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Autore: Sofifi    02/01/2022    1 recensioni
Lily Luna Potter: figlia premurosa, alunna giudiziosa, seduttrice sfrenata.
Una serie di omicidi ad Hogwarts stravolgerà l’anno scolastico e la più giovane dei Potter, ben presto, si renderà conto di essercene invischiata sino al collo!
Col padre e lo zio a scuola ad indagare, Lily dovrà fare i conti con sua identità frantumata e le sue maschere: ne ha una per ogni occasione, ma come farle convivere? E, infine, cosa sceglierà? Rivelerà a tutti i suoi segreti e aiuterà gli auror a trovare il colpevole o manterrà il silenzio, salvaguardando così la propria reputazione?
Coppie: Albus/Scorpius, LilyLuna/Sorpresa, Harry/Ginny, e molte altre...
Genere: Angst, Drammatico, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Albus Severus Potter, Harry Potter, Lily Luna Potter, Ron Weasley, Scorpius Malfoy | Coppie: Albus Severus Potter/Scorpius Malfoy, Harry/Ginny, Ron/Hermione
Note: Lemon, Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Nuova generazione
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- Questa storia fa parte della serie 'Black Widow'
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per augurarvi BUON ANNO!
 
Sofifi
 
 

MEMO:
Il capitolo precedente era terminato con Benjamin che si ritirava in camera in anticipo a causa del mal di stomaco e con un Tassorosso che, manifestando gli stessi identici sintomi, veniva accompagnato in infermeria.
 



PERSONAGGI PRINCIPALI:
Lily Luna Potter, Serpeverde, 5°anno, fidanzata di Tom Davies
Tom Davies, Corvonero, 7°anno, fidanzato di Lily Luna Potter
Albus Severus Potter, Grifondoro, 7°anno, fidanzato di Scorpius
Scorpius Hyperion Malfoy, Serpeverde, 7°anno, fidanzato di Albus
Harry Potter, ex Grifondoro, auror (undicesima squadra)
Ronald Bilius Weasley, ex Grifondoro, auror (undicesima squadra)
Carter Morgan, ex Corvonero, giovane auror (undicesima squadra)
James Sirius Potter, ex Grifondoro, allievo auror
 
ALTRI PERSONAGGI PRESENTI NEL TERZO CAPITOLO:
Minerva McGranitt, ex Grifondoro, Preside di Hogwarts
Domitille Apollinaire, ex studentessa di Beauxbatons, specializzanda in Medimagia
Poppy Chips, ex Tassorosso, infermiera di Hogwarts
Emma Chimney, ex Grifondoro, giovane auror (seconda squadra)
Kason Longmann, ex Tuono Alato, auror (seconda squadra)
Ernest Shelley, ex Corvonero, auror anziano (seconda squadra)
Rafael Gonçalves, Tassorosso, 6° anno
Jonathan Figg, Tassorosso, 5°anno
Cider Baston, Tassorosso, 6°anno
Orson Baston, Tassorosso, 6°anno
Grace Hoogan, Tassorosso, 5°anno
Sebastian Paciock, Tassorosso, 3°anno
Tiberius Nova, Tassorosso, 7°anno
Harry Whitehorn, Grifondoro, 7°anno
William Stump, Grifondoro, 7°anno
Rose Weasley, Grifondoro, 7°anno
Hugo Weasley, Grifondoro, 6°anno
Mark Talbott, Grifondoro, 6°anno, migliore amico di Hugo
Amelia Garland, Grifondoro, 6°anno
Madalynn Nott, Serpeverde, 5°anno, amica di Lily
Cadyah Morton, Serpeverde, 5°anno, amica di Lily
Ileen Selwyn, Serpeverde, 5°anno, amica di Lily
Dennis Otto, Serpeverde, 7°anno
Morrison Sandome, Serpeverde, 7°anno
Nathaniel Cowley, Serpeverde, 6°anno
Nazanin Alizadeh, Corvonero, 1°anno
Minerva Paciock, Corvonero, 1°anno
Lorcan Scamander, Corvonero, 6°anno
Malcom Baddock, ex Serpeverde, professore di Pozioni e Capo della Casa di Serpeverde
Neville Paciock, ex Grifondoro, professore di Erbologia e Capo della Casa di Grifondoro
Anthony Goldstein, ex Corvonero, professore di Difesa Contro le Arti Oscure e Capo della Casa di Corvonero
Rolanda Bumb, ex Grifondoro, insegnante di Volo




 
Black Widow

La Vedova Nera



CAPITOLO 3







 
3. 1
 
Le dita tremanti di Domitille Apollinaire accarezzavano il viso sudato e ormai immobile del paziente. Un bezoar integro giaceva sul lenzuolo sgualcito del lettino dell’infermeria.
“È troppo tardi”, erano bastate tre parole per farle crollare il mondo addosso. Tre parole pronunciate con tono secco e rassegnato dalla sua mentore, Madama Chips, e che significavano resa, fallimento, morte.
Rafael era entrato in infermeria decine di volte, e ne era uscito sempre sulle proprie gambe; questo, però, non sarebbe più successo. Mai più.
Domitille gli passò un indice sullo zigomo destro, quello che il ragazzo si era rotto durante un allenamento di quidditch l’anno precedente e che gli aveva riparato proprio lei, per la prima volta senza la supervisione di Poppy.
“Avevi fatto un ottimo lavoro”, la rassicurò l’anziana, a cui non era sfuggita l’esitazione su quel punto del viso.
“Grazie. Ma non è servito a molto...”
“Non è colpa tua se è morto.”
Domitille si chiese se fosse davvero così; forse, se avesse chiamato subito Poppy, se si fosse accorta immediatamente della gravità della situazione… lui sarebbe sopravvissuto.
Madama Chips sfiorò la testa di Tille, come per infonderle coraggio, poi riprese a parlare: “Vado ad avvertire la preside,” annunciò, “tu fa’ attenzione.”
Non appena Poppy fu fuori dalla porta, Domitille scoppiò in un pianto disperato.
 
