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Autore: Daniela Arena    01/01/2022    1 recensioni
Due anime possono cercarsi per un'intera vita e non trovarsi mai, possono incontrarsi e non riconoscerci o possono trovarsi ed essere troppo spaventate per fondersi insieme.
Jennifer e Mark sono due perfetti estranei eppure la loro vita per certi aspetti è simile, entrambi hanno molti demoni da nascondere nell'armadio e con estrema fatica cercano di costruirsi una strada da percorrere nel mondo. Il loro primo incontro è del tutto inaspettato ma si capisce subito che nell'aria esplode qualcosa capace di avvicinarli inevitabilmente.
Forse le loro anime non sono fatte per trovarsi, forse devono prima andare all'inferno per poi salvarsi o forse si passeranno accanto senza notarsi affatto.
Solo il Karma sarà in grado di decidere per loro o forse no.
Tutti i diritti sono riservati ©
Ogni riferimento a persone esistenti sia che esse siano vive o morte oppure a fatti realmente accaduti è puramente casuale. Ogni nome o luogo citati, realmente esistenti, sono stati utilizzati come riferimento simbolico per rendere più reale il contesto di narrazione.
Genere: Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Universitario
Capitoli:
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   Dopo aver lavorato duramente agli esami ed essermi sentita più colpevole che mai per tutte le difficoltà di Edward Malcom, mi ero finalmente concessa del tempo per fare quello che da troppo avevo rimandato. Presi un lungo respiro, bussai dolcemente alla porta per non disturbare ed entrai prima ancora di aver udito alcun invito dall'interno, l’odore di disinfettante e di aria viziata mi riempirono i polmoni con prepotenza. La piccola stanza era immersa nel silenzio, le pareti arancioni e gli angoli pieni di fiori e piante finte ricordavano vagamente un ospizio per anziani. 

   Mia madre era sdraiata a letto dormiente, probabilmente ancora sotto l'effetto dei sonniferi pareva una bambina adagiata sul materasso, un piccolo sorriso accennato sul volto la faceva apparire pacifica e sana. Mi avvicinai a lei e posai la borsa sulla sedia di legno accanto al suo giaciglio cercando di fare meno rumore possibile per non infastidire il suo riposo.

   «Ciao mamma.» Sussurrai.

   Da molto tempo le era stato diagnosticato l'Alzheimer e inizialmente non era stato un problema gestire le sue piccole lacune ma con il tempo le cose si erano aggravate e le spese si erano fatte sempre più alte. Poco dopo la scoperta mio padre era venuto a mancare, per tirare avanti, ero stata costretta ai doppi turni alla paninoteca dove lavoravo e negli archivi della biblioteca rallentando gli studi e cercando di trovare una sistemazione molto più piccola e vicino alla città. A malincuore avevo convinto quel che restava della mente lucida di mia madre a firmare le carte di vendita della nostra proprietà in campagna e avevo affittato un piccolo ed essenziale appartamento in periferia pregando che le cose potessero andare meglio. Con la proposta di lavoro all'università, con il dottorato e lo stipendio fisso era arrivato anche il primo ictus di mia madre. La risposta affermativa era stata inevitabile per riuscire a sopperire alle spese della struttura medica presso cui era stata poi ricoverata prima che potesse succederle qualcosa che non mi sarei mai perdonata. Nel giro di poco tempo però ne era arrivato un secondo che l’aveva bloccata a letto per lungo tempo e aveva definito un netto peggioramento della sua condizione, due pesi difficili da ingoiare che mi avevano posto davanti alla consapevolezza che non avrei potuto più portarla a casa e vivere con lei quanto le restava da vivere.

   Scossi la testa per non farmi sopraffare come mio solito dalle emozioni. Accarezzai la guancia a mia madre delicatamente, quasi sfiorandola e lei, d'istinto, si mosse nel letto spostando di poco il viso.

   Sorrisi amaramente. 

