Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: Exentia_dream2    01/01/2022    2 recensioni
Il silenzio della tomba è la certezza di una frattura maturata negli anni e Armin non lo sa, perciò chiude gli occhi e prega quel Dio che ama e odia, che ha affidato a un solo uomo il peso degli errori commessi dall'intera umanità — come se bastasse la morte del figlio di Dio a espiare i peccati di un popolo che s'è costretto a vivere di tali: non uccidere è uno dei comandamenti che ha imparato, ma da quello che gli viene raccontato, Armin capisce che non hanno fatto altro che far morire chi era diverso dagli abitanti di Shiganshina e dell'isola di Paradis.
Genere: Angst, Hurt/Comfort, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Armin Arlart, Mikasa Ackerman
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Armin non dorme più 

 

Fate che giunga a Voi

Con le sue ossa stanche

Seguito da migliaia

Di quelle facce bianche

 

Armin non dorme più e, quando chiude gli occhi, le urla dei disperati che non conosce gli riempiono la testa e la fanno esplodere di rabbia: non sa di chi siano quelle voci, ma sente in bocca il sapore ferroso del sangue, lo sputa in un misto di vomito e amarezza che gli fa bruciare la pelle come lava appena eruttata; trascorre le notti a chiedersi dove sia quel bosco che non ha visitato e il mare che non ha visto, mai — avverte i piedi bagnati e il profumo delle cortecce degli alberi — ma è prigioniero di mura invalicabili che non sono mai state scalfite.

C'è una statua a chiudere la porta del Wall Maria: il gigante salvatore dell'umanità, gli ha detto Mikasa, ma Armin non ha mai creduto alle leggende e ogni mattina si specchia nell'acqua del fiume che costeggia Shiganshina e si accarezza i segni che ha sul viso.

"Li ho sempre avuti, credo sia una malattia della pelle" ha detto quando gli hanno chiesto cosa fossero quelle cicatrici che gli deturpano le guance, ma quando le guarda e il ricordo di un cappello stretto tra le mani gli sgualcisce il cuore, Armin si siede e aspetta che tornino alla memoria pezzi di vita che crede d'aver dimenticato: ci sono palazzi crollati e rasi al suolo, in un riverbero di lucidità, e una strana cintura di cui sente il peso sui fianchi.

"Perché ho questi pensieri, Mikasa?"

"Quand'è stata l'ultima volta che hai dormito?"

Vorrebbe rispondere, ma contare il tempo è un modo per abbreviarlo e mentire alla sua migliore amica è come negare a se stesso l'accesso a una verità che si fa strada su un sentiero che si snocciola tutto in salita.

"Non lo so."

"É soltanto stanchezza, allora. Prova a riposare."

Mikasa è sempre stata anestetico di ansie e paure, nido in cui riposarsi al ritorno da quei viaggi che lui ha compiuto steso in un letto a occhi chiusi. Ma Armin non dorme più e la realtà dei giorni che si rincorrono tutti uguali è una scappatoia che percorre ogni volta che il sole tramonta e ha il sapore della notte che verrà a portare ricordi di cui non ha memoria; non dorme più e un accumulo di sogni pesa al centro del petto come la chiave che penzola dal collo e che sicuramente è risposta di bronzo a tutte le domande che si pone a labbra serrate e mani strette.

Ha gli occhi di cielo screziato al tramonto, troppi interrogativi a riempire uno stomaco che sa soltanto rigettare sapori che non ricorda d'aver provato.

Jean gli ha procurato un libro in cui c'è scritto in che modo affrontare il dolore quando ci si trova di fronte alla morte di una persona cara, ma chi è stato sepolto?

Armin non dorme più: è una bestia che pascola tra il letto e la sedia accanto alla finestra in quella che tutti chiamano fase della negazione, si ferma a guardare le mura che lo circondano e sfoglia pagine secondo cui il mondo esterno è una superficie ricoperta di acqua, distese di sabbia e lava, ripassa le figure disegnate con dita che tremano e pensa che è meglio immaginare cosa ci sia oltre quelle barriere piuttosto che sentirsi in lutto per i vuoti mnemonici che non riesce a colmare.

"Cos'è successo? Perché mi ricordo di cose accadute quando avevo sei anni? Perché è tutto così sbiadito e poi diventa oblio?"

"Eren è morto: lo hai dimenticato perché non riesci ad accettare che lui non ci sia più" gli hanno detto, ma lui non ha più spiccicato parola e nessuno sa quanto pesa quel silenzio che si ostina a tenere: ha nella testa reminiscenze di un bambino che gronda sangue, accovacciato sul ciglio della strada, echi di dialoghi e voci che gli slabbrano le vene — Perché non ti difendi mai? Sei un bersaglio facile proprio perché non ti difendi! Ti sta bene continuare a perdere così? — e un viso che non ha labbra, i cui contorni sono recisi di dimenticanza.