 
 
 
 
Circa un anno prima
 
La porta dell’infermeria cigolò, aprendosi e lasciando entrare nella stanza una figura zoppicante. Madama Chips si voltò in direzione del rumore, e non provò neppure a dissimulare l’espressione esasperata che le apparì in viso; era Rafael, di nuovo, e non era nemmeno ancora iniziato il campionato di quidditch!
Stai per caso cercando di stabilire un record?”, sbuffò infatti l’anziana, indicandogli un lettino con la bacchetta.
Anche per me è un piacere rivederti, cara Pop.”
Madama Chips grugnì, indispettita, poi si avvicinò al lettino, liberando la visuale del ragazzo, che solo in quel momento notò la seconda figura presente nella stanza: una figura giovane e alta, con una lunga treccia biondo cenere calata sulla spalla.
Poppy, non mi presenti la tua nuova affascinante amica?”
Domitille arrossì, e si voltò di scatto in direzione del mobiletto delle garze. Non amava essere al centro dell’attenzione, soprattutto di quella sfacciata di chi non conosceva neppure.
Avrei preferito risparmiarle questa condanna, ma già che hai pensato bene di tornare qui...”
Che vuoi farci, mi mancavi”, ribatté Rafael, avvicinando le dita per formare un cuore nell’aria, facendo sbuffare – ancora – la guaritrice anziana.
Lei è Domitille Apollinaire, specializzanda. Probabilmente prenderà il mio posto, quando andrò in pensione… se non la fai impazzire prima.”
Mi rimangono solo tre anni ad Hogwarts, per tua fortuna”, provò a rassicurare la giovane Rafael.
Basteranno, basteranno, avanzeranno...”, borbottò Madama Chips tra sé e sé, allontanandosi per prendere una pozione dalla stanza accanto.
Scusa; non volevo metterti in imbarazzo, prima.
A volte, lo ammetto, mi piace fare lo scemo...”, si giustificò il ragazzo, non appena furono soli.
A quanto pare ti piace anche farti male...”, replicò Domitille, infastidita.
Rafael scoppiò a ridere, poi piegò la testa per nascondere una smorfia di dolore.
Tutto bene?”
Sì, sì… Tutto nella norma. Adesso arriva LilPop e vedi come mi risistema…
Tra poche settimane comincia il campionato e devo essere in forma.” Rafael si strinse la testa tra le spalle. “Dobbiamo vincere, assolutamente… vinceremo.”
Sei molto sicuro di te”, commentò Domitille, accennando un sorriso sbilenco.
Non ho motivo per non esserlo, e non amo fare il finto modesto.”
La giovane scoppiò a ridere di gusto.
Ti assicuro che non rischi di passare per modesto.
Non mi hai ancora detto come ti chiami, comunque.”
Chiamami Rafe.” Il ragazzo allungò la mano in direzione di Domitille, che subito gliela strinse. “Sento che diventeremo buoni amici, quindi ti lascio usare il mio soprannome.”
Dovrei esserne onorata?”, scherzò lei.
Fai te”, ribatté il ragazzo, “Sappi solo che la mia amicizia viene con le sue ricompense...”, aggiunse poi malizioso.
Domitille pensò quasi di tapparsi le orecchie, aspettandosi chissà quale battuta volgare; per fortuna, però, il ragazzo la stupì positivamente.
Se vincerò, dedicherò la coppa a tutti i miei amici.”
La giovane tirò un sospiro di sollievo, rincuorata, prima di rispondere:“Allora vedi di vincere, nessuno mi ha mai dedicato una coppa.”
Tu vedi di fare bene il tifo.”
 
 
 
 
 
Sette mesi dopo
 
Quando Rafe si svegliò da quel sonno profondo, indotto da un Distillato Soporifero, trovò Domitille a vegliare su di sé.
La ragazza aveva il volto teso e lo osservava, evidentemente contrariata.
Rafe avrebbe voluto dire qualcosa per spezzare quell’immagine severa – si sentiva sempre a disagio nelle situazioni serie – ma la gola secca gli impediva di parlare. Quando finalmente ci provò emise solamente una serie di rauchi suoni animaleschi, dei quali si vergognò istantaneamente, e che lo fecero arrossire, e poi tossire, e poi ripiegare in un sussulto di dolore.
No, sta’ fermo,” lo avvertì Domitille, senza indugio, raddrizzandolo subito nel letto, “devi cercare di non muoverti.”
Nonostante volesse mantenere una facciata dura, Tille era felicissima che Rafe si fosse finalmente svegliato. Aveva spaventato tutti, col suo scherzo, quella mattina.
Ma se, da una parte, era rincuorata nel veder Rafe star meglio, dall’altra rimaneva comunque preoccupata: quello sprezzo del pericolo avrebbe portato il ragazzo a rischiare ancora e ancora, e, prima o poi, le cose sarebbero finite male per lui.
Tille dissimulava il sollievo e manteneva lo sguardo serio fisso sul giovane, che si schiarì la gola prima di chiedere un bicchier d’acqua.
La ragazza lo aiutò a bere, tenendogli la testa e piegando il bicchiere verso le sue labbra socchiuse.
Allora, abbiamo vinto?”, chiese il ragazzo, non appena Tille si staccò da lui.
Abbiamo vinto?
Domitille era scioccata! Era quella la prima cosa che voleva sapere Rafael!?
Abbiamo vinto?
Era più importante un risultato, delle sue costole in frantumi!?
Sei un vero idiota!”, sbottò la giovane assistente, non riuscendo a trattenersi“Un vero idiota!”
Domitille, persa dal viso l’espressione severa, aveva subito cominciato a tremare dal disappunto e dal dispiacere.
A Rafe non piaceva deludere gli amici; se non gli fosse importato tanto di loro, dopotutto, non si sarebbe mai sacrificato lanciandosi a corpo morto dalla scopa per parare quella pluffa.
Eppure così facendo aveva deluso Tille: quell’amica che era quasi più una sorella maggiore, in quel luogo pieno di freddi inglesi.
Comunque sì, avete vinto.”
Domitille gli concesse quella risposta sbuffando, ma non riuscì a placare il tremore.
Rafe doveva allentare la tensione, ancora stordito dalla pozione soporifera e dall’Ossofast, però, non riusciva a pensare in modo lucido.
Come suo solito, provò a mettere la questione sul ridere: “Almeno non ho preparato inutilmente il mio discorso…”
Quel tentativo non fu apprezzato a dovere: “Prima, però, lascia che te lo faccia io, un bel discorso,” lo avvisò infatti Domitille. Lei sì che ne aveva di cose da dire all’amico, impavido cacciatore che in un lampo di genialità aveva pensato di improvvisarsi portiere.
 
