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Autore: Zobeyde    30/12/2021    6 recensioni
New Orleans, 1933.
In un mondo sempre più arido di magia, il Fenomenale Spettacolo Errante di Maurice O’Malley si sposta attraverso l’America colpita dalla Grande Depressione con il suo baraccone di prodigi e mostri. Tra loro c’è Jim Doherty, l’unico a possedere capacità straordinarie: è giovane, irrequieto e vorrebbe spingere i propri numeri oltre i limiti imposti dal burbero direttore.
La sua vita cambia quando incontra Solomon Blake, che gli propone di diventare suo apprendista: egli è l’Arcistregone dell’Ovest e proviene da un mondo in cui la magia non ha mai smesso di esistere, ma viene custodita gelosamente tra pochi a scapito di molti.
Ma chi è davvero Mr. Blake? Cosa nasconde dietro i modi raffinati, l’immensa cultura e la spropositata ricchezza? E soprattutto, cosa ha visto realmente in Jim?
Nell’epoca del Proibizionismo, dei gangster e del jazz, il giovane allievo dovrà imparare a sopravvivere in una nuova realtà dove tutto sembra possibile ma niente è come appare, per salvare ciò che ama da un nemico che lo osserva da anni dietro agli specchi...
Genere: Azione, Fantasy, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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NELLA TANA DEL CONIGLIO – prima parte







Alycia sbuffò, mentre lasciava cadere sul letto l’ennesimo vestito.
Era più di un’ora che si era chiusa in camera alla ricerca di qualcosa di adatto e si sentiva ancora al punto di partenza. Certo, Jim avrebbe potuto essere un po’ più preciso sul tipo di serata che la aspettava! Le aveva solo accennato che si trattava di un locale in centro con musica hot[1] e dove – cosa di cui parlava con grande disinvoltura – venivano serviti alcolici illegalmente.
Non le capitava spesso di essere impreparata su qualcosa. Ad Arcanta sapeva sempre cosa aspettarsi e l’idea di trovarsi in una nazione di cui ignorava gli usi la rendeva ansiosa ma, allo stesso tempo, le procurava uno strano fermento in fondo al ventre che a tratti era piacevole.
Tornò a esaminare il guardaroba di abiti austeri e antiquati, con le loro cupe tonalità di nero, blu e verdone, poi lanciò un’occhiata alla rivista che aveva lasciato sul mobile della specchiera: sotto la fiammante scritta Vogue, c’era una donna elegante avvolta in un abito rosso dalla vita bassa, e con una nuvola di boccoli dorati intorno al viso. Ricordava Vanja, la splendida trapezista incontrata quella mattina al circo.
Prese in mano la rivista e incrociò lo sguardo del suo riflesso: osservò il lungo, informe vestito scozzese, il volto semi nascosto dagli occhiali, la massa aggrovigliata di ricci color ebano che le arrivavano a metà schiena, mai tagliati in diciassette anni.
«Magari potrei…» mormorò tra sé.
Ad Arcanta i maghi giocavano col proprio aspetto continuamente, ma lei si era sempre rifiutata; in una città governata dalle illusioni, riconoscersi in se stessa, anche nei propri difetti, era un modo per non perdere di vista chi era.
Tuttavia, quella sera sentiva il desiderio di un piccolo cambiamento, così prese coraggio e agitò e dita.
Il suo abito cominciò a mutare: partendo dall’orlo, il verde cupo virò in rosso brillante, la gonna si ritirò a lambirle le ginocchia e la fila di bottoni fu sostituita da una morbida scollatura.
Alycia si confrontò con la modella in copertina e fu soddisfatta del risultato.
Dopodiché, rimosse gli occhiali e scuoté la testa, trasformando la sua criniera in soffici onde che le sfioravano le spalle. Completò la preparazione con un velo di mascara e una spolverata di cipria, poi aprì un cassetto alla ricerca del rossetto; mentre vi rovistava dentro, trovò un blocco di lettere legate insieme con un filo di spago. Tutte le lettere che suo padre le aveva inviato durante l’ultimo anno di latitanza e che, anche se controvoglia, Alycia aveva deciso di conservare.
Afferrò borsetta e soprabito e scese al piano di sotto.