   Osservandola così tranquilla era inevitabile ricordare i bei momenti passati, quando ancora era in grado di riconoscermi come sua figlia e non solo come una tenera ragazza che andava a trovarla di tanto in tanto per farle compagnia. Purtroppo però l’immagine di lei inerme stava prendendo possesso della mia mente sovrastando tutte le altre: piano piano dimenticavo come fosse la sua figura nella quotidianità domestica della nostra vecchia casa, come fosse il suo sorriso radioso ogni volta che osservava mio padre rientrare a casa dal lavoro. Il ricordo della sua fermezza risoluta era stata sostituita dal buonismo accondiscendente della sua nuova condizione. Tra la donna che era stata mia madre e la persona che oggi mi trovavo davanti non c’era più alcuna affinità se non l’aspetto esteriore, questa era la parte più dolorosa con cui non sarei mai riuscita a fare i conti.    

   La signora Sindy Jhonson arrivò per il suo abituale giro di controllo, mi salutò con un sorriso tenero e si mise subito a controllare la cartella clinica della sua paziente.

   La sua personalità era quello che serviva ai pazienti per sentirsi bene in quel posto ed era essenziale alle famiglie per sopprimere i sensi di colpa. La sua figura non ricordava lo stereotipo di un'infermiera ma quello di una madre buona, paffuta e simpatica, pronta a fare i biscotti la domenica mattina e ad ascoltare i figli piangere senza arrabbiarsi mai delle loro marachelle. I capelli, ormai completamente bianchi e raccolti in una crocchia, venivano nascosti dalla cuffietta azzurra della sua divisa, gli occhi scuri erano accentuati dalle spesse lenti dei suoi occhiali che la facevano apparire come una vecchia bibliotecaria. 

   Tutto in lei metteva voglia di essere consolati dal male del mondo. 

   «Non sembra esserci nulla di nuovo a parte il fatto che Alice ha fatto nuovi controlli ieri mattina.» Esordì sfogliando la cartella che aveva in mano. «Questa notte c’è stata la necessità di sedarla, pare fosse parecchio irrequieta.» Lesse alcuni appunti lasciati da qualche collega. «Alice voleva uscire a tutti i costi per un appuntamento e non voleva assolutamente restare qui in clinica.» Ridacchiò scuotendo la testa.

   Mi voltai per guardare Sindy e sospirai indecisa se prenderla anch’io in ridere o meno.

 «C’è scritto anche che il Dottor Roger vorrebbe incontrarti nel suo studio il prima possibile.» Aggiunse corrugando la fronte. «Credo sia emerso qualcosa dalle nuove analisi della mamma.»

   Spostai lo sguardo sulla figura di mia madre ancora dormiente nel suo letto e d’un tratto mi resi conto che le notizie che stavano per arrivarmi avrebbero notevolmente cambiato le cose e che non lo avrebbero fatto in meglio. Non ero ancora pronta a riceverle, pensai che forse non sarei mai stata pronta a perdere anche lei.

   Sindy mi si avvicinò e posò la mano libera sul mio braccio, il suo tocco era caldo. Le rivolsi un sorriso e lei strinse le sue dita in una tenera presa come a volermi dare un po’ della sua inesauribile energia.

   «Io ho quasi finito il mio giro, entro poco dovrebbe arrivare anche il dottore, che ne dici di berci un caffè insieme aspettando?» Chiese lei facendo un cenno verso la porta.

   Annuii e la seguii trattenendomi dall’andare ad abbracciare mia madre per non esplodere in un pianto frustrato. 

  Camminammo in rigoroso silenzio lungo il piccolo corridoio di porte accostate che popolava l’area e arrivammo nell'altrettanto piccolo salottino comune che la clinica aveva realizzato per un incontro più semplice tra famiglie e pazienti. Mi sistemai su una poltrona della sala comune dove altre persone erano sedute tra sofà e sedie a conversare a bassa voce, alcuni bambini giocavano insieme nell’angolo dove erano stati messi alcuni giocattoli per loro. 

   Sindy arrivò poco dopo con una tazza fumante di caffè zuccherato e me la porse sorridente prima di sedersi accanto a me.

  Dopo tutto quel tempo sapeva esattamente di cosa avessi avuto bisogno quasi come se mi conoscesse da sempre.

  «Quei bambini sono come il sole in un giorno di pioggia.» Sussurrai più a me stessa che ad altri osservando l’innocente allegria dipinta sui loro volti.