 
 
La mente di Domitille stava per volare al giorno della premiazione e del discorso strappalacrime di Rafe, quando un secco “Ehi” la riportò alla realtà.
La giovane specializzanda si liberò gli occhi dalle lacrime con un movimento veloce dei palmi poi, imbarazzata, alzò lo sguardo in direzione del suono che l’aveva colta di sorpresa.
Due giovani con addosso una mimetica nera la guardavano curiosi, da chissà quanto tempo… L’auror donna aveva le labbra ancora schiuse storte in un’espressione di scherno e gli occhi sporgenti spalancati sotto alle sopracciglia arcuate e sottili. L’uomo dalla carnagione scura e i folti capelli ricci, invece, era spalmato contro la parete e osservava la scena con espressione neutra.
“Ehi,” rispose Domitille in un sussurro.
“Tu devi essere Domiqualcosa…”, fece sbrigativa la donna col caschetto biondo, più interessata al giovane sul lettino.
“Sì, sono Domitille. Guaritrice… Cioè, quasi...”
“Quasi,” rimarcò la giovane in nero, voltandosi verso il collega con un’espressione divertita, enfatizzata dalle sue sopracciglia dalla curvatura innaturale.
“Sono all’ultimo anno di specializzazione,” specificò allora la più giovane dei tre, innervosendosi... Quello non era assolutamente il luogo adatto per le prese in giro!
“Okay, Domiquasi.
“Tille.”
“Certo, ci siamo capite.”
Kason alzò gli occhi al cielo: la collega era una brava persona, ma coi suoi modini riusciva sempre ad infastidire tutti…
“Dai, Emma. Piantala adesso,” l’ammonì infatti.
“Tu smettila di dirmi cosa fare, Kaos,” sbraitò la ragazza dal naso aquilino, prima di riportare l’attenzione su Domitille, “e spero che questa quasi-guaritrice non abbia ripulito il cadavere.”
Alla parola cadavere Tille sbiancò, e i suoi occhi tornarono a riempirsi di lacrime.
“Allora!?”
La giovane specializzanda scosse la testa poi, tremante, indicò uno scaffale: quello sul quale Madama Chips aveva poggiato la bacinella azzurra e lo straccio utilizzato per rinfrescare il viso di Rafe.
Stranamente, Emma aveva perso l’ultima scommessa fatta con Kason; quel giorno, quindi, il lavoro sporco sarebbe toccato a lei.
Senza lamentarsi l’inglesina si avvicinò alla bacinella colma di vomito e cominciò ad analizzare i residui di cibo, alla ricerca di tracce di un veleno in grado di dare un senso a quella morte.
Kason staccò la schiena dalla parete e si accostò a Domitille.
“Lo conoscevi bene?”, chiese l’americano, sfilando dalla tasca un fazzoletto di stoffa pulito e porgendolo alla specializzanda.
Domitille annuì, afferrandolo.
“Mi dispiace tanto,” continuò lui, “dev’essere dura… Se posso fare qualcosa...”
La ragazza nascose il viso nella stoffa.
“Eravamo molto amici. Eravamo come una famiglia,” riuscì a balbettare.
Kason poggiò una mano sulla schiena di Tille e con delle carezze gentili provò a trasmetterle tutta la sua vicinanza.
Vedrai, troveremo chi lo ha ridotto così, avrebbe voluto dirle, ma non sarebbe servito a nulla: non di fronte ad un cadavere. L’americano, allora, rimase in silenzio, sperando che quel contatto rassicurante bastasse a riempire il vuoto nell’animo della francese.
“Tornerà anche il famoso Harry Potter?”, tentò Domitille tra i singhiozzi.
Era curiosa di scoprire se i migliori, i più famosi, si sarebbero mossi anche per Rafe – quel ragazzo immigrato nel Regno Unito da bambino, quel ragazzo senza alcuna connessione con gli eroi della vecchia guerra.
“Sì, credo proprio di sì,” rispose onestamente Kason.
“Probabilmente è già arrivato e si sta accordando con Ernest e la McGranitt,” si intromise Emma, prima di perdere lo sguardo nel vuoto e schiudere le labbra in un sorriso sincero, quasi innocente... così diverso dai suoi soliti ghigni beffardi.
“A che pensi?”, le chiese infatti Kason, incuriosito.
“Oh, a niente,” si ricompose subito la ragazza gracile, “Però ho avuto un’idea, per il veleno… O il mix di veleni, che dir si voglia...”
“Illuminami.”
Emma cominciò a tossire e si allontanò di qualche passo dalla tinozza, poi spalancò una delle finestre dell’infermeria, facendo entrare nella stanza l’aria fredda di novembre.
Kason si morse il labbro, comprendendo il significato di quelle azioni.
“Che veleni?”, sussurrò col batticuore.
Dopo aver preso una boccata di aria fresca, Emma riprese a parlare: “Innanzitutto belladonna,” cominciò la giovane, “ma anche altro… Arsenico?”, ipotizzò, “Credo ci serva uno di quegli studiosi degli elementi…”, ammise infine. C’era qualcosa di strano, in quel vomito, ma Emma non era sicura di cosa. “Magari è un qualche veleno babbano…”, ipotizzò quindi, “Loro hanno inventato roba forte.”
Proprio in quel momento la porta dell’infermeria si spalancò col suo solito cigolio stridente; i volti di Ernest, Minerva, Poppy, Harry, Ron e Carter spuntarono, uno dopo l’altro, dalla fessura che si andava ad allargare sempre più.
“Non entrate!”, Emma avvertì immediatamente i nuovi arrivati, “C’è qualcosa che non va…”, aggiunse subito dopo, facendo un cenno in direzione della mastella blu.
Ernest Shelley, con un gesto brusco, fece indietreggiare le persone ferme sull’uscio, poi finì di spalancare la porta ed entrò nella sala, seguito da Madama Chips.
Emma squadrò il superiore con espressione torva e accusatoria: “Non ci tieni proprio più per niente, allora, alla tua pellaccia raggrinzita!”, lo accusò.
“Faccio questo lavoro da una vita,” rispose l’anziano in tono bonario, “Non credi che sappia qualcosa in più di te?”
Con uno sbuffo l’inglesina si scostò i capelli dal viso poi, appoggiando le mani sui fianchi, provò ad assumere una posa minacciosa: “Più di me? Sicuro!”, confermò, “Ma più di Isobelle? ...Ne dubito.”
Ernest capì subito ciò che Emma stava implicando: sua moglie le aveva chiesto di tenerlo d’occhio! Il vecchio non riuscì a fare a meno di sorridere al pensiero della sua cara Isobelle, che lo amava ancora con la stessa intensità di quando erano poco più che ragazzi e che voleva proteggerlo dalle avversità come se fosse al suo primo anno di carriera. Ma quello non era il momento di pensare a lei...
L’anziano si accostò ad Emma, che, scocciata, lo istruì sulle sue scoperte, poi prese ad analizzare i residui di cibo, mettendo all’opera le proprie conoscenze alchemiche e pozionistiche.
 