«Papà?» chiamò, accompagnata dal ticchettio delle Mary Jane sul parquet. Entrò in un salottino dove suo padre era solito ritirarsi a leggere dopo cena, ma lo trovò vuoto.  Anzi, non del tutto: sul tavolino accanto alla poltrona era adagiato un vecchio grimorio malandato, zeppo di tutte le conoscenze che suo padre aveva raccolto da quando era diventato l’Arcistregone dell’Ovest. Un pezzo di storia della magia.
Alycia si guardò le spalle e tornò a fissarlo, in preda all’incertezza. Era passato quasi un mese dall’ultimo rapporto al suo maestro, e non lo aveva lasciato granché soddisfatto: niente che legasse suo padre all’operato degli Zeloti, alla profezia e all’Eretica.
Malgrado la palese frustrazione di Boris, Alycia era sollevata che le uniche stranezze di suo padre fossero l’ossessione per il suo orologio, il fatto che trascorresse in bagno più tempo di lei o che usava la polvere di antimonio per tingersi i capelli.
Ma in quel grimorio… Alycia avrebbe trovato la soluzione ai suoi dubbi.
Avrebbe saputo una volta per tutte chi era davvero suo padre, se un eroe o un pericoloso cospiratore.
Prese il quaderno e se lo rigirò tra le mani accarezzandone la pelle ruvida e screpolata, ma qualcosa la tratteneva.
Il grimorio di un mago non era un oggetto qualsiasi: era un compagno di viaggio, un viaggio lungo e spesso tormentato. Era la testimonianza di tutti i successi e gli sbagli, dell’amore per la magia e per il sapere. Era la sua essenza.
Sbirciare nel grimorio di qualcuno senza permesso era una mancanza di rispetto terribile e Alycia si sentì ricoprire di vergogna al pensiero di violare così la memoria di suo padre…
Ma doveva sapere. Ne aveva un disperato bisogno, quale altro modo aveva di ottenere le risposte che cercava?
“Parlagli” avrebbe detto Jim se fosse stato lì. “Almeno tu l’opportunità di farlo ce l’hai ancora.”
La ragazza prese un respiro profondo e lasciò il grimorio dove lo aveva trovato.
«Pensavo fossi già uscita.»
Alycia si volse con un sussulto. «Ciao, papà.»
Solomon Blake era in vestaglia e le sorrise mentre entrava in salotto con un libro sottobraccio e Wiglaf sulla spalla.
«Eccolo qui!» disse raccogliendo il grimorio dal tavolino. «Non riuscivo a trovarlo da nessuna parte, la vecchiaia inizia a giocarmi brutti scherzi!»
Gettò poi uno sguardo sorpreso ad Alycia, mentre andava ad accomodarsi in poltrona.
«Stai bene» commentò. «Molto alla moda. Vai a una festa?»
«Una specie, sì.»
Il sorriso di lui assunse una piega maliziosa. «Con Jim?»
«E i suoi amici» rispose lei in fretta. «Ma non farò troppo tardi, tranquillo.»
«Sono tranquillo. Tra di noi quella responsabile sei sempre stata tu.»
Alycia gli restituì il sorriso. «È vero.»
«Pensa a divertirti» disse suo padre. «Hai lavorato tanto in questi mesi, te lo meriti un po’ di svago prima…prima che torni ad Arcanta.»
L’aveva detto in tono leggero, ma ad Alycia non sfuggì l’ombra che aveva offuscato i suoi occhi. «Potresti tornare insieme a me.»
«Lo vorrei» rispose lui con dolcezza. «Ma non è così semplice.»
«Per via di Jim?» domandò Alycia. «Hai paura che laggiù non lo accettino, non è vero?»
«Non è pronto ad affrontare Arcanta. Inoltre, sono responsabile del circo e dei suoi abitanti finché Jim non sarà in grado di occuparsene da solo. E ha ancora tanto da imparare.»
«È più in gamba di quanto sembri» disse lei di getto, ma subito dopo arrossì e si sentì molto sciocca.
«Certo che lo è, non l’avrei scelto altrimenti! E grazie a lui dimostrerò ai Decani che hanno sempre avuto torto: il mondo sta cambiando, non possiamo continuare a ignorarlo.»
Alycia non riuscì a trattenersi dal sollevare gli occhi. «Dovevo immaginare che ci fosse un secondo fine!»
«Jim non è solo un esperimento, te lo garantisco» replicò lui, pacato. «Fidati di me per una volta.»