  Sindy annuì e sistemò il grembiule sulle ginocchia paffute e coperte da spesse collant color carne.

  «Qui il tempo va al contrario e loro ci ricordano che la vita va avanti nonostante tutto.» Disse lei volgendo il suo sguardo al loro giocare con le costruzioni sul piccolo tappeto vicino.

  Spostai la mia attenzione sulla donna che mi sedeva accanto e cercai di sorriderle nonostante il groppo alla gola.

  «Lei come sta?» Chiesi dopo un lungo silenzio rotto solo dalle conversazioni degli altri presenti in sala. «Intendo veramente, non quello che vorrei sentirmi dire.»

   «Sai che mi sono affezionata molto ad Alice, mi ricorda tanto mia sorella, ma nell’ultimo periodo è peggiorata.»

   Incassai il colpo, Sindy mi prese la mano e la strinse alla sua. 

   Ingoiai una lunga sorsata di caffè per placare il senso di nausea che mi stava pervadendo lo stomaco e mi obbligai a respirare.

  «Sarei dovuta venire più spesso, avrei dovuto ignorare il lavoro, avrei potuto fare qualcosa.» Sussurrai portandomi una mano a coprire gli occhi.

   «Oh cara, voglio raccontarti una storia magari ti potrà essere d’aiuto.»

   Annuii e attesi.

   «Sono diventata infermiera perché da piccola mi occupavo sempre della mia povera madre tetraplegica, sai era caduta dal tetto pulendo le grondaie poco dopo il mio ottavo compleanno.» Disse sorridendo con tristezza. «All’epoca avevo un fratello più grande, pace all’anima sua è morto in guerra, e due sorelle più piccole di cui dovermi prendere cura insieme a mia madre perché mio padre morì poco dopo la nascita dell'ultima figlia aggredito da un orso mentre lavorava nei boschi canadesi. Crescendo ho cercato di rendere a tutti la vita più semplice possibile, vivevamo in campagna e c’era tanto lavoro da svolgere sia in casa che fuori e non avevamo molte possibilità per condurre una vita dignitosa, eravamo una famiglia povera e a stento sopravvivevamo con quello che ci davano la terra e le bestie allevate. In adolescenza una delle mie sorelle venne messa incinta da un uomo sposato che rinnegò poi la povera creatura perché incapace di divorziare dalla moglie per la loro posizione sociale. Sai lui era un uomo ricco, viveva in città. Noi ci trovammo con una nuova bocca da sfamare, che nel giro di pochi anni si trasformarono in due e poi tre. Il sentimento di passione che legava mia sorella a quell’uomo era forte, nonostante la ragione le dicesse di starle lontano lei non è mai riuscita a farlo.» 

   Rise.

   Non riuscii a trattenermi dallo stupore e guardai Sindy con gli occhi spalancati.

  «Vedi cara, accadde che poi mia sorella, l’altra, si sposò con un contadino locale e andò via di casa mentre io avevo il compito di occuparmi di tutto il resto, mamma morì poco dopo di vecchiaia e mia sorella, la più piccola, si ammalò di polmonite. In quel periodo conobbi mio marito che era dottore e s'innamorò di me, era così affascinante!» Sindy si portò le mani unite vicino ad una guancia e per qualche istante le brillarono gli occhi. «Provò in tutti i modi a convincermi a sposarlo e quando acconsentii presi anche la decisione di studiare per diventare infermiera. Nel corso dei miei studi la polmonite di mia sorella si aggravò fino a che non la costrinse a passare a miglior vita lasciando soli quei poveri bambini già dimenticati da tutti se non da Dio. Erano altri tempi e purtroppo non potei far nulla per salvarla. Mi presi carico io dei miei nipoti, troppo piccoli per essere lasciati al loro destino e aggiunsi i miei due figli a quel bizzarro nucleo familiare.» Sospirò. «Crebbi una nuova famiglia senza fare mai distinzione con nessuno, tutte quelle creature erano figlie mie come del Signore e non avrei mai permesso che potesse accadere loro qualcosa. Non è stato affatto facile ma non ho mai pensato potesse andare diversamente perché amavo la mia famiglia ed ero disposta a tutto pur di far andare le cose per il meglio anche quando a cena si mangiava poco o niente perché non c’era cibo a sufficienza e il freddo dell’inverno si faceva sentire con i geloni che raffreddavano anche i cuori più caldi. Ogni giorno siamo andati avanti e abbiamo costruito insieme la nostra storia con alti e bassi ma ha funzionato, oggi ho una grande famiglia felice e tanti nipoti che mi chiamano nonna, un marito che non mi ha mai lasciata e la forza del Signore a scaldarmi il cuore nei giorni più difficili.»