 
 
“Non è un veleno babbano, non completamente almeno…”, comunicò Ernest ai suoi dopo qualche minuto, senza smettere di lanciare incantesimi sulla bacinella azzurra e cambiando espressione ad ogni scintilla. Emma si morse la guancia, avvicinandosi al mentore per osservare meglio; Kason invece si voltò in direzione del piccolo pubblico fermo nel corridoio in attesa di un verdetto, incuriosito ed agitato dalla presenza di persone tanto famose.
Un’altra decina di minuti passò nel silenzio generale, poi Ernest Shelley riprese parola, questa volta utilizzando un tono di voce chiaro e udibile da tutti gli interessati: “Ci sono definitivamente traccie, anche se molto sbiadite, di magia nera. Respirare il veleno, però, non dovrebbe essere troppo pericoloso.” Una volta udito quel lasciapassare, la preside McGranitt si precipitò in infermeria, subito seguita dall’undicesima squadra. “Oh, Poppy,” fece l’anziana avvicinandosi all’amica, “Signorina Apollinaire,” aggiunse poi con dolcezza, “Mi affido a voi per la guardia all’infermeria.” Le due donne annuirono, poi la preside strinse la vecchia amica in un abbraccio.
“Minerva, dopo tutti questi anni…”
“Non possiamo permetterlo, non ad Hogwarts!”, proclamò la McGranitt con voce rauca, prima di voltarsi verso il capo della seconda squadra auror, “Posso affidarmi a te, caro Ernest?”
Il signor Shelley accennò un inchino prima di rispondere.
“Mi occuperò personalmente di garantire la migliore difesa possibile alla scuola, Minerva.”
“Perfetto! Troviamoci fra un’ora nel mio ufficio per i dettagli.” Per un momento la donna parve perdersi nei ricordi ma, tempo di battere le ciglia, ed era già di nuovo lucida. “Vado ad avvisare i professori.”
 
 
 