Poteva fidarsi davvero? Con quell’uomo era così difficile abbassare la guardia.
Malgrado ciò, il pensiero di doversi di nuovo separare da lui dopo la parvenza di normalità di quei mesi insieme, sotto lo stesso tetto, le gettò addosso una sensazione di nostalgia a cui non era preparata. Anche se per poco, erano stati una famiglia.
«Starai bene qui da solo mentre sarò via?»
«Ma certo! Valdar e Wiglaf si prendono cura di me e poi.» Sollevò il libro che si era portato appresso, Il ramo d’oro di James Frazer. «Ho un sacco di hobby!»
Ancora una volta lei percepì la malinconia nascosta dietro il sorriso gioviale e l’ironia tutta britannica e di colpo realizzò quanto suo padre dovesse essersi sentito solo in quegli anni. Lo aveva sempre incolpato di essere un uomo egoista, di non averle dato ciò di cui aveva bisogno, di non essersi mai aperto con lei.  Aveva molti difetti, questo era innegabile, ma a volte dimenticava che anche lui aveva perso tanto…
Ognuno ha i propri meccanismi di difesa.
«Devi seguire la tua strada» proseguì lo stregone. «Ti farai valere ad Arcanta, su questo non ho dubbi.»
«Ci credi sul serio?»
«Credo a ciò che vedo» disse senza esitazione. «E in te vedo la stessa passione che animava tua madre.»
«Però non parli mai di lei.»
«Hai ragione» convenne lui, con una nota dolente. «Ma non significa che non ci pensi ogni giorno. Il fatto è che…fa ancora male.»
Alycia sedette sulla poltrona accanto alla sua. «Dimmi qualcosa di Isabel Alicante, qualcosa che non riguardi l’alchimia. Per favore» aggiunse, di fronte alla sua espressione meravigliata.
Solomon sospirò e accarezzò il bracciolo della poltrona. «Era la donna più testarda che avessi mai incontrato, certe volte sembrava che si divertisse a contraddirmi. Ma era anche estremamente intuitiva, empatica, e aveva un gran senso dell’umorismo, spesso insolente. E soprattutto, non aveva mai paura di dire ciò che pensava. Credo che sia stato questo a farmi innamorare di lei.»
Un sorriso colmo di tenerezza premette sulle labbra di Alycia. «Avrei voluto tanto conoscerla.»
«L’avrei voluto anche io.»
Wiglaf emise un tenue gracchio, nel silenzio che accompagnò quelle parole.
Alycia avrebbe voluto prolungare quel momento, ma il rintocco della pendola la richiamò alla realtà. «Adesso dovrei…»
Solomon si schiarì la voce. «Oh, certo.»
«È che mi stanno aspettando.»
«Naturalmente, non ti trattengo oltre.»
Si alzarono entrambi. Lui le augurò una bella serata e Alycia raccolse la borsa e si avvicinò alla porta. Ma all’ultimo si fermò e corse indietro ad abbracciarlo, cogliendolo di sorpresa. Il suo braccio le cinse maldestramente le spalle.
«Ti voglio bene, tesoro. Anche se non sono bravo a dimostrarlo.»
Alycia lottò contro il nodo che le opprimeva la gola. Aveva una gran voglia di piangere, come quando era bambina e non voleva che lui la lasciasse…
Si allontanò senza guardarlo e tirò su col naso. «Non aspettarmi alzato.»
 

«Le ho già detto di no, grazie» disse Jim con voce un po’ seccata. «Non ci serve una mano di re Mida mummificata. Ne ho già tre a casa.»
Il venditore ambulante gli mostrò un sorriso untuoso e sollevò il gibus malconcio, dopodiché si dedicò al passante successivo.
«Se ne arriva un altro mi metto a urlare» annunciò Vanja, prendendo un tiro dalla sua sigaretta. «Non potevamo scegliere un altro posto?»
«È colpa tua» disse Wilhelm. «Attiri un sacco l’attenzione con quel vestito.»
«Mi spieghi che accidenti ha che non va il mio vestito?»
In effetti, la trapezista calamitava lo sguardo di chiunque come una lampada con le falene: ricoperta di lustrini rosa, con il boa di piume di struzzo e la sigaretta languidamente tenuta tra due dita, sembrava una stella del cinema.