   Sindy posò la sua mano sopra alla mia gamba e batté qualche colpetto leggero.

  «Nel corso della mia vita tante sono state le sfide davanti cui il Signore mi ha posto secondo il suo Piano Divino ma non mi sono mai fermata davanti a nulla perchè se Lui aveva scelto tutto quello che stava accadendo per me significava solamente che sapeva che io avrei potuto superare quelle difficoltà. Non mi sono mai chiesta perché fosse successo a me perché avrebbe significato credere che se fosse successo ad altri sarebbe stato meglio e, conscia del dolore che ho provato, non avrei augurato a nessuno tanta disgrazia. Ho solo scelto con cura i dettagli su cui concentrarmi accontentandomi spesso delle piccole cose che mi ha regalato la vita e ricordando i lati positivi di ogni memoria, l'ho fatto per poter guardare sempre al domani in modo migliore.» 

   Sindy volse lo sguardo sulla sala ancora piena di persone e io attesi che continuasse il suo discorso in silenzio aggrappata alla tazza di caffè che stringevo saldamente tra le mani e alle sue parole che stavano prendendo lentamente vita dentro di me.

   «Quello che cerco di dirti, cara, è che non c'è nulla di cui avere paura. Anche se spesso la speranza viene meno, quello che non dovresti perdere è la fede, e non intendo dire che tu debba andare in chiesa..» Rise scuotendo la testa. «.. non sono quel genere di persona che finisce per farti la predica moralista o spirituale, mi riferisco al fatto che tu debba credere in qualcosa di buono, avere fiducia nel fatto che tu sia abbastanza forte da arrivare oltre l'ostacolo che ti si è posto davanti e a tutti quelli che arriveranno dopo di quello. Potrei dire che il Signore veglia su di te perché Lui è la mia forza ma forse la tua risiede altrove, devi solo cercare bene e scoprire dove si nasconda prima che tu venga inghiottita dal buio.» 

   Rimasi senza parole, il silenzio avvolse tutto congelando quegli attimi attorno a noi come se fossero carichi di elettricità. Osservai il liquido nero del caffè nella mia tazza incapace di distogliere lo sguardo da quello che mi sembrava un piccolo buco nero che stringevo tra le mani, tutte le voci attorno a me parevano ovattate come se avessi la testa in acqua.  

   «Qualsiasi cosa accada resterà sempre tua madre, anche se lei ora non lo ricorda, anche se sarà difficile sopportare la sua assenza e anche se avresti voluto che andasse diversamente.»

  Sindy aveva ragione e sapevo che nulla avrebbe potuto cambiare le cose, eppure ero incapace di pensare con lucidità a quello che stava accadendo. Mi guardai la punta dei piedi sentendomi di nuovo piccola.

   «Suvvia cara, non fare quel broncio.» Mi rimproverò bonariamente. «Va da lei ora e stalle vicino pensando a quanto tu sia fortunata di far parte dei suoi ricordi prima della fine, sono quello che resterà una volta terminato questo percorso.»

 «Signora Jhonson?» Una donna si avvicinò a noi per richiamare l’attenzione dell’infermiera a cui probabilmente avrebbe dovuto chiedere qualcosa.

  Sindy mi diede qualche leggera pacca sulle gambe e si alzò per tornare al suo lavoro, io strinsi tra le mani la tazza ormai intiepidita di caffè e non mi mossi. Pensai alle parole che mi aveva detto cercando di assimilarne il significato.

   Presi un lungo respiro, finii il liquido contenuto nella tazza per darmi la giusta forza e mi alzai dalla poltrona della piccola sala comune. Bussai alla porta accostata dello studio del dottore, mi accomodai al suo interno dopo aver udito un invito e mi arresi al mio destino un'ultima volta.