Non appena Minerva ebbe svoltato l’angolo, Ernest Shelley prese in mano la situazione, istruendo gli auror sul da farsi sino all’arrivo dei rinforzi.
I più anziani si ritirarono sul fondo della stanza e cominciarono ad abbozzare il piano per la difesa del castello. Ai giovani, invece, toccò la riesamina del corpo.
“Kason Longmann,” fece l’uomo dai capelli ricci, avvicinandosi al nuovo collega.
Carter Morgan gli diede la mano e si presentò a sua volta, poi rivolse l’attenzione alla ragazza bionda.
“Emma…”
“A me non la dai, la mano, Car?”, rise la donna, spostando una ciocca di capelli secchi dietro l’orecchio. Carter sorrise e riallungò la mano. Emma la strinse e poi con uno strattone fece crollare il vecchio amico su di sé.
“Queste ragazze, ti chiedono una mano e si prendono il braccio,” scherzò lei, chiudendo Carter in un abbraccio subito ricambiato.
“Non mi sembra che ti sia presa solo il braccio…”
“Hai ragione, ho preso proprio tutto.” I due ex compagni di scuola si guardarono e scoppiarono a ridere; Carter aveva il viso tutto rosso.
“Mi sei mancato, sai…”
La bionda lasciò finalmente andare il collega, che non aveva occhi che per lei.
“Anche a me sei mancata. Avevo dato per scontato che ci saremmo visti, per i corridoi o cose simili, e invece…”
“Anche io… Ma...”
Kason fece un passo avanti: “Gli ultimi anni sono stati-”
“Top-secret! Kaos, per le mutande consunte di Merlino!”, sbraitò Emma, incenerendo il compagno di squadra con lo sguardo, “Duri, indaffarati…” spiegò poi, rivolgendosi a Carter, “E non eravamo a Londra.”
“...E poi dici a me.”
“Non ho rivelato niente di importante!”
“E io niente di niente!”
L’inglesina e l’americano si scambiarono un’occhiata agguerrita, ed Emma spalancò la bocca, come per prendere fiato e prepararsi ad una discussione potenzialmente infinita. Carter se ne accorse e “Ragazzi, non importa,” s’interpose allora col sorriso, “diamoci da fare con il corpo.”
I tre, sotto lo sguardo attento ed irritato di Domitille, cominciarono a riesaminare diligentemente il cadavere. Emma si dava da fare con la bacchetta, trovando indizi ad una velocità inquietante; gli uomini arrancavano per starle dietro con le deduzioni.
Dopo un attento riesame la giovane si ritenne soddisfatta del proprio lavoro, abbassò la bacchetta, piantò i piedi a terra e fissò Carter con aria contrariata: “E invece importa,” annunciò quindi con tono deciso, come se fosse naturale riprendere dopo tanti minuti un discorso lasciato in sospeso, “sei stato promosso e non ti ho neppure fatto i complimenti.”
Kason corrugò le sopracciglia, stupito da una Emma tanto diversa da quella a cui era abituato, tanto attenta agli altri. Carter, invece, sentì i muscoli contrarsi sotto una morsa di vergogna, vergogna immotivata – illogica. I complimenti, lui non se li meritava. Non li voleva. Gli ricordavano i suoi fallimenti ed avevano il retrogusto amaro della compassione. Abbassò gli occhi sulle piastrelle di pietra.
“Non sprecare parole in complimenti. Ho avuto fortuna, semplicemente fortuna,” spiegò l’ex Corvonero in un sussurro.
Emma fece qualche passo in direzione dell’ex compagno di scuola; con una mano gli cinse la spalla e con l’altra gli raddrizzò il mento, facendolo rabbrividire. Per un’istante c’erano solamente loro due – come una volta. Ma ormai non erano più ragazzini e Carter si rese improvvisamente conto di quanto fosse risultata patetica la sua inutile precisazione. Avrebbe voluto rimangiarsi ogni cosa – ma il tempo era infame.
Lo stomaco gli si strinse per l’umiliazione e con uno scatto l’uomo scivolò dalla presa di Emma e si voltò verso il morto – gli occhi che pizzicavano e la vista sfumata, come in un preludio di lacrime.
Non poteva perdere la calma così facilmente: era tutto sbagliato… Ma, soprattutto, era sbagliato quel castello, che custodiva ancora troppi, troppi ricordi… Quel luogo rendeva difficile mantenere qualunque apparenza.
La donna osservava la schiena del vecchio amico mordendosi il labbro. Lei sapeva; capiva sempre sin troppo, soprattutto quando si trattava di Carter.
“Ho letto i giornali,” cominciò allora lei fermamente, “e conosco i tuoi meriti.”
Meriti, già… pensò l’uomo, ma arrivati dopo quanti fallimenti?
L’ex Corvonero rimase voltato e finse di ricontrollare qualcosa del corpo – il lenzuolo tenuto stretto tra le dita. Emma fece qualche passo in avanti e lo affiancò: “Ho sempre creduto che ce l’avresti fatta, lo sai.” Era vero, la bionda era sempre stata convinta della genialità di Carter. “Appena possibile ti porto a festeggiare; conoscendoti non l’avrai ancora fatto.”
L’uomo si voltò lentamente verso di Emma – la guancia pizzicata tra i molari, gli occhi sgranati. Avrebbe voluto risponderle che era lei quella davvero dotata – lui era buono soltanto sui libri. Avrebbe voluto dirle che aveva collezionato molti più fallimenti che meriti e che non c’era nulla da festeggiare. Avrebbe voluto...
Eppure sapeva che Emma non avrebbe ammesso repliche, né autocommiserazione.
E allora annuì.
E tanto bastò.
Emma si ritenne soddisfatta di quella risposta incerta; lo si poteva supporre da ogni millimetro del suo corpo. Sorrideva con la sua solita smorfia e dal viso aveva perduto ogni traccia di severità. Si voltò, lasciando Carter ad osservare il vuoto. I più anziani confabulavano sul fondo della sala. Harry Potter era a pochi passi da lei. Harry Pot- Emma spalancò la bocca, sgraziata, strabuzzando ancor più gli occhi già sporgenti e tondi. Fortunatamente il salvatore del mondo magico le stava dando la schiena e non la notò; Ernest, invece, le lanciò un’occhiata furtiva – oh, sì, si sarebbe divertito ad ammonirla per quel comportamento, così poco da signorina. Ma poco importava; tutto ciò a cui Emma riusciva a pensare, in quel momento, era-
L’ex Grifondoro saltellò sino a raggiungere Kason, amico mio – una pacca sulla spalla.
“Ho una nuova scommessa,” sussurrò lei, le labbra piegate in una smorfia maliziosa.
L’americano alzò le sopracciglia. Emma ghignò.
“Il tuo amico? Non vale, si vede da lontano un miglio che gli piaci.”
L’inglesina arricciò il naso e aggrottò la fronte: “No, non lui! E no che non gli piaccio, ma che dici!?”
Kason alzò le spalle, scuotendo lentamente la testa: boh, a lui era parso che- Poi arrivò la presa di coscienza. Se non era quel tipo, quel Carter, ad aver catturato l’attenzione della collega… Oh, cazzo. “Emma!”
“Hai capito?”
“Non dirmi che… No. No, no, no.” Ad ogni nuovo no il tono dell’americano diventava più incredulo e stizzito.
Emma rise: “Già… Potter.”
Kason sbiancò. “È troppo pericoloso, Em! Non ne vale la pena.”
“Sarà divertente!”
“E se si arrabbiasse? Potresti rimetterci il lavoro!”
“Sì, adesso…” La bionda inarcò le sopracciglia – minimizzava. “Addirittura.”
“Tu sei completamente fuori,” bofonchiò l’uomo, guardandola storto.
Emma si strinse tra le spalle.
“E comunque sono convinto che cambierai idea come col Ministro,” continuò sempre lui in un bisbiglio.
“Allora, accetti?”
“Sì, ma solo perché è una vittoria facile.”
Emma sogghignò: “Speraci, Kaos. La prossima volta il lavoro sporco te lo becchi tu.”
 