Jim seguì il battibecco dei gemelli Svanmör distrattamente; si erano appostati sotto la cattedrale di Saint Louis, al centro di una Jackson’s Square illuminata dai lampioni e gremita di turisti, accattoni e artisti di strada. Continuava a perlustrare la folla dondolandosi avanti e indietro e a sbirciare il brutto orologio di Maurice e nasconderlo sotto la manica.
Rodrigo gli diede un colpetto col gomito. «Paura che te dia buca? Con tutte le storie che le ha raccontato Vanja, strano che abbia accettato un appuntamento contigo!»
«È un po’ troppo affollato per essere un appuntamento.»
«E allora che cos’è?»
«Siamo solo un gruppo di persone che vanno insieme nello stesso posto» rispose Jim con voce neutra. In fondo, che motivo c’era di essere così in ansia? Se non voleva venire era liberissima di non farlo, mica si erano promessi niente...ok, quella mattina erano stati bene e sì, magari avevano flirtato in modo divertente...ma non era affatto da lui farsi tutte quelle paranoie mentre aspettava una ragazza.
«Vedrai che verrà» gli disse piano Arthur, che era stato piuttosto silenzioso tutta la sera. «Ci vengono sempre alla fine, no?»
Jim stava per ribattere che aveva testato quanto fossero imprevedibili i maghi, quando un carretto che trasportava fiori sfilò loro davanti e quando si spostò, mostrò una figura esile vestita di rosso che fece fatica a riconoscere. Il suo stomaco fece una capriola. «Alycia?»
La ragazza attraversò la strada.
«Non sapevo cosa indossare» ammise rigirandosi la borsetta tra le mani. Sembrava un po’ nervosa. «Non sono mai stata a una serata del genere…»
«Ma sei uno schianto!» esclamò Vanja raggiante. «E questo taglio di capelli ti sta divinamente…non è vero Jim? Jim?»
«Ehm» fece lui, rendendosi conto che la bocca gli pendeva aperta come una triglia. «È ok.»
Vanja scrollò la testa bionda con un sospiro rassegnato e prese Alycia a braccetto. «Vieni, dolcezza, lasciamo perdere questi cavernicoli: non se li meritano i nostri sforzi!»
Dopodiché la condusse a passo deciso attraverso la piazza. Il locale si chiamava Black Rabbit ed era situato al confine tra il quartiere francese e l’ex distretto di Storyville: una zona poco turistica e frequentata, dove anche l’illuminazione era ridotta al minimo e che, non molti anni prima, ospitava saloon e bordelli.
Vanja si fermò di fronte a un negozio di animali con affisso il cartello “chiuso” e suonò il campanello. «Lasciate parlare me.»
Dopo un attimo, venne ad aprire un ometto stempiato e occhialuto.
«I signori desiderano?»
«Una coppia di parrocchetti col collare» rispose lei, disinvolta. «Per il compleanno della zietta.»
Alycia si volse perplessa verso Jim, che le fece l’occhiolino: «Ognuno ha le proprie formule magiche!»
Il proprietario tenne loro aperta la porta. «Prego, da questa parte.»
Li scortò all’interno del negozio, nella cui penombra luccicavano gli occhi assonnati di conigli e altri piccoli animali in gabbia. Un grosso ara gialloblù sventolò le ali dal suo trespolo e gracchiò: «Acqua in bocca, acqua in bocca!»
Nel retrobottega, l’ometto scostò una tenda e rivelò una parete con affisso un dipinto raffigurante un coniglio nero col panciotto che reggeva un orologio a cipolla. Solo a uno sguardo più attento ci si poteva accorgere che la parete era una porta rinforzata e che l’occhio del coniglio celava uno spioncino. Il negoziante mostrò il pollice alzato a un misterioso osservatore, e dopo una serie di colpi e cigolii, la porta si aprì.
«Buona serata, signori.»
I sei ragazzi si infilarono in uno stretto corridoio e sbucarono in un guardaroba presidiato da personale in uniforme. La porta successiva conduceva a una sala da ballo senza finestre, illuminata da lampadari di cristallo; faceva un gran caldo ed era stipato di gente che ancheggiava e scalciava in estasi. Chi non ballava affollava i tavoli rotondi e il bancone del bar, dietro cui due baristi in smoking servivano da bere con destrezza sovrumana. Alle loro spalle, scintillavano centinaia di bottiglie colorate, allineate di fronte uno specchio annerito dal fumo di sigaretta.