"Eren è morto" gli hanno detto, ma che è colpa sua sono stati bravi a tacerlo: Armin non dorme più perché Mikasa è diventata una bugia durata troppi mesi (anni) e della verità che adesso gli racconta sembra farne lame che tagliano la pelle a entrambi.

"Quando ho creduto che fosse morto, la prima volta, ho pensato che se fossi morta anch'io non sarei più stata in grado di ricordarmi di lui" ha sussurrato con voce talmente bassa che Armin è riuscito ad ascoltare a stento.

"É per questo che siamo sopravvissuti?"

"Sì."

"Allora farei meglio a morire: io non mi ricordo di lui."

"Una volta hai detto che solo chi è pronto a rinunciare a ciò a cui tiene di più sarà in grado di cambiare le cose. Io ci credo, Armin, ma solo tu hai il potere di smettere di soffrire."

"E come si fa?"

"Rinuncia alla tua voglia di non credere: il passato non si può cambiare, ma noi possiamo vivere i giorni che Eren ha scelto di negare a se stesso e dobbiamo farlo per onorare la sua memoria."

Si ricorda di Eren una notte in cui la pioggia bagna terra e capelli e gli sembra di sentire sotto ai piedi il profilo instabile di un tetto distrutto — un braccio monco poco distante da lui e occhi troppo grandi di fronte per essere quelli di un essere umano; si ricorda di Eren quando il cielo buio ha nascosto persino la luna per permettergli di piangere senza il tipico sbrilluccichio delle lacrime che s'illuminano al cospetto degli astri, per farsi divorare in santa pace dalle tenebre che gli s'infrangono contro dentro e fuori.


Soffocherà il singhiozzo

Di quelle labbra smorte

Che all'odio e all'ignoranza

Preferirono la morte

 

La collera di Armin è una bocca che mastica lenta e inghiotte parole solo dopo averle maciullate per bene — le riduce a brandelli piccolissimi con denti affilati e morsi precisi— e lo lascia muto di fronte a una lapide di marmo su cui del nome di Eren sono rimaste soltanto una serie d'incisioni che lui sente scalfite in quel corpo minuto che non ha più la forza di reagire: dicono sia la fase della rabbia, quella in cui la sofferenza colpevolizza il mondo intero e il singolo, ma come si può imputare il sacrificio di chi ha donato il cuore per i propri ideali, per salvare chi, alla fine, è rimasto a raccattare cocci di se stesso?

Armin non dorme più e ogni notte condanna il coraggio che non ha avuto: se fossi stato io a sacrificarmi, pensa, Eren sarebbe ancora vivo, invece s'è fatto divorare e mi ha lasciato da solo a sognare il mare.

Tuttavia, i contorni sono ancora sbavature che non assumono forma e segni sotto gli occhi che non accennano ad andar via.

"Non è una malattia della pelle, è ciò che sei. Non vergognartene: ogni eroe porta con sé le cicatrici del proprio destino" gli ha confessato il Capitano Levi, ma lui è sordo e muto a chi chiama in causa un eroismo che non sente appartenergli.

Trascorre i giorni di amnesia inginocchiato sul terreno spoglio a parlare con ciò che resta di un uomo a cui è legato da sentieri che non sa di aver percorso: sono i momenti peggiori, quelli in cui il sapore del sangue sulla lingua lo spinge a vomitare e sopportare in silenzio il calore che gli ustiona il corpo.

Poggia la schiena sulla neve e il sollievo gli fa uscire nuvole di vapore dalle labbra, ma il senso di colpa brucia come fuoco e i pensieri lo ammanettano in un cimitero che sembra più freddo dell'inverno stesso.

Non sempre mi ricordo di te, pensa, a volte dimentico chi sei stato e cosa hai significato, ma qualcosa mi tiene qui e mi blocca i passi e mi costringe a fare i conti con le scelte che ho fatto: essere spettatore della tua morte mi ha fatto dimenticare di te e di quello che è successo, ma se quelli che mi tornano alla mente sono i tuoi ultimi istanti di vita e i tuoi ultimi fiati, allora ti chiedo scusa.

Il silenzio della tomba è la certezza di una frattura maturata negli anni e Armin non lo sa, perciò chiude gli occhi e prega quel Dio che ama e odia, che ha affidato a un solo uomo il peso degli errori commessi dall'intera umanità — come se bastasse la morte del figlio di Dio a espiare i peccati di un popolo che s'è costretto a vivere di tali: non uccidere è uno dei comandamenti che ha imparato, ma da quello che gli viene raccontato, Armin capisce che non hanno fatto altro che far morire chi era diverso dagli abitanti di Shiganshina e dell'isola di Paradis.