 
 
Carter aveva approfittato della distrazione di Emma per riavvicinarsi ai compagni. Non si era accorto, sino a quel momento, dell’accesa discussione portata avanti a suon di bisbigli dai due capisquadra. Chissà quando era iniziata… A giudicare dal tono stanco dei due doveva star andando avanti da un po’.
“Potter, ti ricordo che in questa indagine sei un mio sottoposto,” grugnì Ernest seccato, all’ennesima obiezione di Harry.
Il giovane auror si affiancò a Ron per ascoltare meglio.
“Sottoposto… Ma non abbastanza per andare a controllare la Sala Comune di mia figlia, a quanto pare.”
“Mi servi libero; dovete aiutarmi con gli interrogatori.”
“Non puoi lasciarmi chiuso in un ufficio ad aspettare mentre i miei figli sono in pericolo.”
“Concordo, anche secondo me dovremmo andare,” s’intromise Ronald a sostegno dell’amico.
“Scendo nei sotterranei,” ripeté ancora il vecchio eroe, “e se ti rifiuti di darmi il permesso di farlo, non ci penserò due volte prima di pestarti i piedi.”
“E noi andremo con lui,” precisò Ron, sicuro – Carter sostenne i compagni annuendo.
Ernest alzò gli occhi al cielo. “Voi giovani pensate sempre di aver la verità in tasca. A volte, farsi guidare dalle emozioni, non è semplicemente la cosa più efficiente,” provò a spiegarsi un’ultima volta. “Vuoi proteggere i tuoi figli, Harry Potter? Beh, vedi di non dimenticare che tutti, qui, sono figli di qualcuno.”
“Faremo in fretta,” ribatté ancora l’eroe, risoluto.
“Sì, beh… Vedremo. E ora andiamo,” concluse allora l’anziano, amareggiato.
Harry lasciò l’infermeria a passo spedito, subito seguito da Ronald e Carter. Emma e Kason affiancavano il caposquadra barcollante.
“Tutto bene, Harry?”
“Starò bene quando saprò che Albus e Lily sono al sicuro.”
La distanza tra le due squadre aumentava ad ogni passo.
“Ron…” chiamò il moro, senza cambiare andatura.
“Sì?”
“Alla Torre c’è Neville e presto arriverà anche James. È per questo che-”
“Sì, ho capito. Non ti preoccupare.”
“Possiamo fidarci di loro.”
L’undicesima squadra raggiunse in fretta i gargoyle. Era pronta ad incontrar la Preside.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
3. 2
 