«Da dove arriva tutto quell’alcol?» domandò Alycia, colpita.
«E chi lo sa?» Jim fece spallucce. «Nessuna città è rimasta realmente all’asciutto dall’inizio del Proibizionismo: basta sapere dove cercare.»
«E voi come lo sapete?»
Jim si scambiò un’occhiata complice con Vanja, Rodrigo e Wilhelm. «Ai fermi piace chiacchierare quando vanno al circo e c’è sempre uno dei nostri in ascolto.»
Era chiaro però che quel locale non fosse come quelli che aveva frequentato in passato: attorno a un tavolo col panno verde, degli omini dalle orecchie a punta giocavano a poker avvolti in una coltre di fumo di sigaro, poco più in là erano appostate delle sofisticate signore dalla pelle argentea e piccoli ma affilati denti da squalo che sorseggiavano Martini. In fondo al locale, due orchi stavano discutevano animatamente: uno dei due batté il pugno sul tavolo talmente forte da spaccarlo a metà, ma nessuno sembrò badarci.
«È pieno di Dimenticati qui» constatò Jim, sorpreso dal vedere così tanti mezzosangue che mostravano il proprio vero aspetto. Persino nei freak show si camuffavano abilmente. Lì, invece, Mancanti e Dimenticati bevevano insieme, fumavano, chiacchieravano, flirtavano e ogni tanto si prendevano anche a pugni, accomunati dalla stessa voglia di divertirsi e trasgredire alle regole di una società sempre più austera e restrittiva. E poi, di fronte a un buon bicchiere di bourbon tutte le differenze si annullavano.
«Nelle grandi città è pieno di posti così» spiegò Vanja. «Prendiamo qualcosa da bere, sono assetata!»
Attraversarono la pista, facendosi strada tra i ballerini in un morbido sfiorarsi di corpi che sapevano di acqua di Colonia e sudore. Trovarono un tavolo miracolosamente libero poco distante dal palco: la cantante era una sirena dalla pelle d’ebano e una voce roca e possente, ma ciò che attirò la loro attenzione furono i musicisti…
«Sono zombie?!» esclamò Arthur, sbalordito.
Se non lo erano, pensò Jim, non se la passavano granché bene: avevano un colorito giallognolo, le mascelle a penzoloni e gli occhi lattiginosi. Ma, ehi, diamine se sapevano suonare!
«Affascinante» commentò Alycia, con lo stesso tono che usava spesso suo padre. «Lei è una necromante, guarda cosa ha appeso al collo.»
Jim aveva evitato di soffermarsi sul petto della cantante con Alycia accanto, ma riconobbe subito il talismano fatto di capelli, rami e stoffa.
«Un gris-gris» indovinò. «Ho letto che creano un vincolo tra il mago e l’oggetto dell’incantesimo tramite i suoi tessuti…»
«Esatto» approvò Alycia. «Non pensavo che esistessero ancora maghi in grado di praticare un tipo di magia così artigianale. Ad Arcanta è caduta in disuso da secoli.»
«In Magia haitiana di Ambroise Lefebvre non si dice che le conoscenze voodoo venivano trasmesse oralmente?» obiettò Jim.
«Per l’amor del cielo!» s’intromise Vanja, annoiata. «Potreste evitare di parlare di studio per una sera? Siamo qui per divertici! E io sono ancora fin troppo sobria.»
«Jim e io prendiamo da bere per tutti» si offrì Arthur guardandolo, e lui capì che era un messaggio in codice per “dobbiamo parlare”. Insieme sgomitarono nella calca fino al bar.
«Di che si tratta?» chiese il mago, in attesa che il barman preparasse i loro drink.
«Di Sinclair.»
«Ancora? Che ha combinato stavolta?»
«Non è per qualcosa che ha fatto» rispose Arthur sottovoce. «Ma per qualcosa che potrebbe fare.»
«Credevo che Blake lo avesse spaventato a dovere.»
Arthur si allungò sul bancone: «L’altra sera, mentre tornavo al mio vagone, ho visto Sinclair con una persona. Non so di chi si trattasse, era buio pesto e il tizio indossava una specie di cappuccio. Non potevo rischiare di avvicinarmi di più, così sono rimasto acquattato dietro un carro piatto: parlavano di qualcosa da rubare. Qualcosa di grosso, a giudicare dalla mazzetta che Sinclair ha intascato.»