"Non sempre mi ricordo di te, ma ti chiedo perdono se ti ho raccontato di un mondo che sembrava meraviglioso e ti ho lasciato morire per uno che si è ammantato d'ignoranza e odio."


Dio di misericordia

Il tuo bel Paradiso

L'hai fatto soprattutto

Per chi non ha sorriso

 

La fase del patteggiamento non è altro che una settimana estenuante durante la quale Armin ha dormito sì e no dieci ore, alternando minuti interi di lacrime che gli hanno riempito i solchi sotto gli occhi e silenzi interminabili in cui ha provato a raccattare il dolore e s'è messo a guardare i riflessi del sole pallido sulle sfere di vetro con cui Mikasa ha addobbato l'abete fuori casa sua.

"É Natale, fare l'albero è una tradizione che abbiamo adottato dopo aver attaccato Marley. É questo che mi ha colpito del mondo fuori dalle mura: le luci che s'accendevano e si spegnevano seguendo una logica che non ho ancora capito."

Lui non ha risposto, ma ha accarezzato un ritaglio di stoffa a forma di E.

"Armin..." è la voce dolce con cui lei lo chiama che lo costringe a voltarsi. "quand'eravamo in guerra, ho detto a tutti che se non avessimo combattuto non avremmo mai vinto: in quel momento ho pensato a Eren, a quando mi spronava a combattere e alla volta in cui mi ha avvolto questa sciarpa rossa intorno al collo e non l'avevo mai ringraziato prima di allora, prima di trovarci di fronte al gigante che ha divorato Carla. L'ho fatto soltanto in quel momento e lui mi ha risposto che me l'avrebbe avvolta ogni volta che avrei voluto, per sempre."

Mikasa ha la voce rotta dai singhiozzi, Armin stringe ancora un pezzo di stoffa come se stesse legando a quello ciò che resta di se stesso.

"Vorrei che lo facessi tu, adesso."

"Perché?"

"Per ringraziarti di tutto quello che hai fatto per il genere umano, per me e per Eren."

"Io non ricordo nulla."

"Arriverà il giorno in cui succederà, vedrai."

Però torna a sorridere come facevi da bambino, quando sfogliavi il libro di tuo nonno e sognavi di essere libero, sorridi perché da quando non lo fai più l'inferno sembra sempre un po' più vicino. 

"Mi ricordo di Eren, a volte."

Mikasa stira un sorriso che sembra una cicatrice guarita male, Armin abbassa lo sguardo e pensa di essere tutt'un taglio sfilacciato che non rimarginerà mai.

 

Per quelli che han vissuto

Con la coscienza pura

 

Quando si guarda nell'acqua del fiume di Shiganshina, il suo riflesso è frastagliato e freddo come la lastra di ghiaccio che ha sigillato gli argini all'alba del primo freddo, eppure, riesce a vedere chiaramente le ossa che tendono la pelle fino a farla sembrare trasparente.

Armin non dorme più e quando chiude gli occhi si chiede com'è possibile che in quel corpo rimasto bambino ci sia nascosta una bestia capace di divorare uomini e sfondare

muri costruiti per proteggere i sogni degli esseri umani.

Lui non lo è più, umano: il dolore che prova lo sta consumando, lo sta sbocconcellando come non fosse altro che un pezzo di carne rancida — sputando qui e lì il marcio che proprio non riesce a mandare giù.

Si guarda le mani e gli occhi gli si riempiono di quel mare che ha visto e che non ricorda più, si domanda quante persone ha ucciso (giganti o no), a quale scopo se tutto ciò che ricorda è il sapore ferroso del loro sangue, le urla che non hanno volto e preghiere che si sono spente lungo l'esofago di un mostro che non crede gli assomigli.

Nelle giornate in cui si inginocchia di fronte alla tomba di Eren, ricorda le volte in cui è corso a salvarlo mentre lui si rannicchiava in se stesso e si rimproverava di non essere all'altezza di chi credeva in ciò che era — eppure lo sapevo. Lo sapevo che eri tu il più coraggioso di tutti — , ma di quel coraggio che tutti hanno elogiato non resta che l'ombra scura che Armin non è in grado di mandare via dagli zigomi.

Non ha mai parole che servano a spiegare i sogni che lo accompagnano nelle poche ore in cui riesce a dormire, ma al risveglio prende la sciarpa rossa di Mikasa e gliel'avvolge attorno al collo.

"Ti ringrazio" gli dice ogni volta che compie quel gesto, ma lui non risponde mai.