   «Mi dispiace averla fatta correre nel mio studio signorina Sanders, ma ci tenevo a vederla il prima possibile per parlare di sua madre.» 

   Il dottor Roger estrasse dalla cassettiera poco dietro le sue spalle il fascicolo sanitario di mia madre e, nel mentre, attese che il suo computer si accendesse. Tutta la sua figura emanava un'aura settica, tetra. Le spalle larghe si erano fatte peso di enormi responsabilità, i suoi occhi scuri si erano spenti della luce di vita forse a causa del dolore che erano stati costretti a vedere e i capelli erano ingrigiti con l'età.  

  «Dalle ultime analisi effettuate mi rincresce doverla informare che la signora  Adams ha avuto un netto peggioramento della sua condizione clinica, per spiegargliela in modo semplice, con l'ultima risonanza magnetica è stato possibile rilevare la presenza di più macchie scure nel suo cervello. Questo significa che presto entrerà nell’ultimo stadio della malattia, gli sbalzi di umore, l'irascibilità e le sue crisi aumenteranno esponenzialmente fin tanto che non avrà bisogno di sedativi frequenti.»

   Mi si seccò la bocca.

   «Di quanto tempo parliamo?»

  «Stando all’aggravarsi dei sintomi delle ultime settimane e alle immagini che ho potuto osservare, mi rammarica dirle che c'è un'alta percentuale di probabilità che sua madre non arrivi a vedere l’estate.» 

 Il Dottor Roger corrugò la fronte in un'espressione che lo faceva apparire molto più vecchio e stanco. Volse lo sguardo al pavimento e poi tornò a dedicare la sua attenzione a me che avevo smesso di respirare. 

   «Con il secondo ictus penso abbia iniziato a lasciarsi andare, ha smesso di combattere.» 

   Avrei dovuto assistere alla lenta morte di mia madre senza poter fare nulla per fermarla, mi restavano ancora poco meno di sei mesi da vivere con ciò che restava della mia famiglia prima di ritrovarmi ufficialmente sola. Mi sarei accontentata di quel tempo a scadenza consapevole che non sarei mai stata pronta a lasciare anche lei, per quanto egoista potessi essere a non volerla abbandonare prima del previsto sapevo che questo significava unicamente sofferenza per entrambe e non sapevo come smettere di odiarmi per questo. 

   Ringraziai il dottore con un sussurro stringendogli la mano, uscii dal suo ufficio come se fossi un automa e camminai lenta. Tornai nella camera di mia madre dove lei si stava svegliando, mi strinsi nelle braccia e mi avvicinai al letto.

«Ciao mamma, scusami se ci ho messo tanto ma alla fine sono qui.» Le sussurrai accarezzandole il viso. «Ho fatto un lungo giro e ti ho fatta aspettare, ora sono pronta ad ascoltarti se vorrai raccontarmi qualcosa.» Aggiunsi sedendomi sulla sedia vicino a lei dove ancora era posta la mia borsa.

   «Sei venuta a trovarmi.» Bofonchiò lei ancora assonnata. «Devo raccontarti del mio appuntamento, è stato bellissimo, credo di essermi innamorata.» 

   Le sorrisi con un groppo in gola e d'istinto parlai. 

   «Chi sono io, mamma?»

   Lei mi guardò vagamente confusa, con gli occhi pesanti dal sonno.

   «Jennifer, sei la mia bambina.» Rispose poco prima di riaddormentarsi con un sorriso ben stampato sulle labbra e la testa rivolta verso di me.

   Le strinsi la mano in silenzio e solo in quel momento mi concessi un silenzioso pianto con la fronte appoggiata vicino al suo braccio. Forse non sarei mai stata pronta ad affrontare quello che sarebbe successo, forse non avrei mai potuto superare la sua eventuale assenza ma avevo bisogno di credere di avere ancora sufficiente tempo per dirle addio a modo mio. Pensai che se questo era tutto quello che poteva restarmi ero pronta a prenderlo e a farmelo bastare perché la felicità non è avere quello che si desidera ma desiderare quello che si ha.

 
   
 
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