimo carro di reclute schiamazzanti.
Ha le spalle più dritte delle sue.
“Non ci crederai, maestro, ma potrebbero mandarmi ad Hartsvale la prossima estate. Giganti della tempesta alti quanto uno di questi palazzi, riesci a crederci?”
“Lo so. Gran brutto affare …”
Si è fatto un uomo senza saperlo.
Indossa il nuovo mantello da paladino dell’Ordine senza pavoneggiarsi come i suoi compagni, lo sguardo ancora perso nelle fantasticherie della missione tra le montagne che aspetta solo un guerriero del suo coraggio. E se lo è meritato, quel mantello. Se la città di Baldur’s Gate non è caduta sotto il giogo della progenie del dio Bhaal lo deve al giovane uomo davanti a lui, che allontana con rimpianto il maiale speziato che gli viene porto soltanto per rispetto al carattere scontroso del suo vecchio mentore. “…qualcuno deve aver fatto il tuo nome al Gran Maestro. Si tratta di una missione che personalmente affiderei solo al migliore di noi”.
“Allora ci dovremmo andare insieme!”
Con un movimento rapido ferma un coppiere, e prima che Keldorn possa protestare si ritrova una coppa di vino calamshita tra le dita. “Mi sentirei più al sicuro con te a guidarmi”.
“Tu pensa a risolvere quel caso di Windspear che ti hanno affidato. Al tuo ritorno … parleremo di Hartsvale”.
Le giunture di Keldorn, al solo sentir nominare le gelide montagne abitate dai giganti, hanno un brutto sussulto.




Il vento si insinua tra le pareti di roccia, riempiendo ogni istante di silenzio in quel valico addormentato nella neve.
Negli ultimi giorni la terra ha iniziato a tremare.
Dei suoi scudieri, Keldorn ha mandato il più giovane a valle, per avvisare la popolazione che risiede lungo le sponde del lago di ritirarsi e portare via tutto ciò che hanno di caro. È un bravo ragazzo, ma un po’ lento.
Quando tornerà sarà tutto finito.
Ci sono dei momenti, al terzo calice di vino, che gli ricorda il modo petulante di Ajantis quando lo mandava a consegnare messaggi tra i quartieri dell’Amn perché aveva soltanto bisogno di qualche ora senza quel petulante ragazzino tra i piedi.
Tuona ancora tra le vallate di Hartsvale.
Tuona perché le montagne stanno chiamando il loro eroe, ma hanno ricevuto soltanto il silenzio.



Rosso.
Anche il sangue dei lupi mannari è rosso.
È rosso perché erano uomini.
È rosso come monito a chi deve dar loro la caccia, per ricordare chi siano i loro avversari. Qualche bardo potrebbe sussurrare che si tratti di un’ultima richiesta di pietà da parte di quegli uomini e quelle donne che sono stati trasformati contro la loro volontà, ma Keldorn non può permettersi il lusso della pietà.
Li hanno attaccati in branco, in pieno giorno, spinti dalla fame. Keldorn e i suoi compagni hanno viaggiato fino alle colline di Windspear senza fermarsi per più di un’ora, intenzionati a raggiungerle prima del calar del sole, ma le loro energie sono al limite. Le mani della piccola Aerie tremano per lo sforzo dell’ennesimo incantesimo, e per quanto le frecce di Valygar raggiungano sempre il bersaglio non può fare a meno di vedere la lentezza del suo incoccare, il fiato diventato vapore nel freddo della giornata.
Keldorn solleva lo scudo e carica il capobranco, il più grosso. Non avrà più vent’anni e la forza di un toro, ma sa ancora dove colpire. Aspetta che l’essere dai denti enormi lo carichi, approfittando della guardia che ha volutamente lasciato aperta, uno spazio troppo invitante per la bestia resa cieca e incontrollabile dal bisogno di carne. Si lascia trascinare all’indietro dalla forza avversaria, buttando a terra lo scudo e parando con i bracciali dell’armatura il morso che puntava alla sua gola; la cotta regge l’impatto mentre crollano insieme nel sottobosco, sputando sudore e terra. Con ancora la morsa del licantropo intorno al suo braccio ed i polmoni che implorano altra aria stringe la presa sull’elsa della spada e spinge la lama nello stomaco del mostro finché tutta la propria armatura non si tinge di rosso.
Ma dovrebbe saperlo, è lo splendore della notte che dona il potere ai suoi figli, ed il sole è il padre che a malapena sopportano.
Così i raggi del giorno illuminano il mostro, sciogliendo di colpo la malia che lo ha trasformato.
Ed è il grido di Keldorn a risuonare tra le colline, perché il corpo che ha esalato l’ultimo respiro sulla punta della sua spada non ha più il pelo e le zanne, ma il viso scomposto ed i capelli di Ajantis.




Sono rimasti in sei.
Sei paia di occhi che scrutano nella tormenta, le mani strette intorno alle armi. Alcuni di loro sono uomini a cui Keldorn avrebbe affidato più e più volte la vita della sua famiglia, ma anche quelli ripongono le loro speranze in lui e nella luce rossastra che riverbera lungo la lama di Carsomyr. Neve sottile ovunque, sui loro mantelli, sulle tende che ormai non vale più nemmeno la pena di riporre.
Alla fine tutti gli scudieri sono stati mandati a casa.
Tuona, e stavolta con la forza del martello di Helm.
Nell’ultima lettera dell’Ordine il Gran Maestro gli ha consigliato di andarsene, di tornare dalla sua famiglia. Di non cadere in battaglia come un mortale qualunque, lui che ha dato più volte la prova di essere la benedizione di Helm per l’intera Costa della Spada.
Gli ha consigliato di riabbracciare sua moglie, sua figlia, di sentire ancora il profumo del pane per le vie di Athkatla.
Gli ha consigliato di abbandonare quel sogno carico di follia, ma la follia negli ultimi anni ha camminato al suo fianco in ogni istanti, anche quando ha accompagnato la sua bambina, ormai una donna, all’altare. Ha ballato con lui in ogni riunione dell’Ordine, si è seduta al suo fianco anche nelle innumerevoli volte in cui Barristan veniva a trovarlo per ricordargli che in fondo, quella volta a Windspear, non fosse stata colpa sua.
Ma tuona ancora, e Keldorn sa che quelle del suo vecchio compagno d’arme sono soltanto parole.
Tuona ancora dentro Hartsvale, tuona fino a mangiare il coraggio, il valore, il futuro fatto di neve.
Tuona dentro Hartsvale e gli uomini tremano.
Tuona perché sono soltanto loro sei, e nessuno arriverà in tempo. Possono solo rallentare l’avanzata della tormenta, ma sanno che la prossima alba la vedranno seduti alla grande tavola di Helm.
Tuona e i sogni di un ragazzo di molto tempo prima prendono vita, perché di tuono sono fatte le grida di guerra dei giganti.
  
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