"Per così poco" bisbiglia una volta e Mikasa spalanca gli occhi e si porta le mani al petto: nei sentieri che Ymir ha creato, il Colossale non smette mai di camminare per incontrare di nuovo colui che gli ha salvato la vita in più di un'occasione e, sul finire, lo ha condannato per sempre a una solitudine che soltanto lui riesce ad avvertire, perché Mikasa s'è imbrigliata nelle trame di un tessuto fatto di scuciture che non possono essere più rammendate e Jean è fermo, con le spalle dritte contro il muro, a urlargli che deve reagire — basta, Armin: non sei l'unico a soffrire — ; abbassa il capo e si ritrova nel momento in cui si perde in una sclera di cristallo che racchiude la storia che nessuno di loro ha il coraggio di raccontare, ma Armin non dorme più e, quando chiude gli occhi, la vita che ha dimenticato torna a lacerare le ossa e riempie di istanti i vuoti che s'è forzato a creare.

"Vorrei scappare" confessa, ma il Capitano Levi solleva il mento e gli scalfisce nella mente parole che lui stesso ha proferito anni prima: chi scappa perde, e dove andresti, poi se il mostro contro cui combatti ha il tuo stesso cuore?

Armin non risponde: si stringe addosso catene che lo relegano in una casa dentro cui l'unico accenno di famiglia è un cappello ormai consunto che profuma ancora dei capelli di suo nonno.

Mikasa torna da lui che ha il ventre gonfio e un anello al dito: "Per favore, fammi entrare."

L'abbraccia non appena incontra il suo sguardo, con la delicatezza che aveva nelle mani quand'era un bambino che stringeva un libro chiazzato di sogni e speranze; la invita a sedersi e poi rimane muto di fronte ai passi in avanti che tutti hanno compiuto mentre lui è fermo, e stanco, perché non dorme più. 

"Jean è un uomo buono, mi ha salvata in tutti i modi in cui una persona può essere salvata*. Vedi, Armin, questo mondo è estremamente crudele, ma anche… anche bellissimo: abbiamo visto troppe persone morire per rendercene conto, però di fronte al miracolo della vita possiamo solo credere…"

"Cosa?" le domanda quando lei tace e rincorre parole che non sa pronunciare.

"Lo so da tempo, ormai… ma ho aspettato per dirtelo. Devi tornare a credere che la vita sia un dono meraviglioso e ti dono questa sciarpa, come regalo di Natale: voglio che sia tu ad avvolgerla attorno al collo di mio figlio."

"Se Eren non fosse morto, tutto questo non sarebbe accaduto. Io mi ricordo di lui" ammette, con il capo chino e la falsa speranza di aver intrapreso la strada che porta ad accettare la morte.

"Promettilo, ti prego."

Armin si nasconde in un sì stentato, ma quella notte resta sveglio a divorare i sensi di colpa che gli maciullano le dita che ha poggiato sul battito di una vita nuova che lui non conoscerà mai.

Il venticinque dicembre, Shiganshina si sveglia sotto i raggi d'un sole che finge di scaldare — non scalda, però, chi adesso ha il naso all'insù e guarda cos'è accaduto mentre la terra tremava.

Armin è lo scheletro di un gigante che s'è piegato di fronte a una vita che ha tolto troppo e donato troppo poco: s'abbraccia a un'ancora che ha sigillato le mura e regalato protezione anche da morto, come fosse la  realizzazione di una promessa che Armin stesso non è riuscito a mantenere, ma adesso giace senza forza in un corpo che non è il suo e i muscoli hanno smesso di bruciare.

È l'ultimo filo di voce che rilascia quando Mikasa s'avvicina e ha gli occhi annaffiati di consapevolezza: "Paradis sarà un posto sicuro. Da ora in poi, proteggerò per sempre queste mura, insieme a Eren: è l'unico modo che ho per mantenere la promessa che ti ho fatto. Io non ho perso… non sono scappato."

 

L'inferno esiste solo

Per chi ne ha paura.


Angolo Autrice:

 

Questa storia partecipa all'iniziativa "the Christmas Wheel" indetta dal gruppo Facebook Hurt/Comfort Italia in cui le frasi sono state selezionate a caso.

Questa volta sono state estratte:

"Quand'è stata l'ultima volta che hai dormito?" e "Per favore, fammi entrare."

 

Avevo una trama in mente e non so com'è possibile che da queste due frase semplicissime sia nato tutto ciò, vi chiedo scusa. Davvero.

 

La frase contrassegnata dall'asterisco è parte dei dialoghi del film Titanic.

 

Le frasi impaginate al centro sono strofe di una bellissima canzone, Preghiera in gennaio di Fabrizio De Andrè dedicata a Luigi Tenco.

 

Credo di aver detto tutto e grazie per essere arrivati fin qui.

 
 
   
 
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