Stessa sera, poche ore prima
Torre di Grifondoro
 
Si può essere gelosi di una zanzara? Albus se lo chiedeva da circa mezz’ora, fermo sul letto ad osservare Scorpius che impazziva dietro a quella creatura – anzi che dietro di lui.
Erano passate settimane dall’ultima volta che i due ragazzi avevano trovato del tempo per rilassarsi assieme. Le giornate, solitamente, cominciavano e finivano con un libro. Quindi, insomma: il tempo che potevano passare soli era prezioso. Più unico che raro. Ma Scorpius sembrava essersene dimenticato e continuava a snobbare il fidanzato per uno stupido insetto – e Albus, zitto zitto, si innervosiva ed irritava sempre di più.
Le finestre del dormitorio erano spalancate e la temperatura nella stanza continuava a abbassarsi. Albus si strinse nel suo maglione di lana marchiato Weasley e lanciò un’occhiataccia al fidanzato, che continuava a dargli la schiena con nonchalance.
“Quanto pensi di metterci ancora?”
“Ho quasi finito.”
Dalla punta della bacchetta di Scorpius nacque l’ennesima corrente d’aria e l’insetto impotente si avvicinò sempre più alla libertà. La zanzara volava veloce, obbligata, verso il cielo stellato. Superò l’ultimo baldacchino e l’ultimo baule buttato a terra con sgarbo. Davanti alla finestra, però, frenò e tornò indietro. Al calduccio.
Scorpius aveva commesso l’ennesimo errore, fatto un altro movimento sbagliato.
Albus, sempre più impaziente, lanciò un’occhiata all’orologio da parete appeso sopra alla porta del dormitorio. “Non puoi semplicemente lasciarla stare?”, sbottò, notando che si stava facendo tardi.
Scorpius, che aveva scelto di non perdere di vista l’insetto, appariva immobile e concentrato. Strategicamente nascosta alla vista del più giovane, però, la mano del biondo tremava – lievemente ma incontrollabilmente.
Albus, sempre più convinto di non essere stato ascoltato e sempre più frustrato seguitò a fissare il più grande, che rimaneva muto e continuava a dargli la schiena. Stava ormai per perdere la pazienza quando un ultimo modo per catturare l’attenzione del fidanzato gli si presentò alle porte della mente. Senza esitazione e quasi con rabbia Albus si sfilò il maglione di lana, la maglietta con stampata sopra una scena di una serie tv babbana, i jeans e persino i boxer neri. Rimase nudo, solo i calzini ancora ai piedi – il corpo sedentario e un po’ tozzo, tanto curato e preparato per quella occasione, in bella mostra.
Scorpius si voltò, scivolando sui tacchi delle scarpe lucide, e dopo qualche secondo di sorpresa e incertezza regalò al ragazzo un sorriso sghembo. “Sei bellissimo,” fece con dolcezza, “ma, se lasciassi stare la zanzara, i tuoi compagni la schiaccerebbero alla prima occasione. Lo sai come sono fatti…”
“E non possiamo occuparcene dopo?”
“Non dovrebbe essere una cosa lunga.”
Il tempo di rispondere e Scorpius era nuovamente voltato, tutto impegnato nella sua missione importante. Albus schiuse le labbra, confuso, prima lasciarsi sfuggire uno sbuffo irritato.
Non capitavano spesso occasioni come quella, giornate in cui, liberi da impegni, i due ragazzi potevano anche solo pensare di sgattaiolare subito dopo cena in un dormitorio. L’ultima volta che era successo era settembre e Lysander era ancora vivo. Scorpius, allora, non aveva zanzare per la testa. Allora, anche se ci fossero stati insetti nella stanza, a nessuno dei due sarebbe importato, perché la passione era più importante di tutto il resto e c’era tanta voglia di sentirsi vicini, uniti. Probabilmente d’insetti ce n’erano stati pure, allora, ma nessuno dei due doveva averci fatto caso.
Albus aveva sperato che la promessa sussurrata da Scorpius quella mattina fosse il preludio ad un’altra sera d’amore. Aveva sperato nella passione focosa e nel piacere carnale, senza vergogna.
Ora che era tardi si sarebbe accontentato di rinnovare il ricordo di quel corpo slanciato, sempre più figlio della fantasia. Si sarebbe accontentato del calore della pelle Scorpius a contatto con la sua, e di sconfiggere il freddo senza felpe di lana. Non ci sarebbe stato tempo per molto altro prima dello scoccare del coprifuoco e del ritorno dei compagni di stanza, purtroppo. Forse non ci sarebbe stato tempo neppure per quel poco ma Albus sarebbe stato disposto a rischiare.
“Sco-orp,” mugulò il più giovane, “Per favore…”
La preghiera cadde nel vuoto.
“È da settimane che a malapena mi tocchi.”
Scorpius s’immobilizzò e abbassò la bacchetta. La zanzara fuggì verso il centro della stanza e cominciò a ronzare sopra al baldacchino di Albus.
Il biondo si voltò, lento, mostrando il viso pallido e senza parole. Il volto di chi era stufo, annoiato e forse aveva anche qualche segreto.
Albus si sentì bruciare dall’imbarazzo, dai dubbi e dalla frustrazione. Si sentì stupido e indesiderabile. Avvertì la propria nudità vergognosa e con un gesto sconnesso della mano afferrò la maglietta che si era appena tolto e si coprì alla bell’e meglio.
Scorpius notò che la zanzara si era posata sulla spalla di Albus e fece per dire qualcosa. Schiuse le labbra sottili gonfiando la pancia e si accorse che tutto il suo corpo stava cominciando a vibrare in modo inusuale – non più solo la mano – e che rilassarsi e nascondersi stava diventando impossibile. Era impossibile. Il ragazzo piegò le labbra in una smorfia, che Albus interpretò come disgusto, e affondò le mani nelle tasche. Il minore, farfalle mortificate a ribellarsi nel suo stomaco, in fretta e furia raccolse anche il resto dei vestiti ed incerto e confuso si precipitò verso il bagno.
La zanzara sazia riprese a volare per la stanza.
Scorpius si strinse nella stoffa pregiata della divisa e si lasciò scivolare sul pavimento. Ma che stava facendo? Cominciò a singhiozzare, disperato, travolto da tutte quelle emozioni che per molto tempo aveva provato a nascondere.
La zanzara canzonatrice gli si posò sul polpaccio rimasto scoperto. Scorpius la intravide, la realtà distorta dalle lacrime, e in raptus di pura follia la colpì con una sberla.
Era morta.
Scorpius non aveva bisogno di vederlo per saperlo ma ritrasse comunque la mano, portandosela davanti agli occhi. Sul suo palmo una piccola chiazza grigia e rossa rappresentava la fine di una vita innocente. Sulla sua pelle l’insetto schiacciato era la morte della morale.
Non appena si rese completamente conto di ciò che aveva appena fatto, il ragazzo cominciò a strofinare la mano sulla stoffa nera, spasmodicamente, come se assieme a quel corpo spiaccicato potesse grattarsi via dal palmo anche la sua colpa… e tutti i suoi errori.
E fu in quel momento, mentre le lacrime gli scendevano copiose sul viso, che Scorpius lo pensò per la prima volta. Sono un mostro. Io ho ucciso.