«Le bestie?»
«Non lo so» ammise Arthur, tetro. «Finora non si era mai spinto a tanto, ma Maurice è distratto dai preparativi dello show. Ho un gran brutto presentimento, e se non si trattasse di semplici contrabbandieri? Se avesse preso contatti con gli Accalappiatori…?»
«Ehi, ehi! Artie, vecchio mio, rilassati» disse Jim, afferrando al volo il Sazerac che il barista aveva fatto scivolare verso di lui. «Stiamo parlando di Sinclair, uno che è già tanto se riesce a contare fino a cento. E finché c’è Blake non alzerà un dito.»
Arthur arricciò le labbra. «E che faremo quando saremo ripartiti?»
«Me ne occuperò io. È per questo che sto studiando la magia, no?»
Arthur lasciò andare un sospiro. «Era più semplice prima, quando eravamo sempre in viaggio. Stando fermi siamo esposti a fin troppi pericoli. Quelli come noi non sono fatti per mettere radici.»
Jim avvertì una brusca fitta tra le costole a quelle parole. «Lo so.»
Tra i due calò uno strano silenzio teso, colmato dalla musica e dal regolare brusio di voci e bicchieri tintinnati intorno a loro.
«Senti» mormorò Jim, guardando il suo bicchiere. «So che vi sto chiedendo tanto, ma ne varrà la pena, fidati.»
«Certo» replicò Arthur. «Io mi fido sempre di te.»
Jim restò zitto, le dita strette attorno al suo bicchiere. Presero il resto delle ordinazioni e tornarono senza una parola al tavolo, dove, nel frattempo, Alycia stava mostrando a un’incantata Vanja come riusciva a cambiare aspetto: in un attimo, infatti, sfoggiò un simmetrico caschetto rosso fuoco.
«Quanto lo vorrei anche io quel potere!» sospirò la trapezista. «Mi risparmierei volentieri le ore di trucco in camerino.»
La maga sorrise e con un altro aggraziato cenno del capo, i suoi capelli diventarono corti, biondi e vaporosi come quelli di Vanja.
Di fronte a quella scena, Jim avvertì una scossa di irritazione formicolargli sottopelle, mentre porgeva ad Alycia il suo Brandy Alexander. «Posso sapere cosa state facendo?»
«Ci faceva vedere qualche trucco» rispose allegramente Rodrigo. «Esta chica me gusta! Por qué non entri in squadra? Due maghi ci farebbero comodo!»
Jim sedette senza fare commenti, ma quel senso di fastidio lo accompagnò per il resto della serata. Inoltre, non riusciva a non rimuginare sul fatto che poco fa avesse mentito ad Arthur, al suo migliore amico: la verità era che non aveva ancora deciso cosa fare dopo lo spettacolo o in generale della propria vita.
I suoi amici sollevarono in alto i bicchieri per brindare al successo dello spettacolo, al futuro della compagnia, a New Orleans, a O’Malley e persino a Solomon Blake. Al quarto giro di tequila, capì che avrebbero continuato a brindare a oltranza a qualsiasi cosa, ma Jim aveva lo stomaco chiuso e quasi non toccò il suo drink. Alycia se ne accorse: «Va tutto bene?»
«Alla grande» rispose lui, guardando l’orchestra zombie. «Ti va di ballare? Sono stanco di stare seduto.»
Non le diede tempo di rispondere e la condusse per mano in pista. Quando si volse a guardarla, il suo stomaco prese a fare di nuovo le giravolte, così evitò di incrociare i suoi occhi perplessi mentre posava le mani sui suoi fianchi.
La band attaccò un blues. https://www.youtube.com/watch?v=W6MDjUwXskI&ab_channel=HDPinkFloyd
Per un po’ ballarono in silenzio, adeguandosi al passo delle coppie che volteggiavano intorno a loro.
«Hai cambiato umore all’improvviso» disse Alycia. «È per qualcosa…?»
«Mi piacevano di più prima i tuoi capelli» borbottò lui, lasciandola interdetta per un istante. Pian piano i boccoli che le incorniciavano il viso tornarono a tingersi di nero corvino. «Be’, grazie.»
«Cioè, sei bella lo stesso… ma non devi cambiare per piacere a loro» proseguì Jim, facendo un cenno secco verso il tavolo. «E neanche fare da intrattenimento.»
«Sono semplicemente curiosi» replicò Alycia. «Che c’è di male se mostro…?»
«Il fatto è che non capiscono» la interruppe lui. «Non hanno nemmeno idea dello studio che c’è dietro quelli che chiamano “trucchi”. Pensano che sia solo un gioco, come l’apprendistato con tuo padre.»
«Sono certa che non è così.» Alycia provò a stemperare accennando un sorriso. «Ti vogliono bene, si vede e sono orgogliosi per te.»
«Già. Ma tanto, che importa? Finché rimango nella compagnia, sarò sempre il prestigiatore truccato.» Jim la guardò per un lungo momento e disse: «Sai che ti dico? Tu e io sì che potremmo mettere in scena uno spettacolo sensazionale.»
Il sorriso di lei sfumò in un’espressione incerta, come se non sapesse se prenderlo sul serio o no.
«Sarebbe un’idea tanto assurda?» chiese lui. «Con la nostra magia possiamo fare di tutto, saremmo delle star! Ci esibiremmo nei teatri più belli del mondo, viaggeremo in ogni città...»
Alycia proruppe in una piccola risata. «Tipo a Coney Island?»
«Non solo! Ti porterei a New York, a Parigi, a Milano.» Jim le dedicò un grande sorriso, sfolgorante come i palcoscenici che popolavano la sua immaginazione. «Il mondo sarebbe letteralmente nostro!»
«E quale sarebbe il mio ruolo in tutto ciò?» domandò lei, il sopracciglio inarcato e quella piccola, deliziosa fossetta a scavarle l’angolo della bocca. «Quello della “valletta”?»
«No!» disse Jim con impeto. «Saremmo partner, totalmente alla pari. Sei troppo in gamba per fare da spalla.»
«Non sembri il tipo che ama dividere la scena.»
«Perché non ho mai trovato qualcuno per cui valesse la pena» disse lui. «Finora.»
Alycia si mordicchiò il labbro inferiore. Per quanto ci scherzasse su, sembrava tentata.
«Vuoi sapere una cosa? In realtà non ho bisogno degli occhiali» confessò. «I maghi ci vedono benissimo, ho trovato quel paio tra gli oggetti Mancanti che mia madre stava studiando: mi piacevano, ma ad Arcanta non avrei potuto indossarli senza essere guardata male. Da quando sono qui, per la prima volta nessuno mi dice cosa devo fare o come devo essere.» Un sorriso ironico incorniciò quell’affermazione, come una virgola. «Ora penserai che sono pazza…»
«Mi piacciono i pazzi.»
Continuarono a ballare lentamente al centro della folla, sempre più stretti, in quell’abbraccio che qualcuno fuori da lì avrebbe definito sconveniente. Jim fissò le labbra di Alycia con desiderio, ma prima che potesse chiudere la piccola distanza che li separava, la musica si interruppe bruscamente.
«Che succede?» chiese lei, guardandosi attorno come la maggior parte dei presenti.
«Magari al batterista è volato via un braccio.»
In quell’istante, da qualche parte si levò un grido: «RETATA!»
«Cosa?» fece Alycia, confusa. «Che significa retata?»
Jim non fece in tempo a rispondere, perché si scatenò il caos. La gente prese a scappare in ogni direzione, spintonando a destra e a manca e passando gli uni sopra gli altri alla ricerca di vie di fuga. Jim venne travolto da un’ondata di corpi e tavoli ribaltati.
«Alycia!» urlò, sporgendosi oltre il mare di teste e facce disperate.
La scorse poco più avanti, appiattita in un angolo mentre osservava disorientata quel fuggi-fuggi frenetico.
«Jim!»
Lui si fece largo a spintoni, lanciandosi verso di lei con la mano protesa. Le loro dita si toccarono, ma un istante dopo furono separati ancora da una massa brulicante di sconosciuti. Jim si sentì afferrare da una decina di mani e spintonare in avanti, oltre una soglia sul retro del bar, dopodiché fu schiaffeggiato in pieno viso dal gelo della notte, e si ritrovò in un vicolo buio, all’esterno, e senza più la ragazza al suo fianco.
 
[1] termine disusato col quale negli anni ‘20 del XX secolo si indicava il jazz suonato dai musicisti neri provenienti da New Orleans, che veniva considerata la patria dei canoni classici di questa musica
  
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