Ma non era solamente quell’ultimo gesto a far sì che il ragazzo si ritenesse tale. Scorpius sapeva che i suoi sentimenti per Lily gli erano sfuggiti di mano ormai da troppo tempo, e che il suo futuro pendeva letteralmente dalle labbra della sorella del suo ragazzo – in tutti i sensi possibili. Scorpius era certo di amare Albus, ma era meno certo di non amare anche Lily. Il suo sentimento per la ragazzina, pur non essendo corrisposto, non si era mai affievolito e continuava a farlo dannare ogni singolo giorno.
Il ragazzo, fortunatamente, aveva imparato a tenere a bada le proprie azioni – non voleva ripetere l’errore commesso due estati prima – ma i suoi pensieri erano ancora totalmente fuori controllo: lo portavano ad immaginare cose impossibili e pericolose, cose che sarebbero venute in mente soltanto a dei mostri, cose che un ragazzo fidanzato ed in una relazione felice non avrebbe dovuto assolutamente ponderare.
Scorpius sentì dei rumori oltre alla porta del bagno e si asciugò velocemente la faccia. Si alzò e con un colpo di bacchetta richiuse la finestra che aveva reso la stanza gelida. Poco dopo Albus uscì dal bagno, completamente rivestito.
“Ho fatto,” mentì Scorpius, nascondendosi dietro ad un tono strafottente, “Se soltanto avessi aspettato un attimo in più…”
Albus fulminò il fidanzato con uno sguardo pieno d’ira e di tristezza ed incrociò le braccia al petto.
“Si può sapere che razza di problemi hai!?”
Scorpius sapeva che quella domanda rappresentava un ultimatum dettato dall’esasperazione e sapeva anche che rifiutandosi di rispondere avrebbe spezzato il cuore al suo ragazzo. Parlare, però, spiegare tutto… avrebbe portato al medesimo risultato.
Certo, Albus si meritava qualcuno di meglio, una persona in grado di amare solo lui, eppure il biondo dubitava che potesse esistere qualcuno, nell’intero universo, in grado di amarlo tanto quanto lui. E Albus si meritava tutto l’amore possibile. Scorpius voleva dargli tutto l’amore possibile. Cosa c’era di sbagliato?
Beh, Scorpius era nato con tanto amore nel cuore, troppo per amare una persona sola, troppo per non apprezzare il bel corpo di un estraneo o il carattere interessante di un amico; troppo per non innamorarsi anche di Lily Luna Potter, ed era tutto lì lo sbaglio. Uno sbaglio irrimediabile, perché faceva parte della sua natura di mostro.
Scorpius fissava Albus e pensava ad una via d’uscita che però non c’era.
Scorpius fissava Albus respirando a fatica – gli occhi lucidi pronti a sciogliersi sotto al peso della sua colpa.
“Mi dispiace,” sussurrò, “ti prego, perdonami,” implorò poi, ricominciando a piangere.
Albus si affrettò a raggiungere il suo ragazzo e lo strinse in un abbraccio goffo.
“Sei stato uno stronzo stasera. Ma non importa, certo che ti perdono…”
“N-no,” ribatté allora il biondo singhiozzando, “non per questo. S-sono pessimo per te, dovresti lasc-”
“Non parlare a vanvera,” si affrettò a fermarlo Albus, “mi spaventi.”
Quell’abbraccio disperato ebbe vita lunga. Albus lasciò andare il corpo del fidanzato solo quando i singhiozzi terminarono. Scorpius rimase impalato in mezzo alla stanza con gli occhi serrati, incapace di tenere testa ad uno sguardo interrogativo, o preoccupato, o- Non voleva neanche pensarci.
“Non tornare sotto, stasera,” suggerì Albus dolcemente, sfiorandogli appena la tunica, già dimentico di tutti i dubbi e di tutta la rabbia.
“Ma i tuoi compagni…”
“Se ne faranno una ragione. Con tutte le ragazze che si porta in camera Harry ogni settimana sarebbero degli ipocriti a lamentarsi di te. E poi, al contrario della fidanzata di William, non russi neppure.”
Scorpius sapeva che i compagni di Albus, una volta notata la sua presenza – perché prima o poi era probabile che l’avrebbero visto –, non avrebbero lasciato passare facilmente la cosa. Dopo una cascata di insulti i tre bulletti molto probabilmente si sarebbero mobilitati per far sì che venisse loro assegnata una punizione esemplare. Magari, questa volta, anziché cercare il Professor Paciock, sarebbero andati dritti dritti sin dalla preside. Scorpius Malfoy ha passato la notte nel letto di Albus: bel modo per rovinarsi la reputazione proprio l’ultimo anno.
Eppure, nonostante Albus sapesse tutte queste cose ancor meglio di Scorpius, gli aveva chiesto di restare. “Dai, dormiamo insieme.” E che Albus l’avesse proposto per star vicino ad uno Scorpius in condizioni bizzarre era assolutamente palese, ma che il biondo accettasse, dopo che si era visto sfuggire dalle labbra quel dovresti lasciarmi, non era di certo altrettanto ovvio. Eppure, passare la notte tra le braccia di chi aveva paura di perdere, era proprio ciò di cui il più grande aveva bisogno. Albus non lo sapeva ma la loro relazione era appesa al filo di un rasoio e Scorpius non avrebbe rinunciato per nulla al mondo a respirare la stessa aria del suo ragazzo per una notte intera – che dopo quel giorno e quelle parole sfuggite temeva potesse anche essere l’ultima insieme.
“Dai, vieni,” fece Albus, prendendo Scorpius per il polso e conducendolo sino al suo baldacchino, “cos’è che ultimamente ti rende così nervoso?” domandò poi, chiudendo le tende.
Scorpius sospirò, lasciandosi cadere sul materasso. “Non mi riesco a concentrare,” spiegò, restando vago, “sono solo nervoso. Ho paura di fare degli errori e-”
“E?”
In quel momento qualcuno aprì impetuosamente la porta, facendola sbattere contro la parete scrostata.
“Ma che cazzo di freddo fa in questa stanza!?”, sbraitò Harry Whitehorn, prima di liberare un rutto al gusto di arrosto e dirigersi verso il bagno.
Albus scivolò accanto al fidanzato e rise nell’incavo del suo collo.
“Non ti irrita che quel coglione si chiami come tuo padre?”, fece Scorpius, infastidito all’idea di quella fragranza che si espandeva nell’aria.
Albus alzò le spalle, ancora giocoso. “Ci sono abituato, ormai. E poi arriva ogni sera, puntuale; i suoi rutti sono come una favola della buonanotte.”
Scorpius arricciò il naso ma poi ricambiò il sorriso del suo ragazzo. Osservarlo, quella sera, era difficile, così il maggiore optò per appoggiarsi al suo petto e chiudere gli occhi.
 
E?
Ho tanta paura di perdere te.
Cedettero entrambi al sonno.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
3. 3
 
Nello stesso momento, nei sotterranei, anche Lily Potter dormiva.
 
Era da poco scattato il coprifuoco ma diversi gruppetti di studenti erano ancora sparsi per la Sala Comune – incuranti dell’ora e per nulla spaventati dall’eventualità d’incontrare quel pappamolle mangia-scuse di Baddock.
Ileen, Cadyah e Madalynn erano sedute su un divanetto vista lago. La prima era arricciata sul bracciolo e si stava stendendo lo smalto, tutto sbilenco, sulle unghie mangiucchiate; la seconda, un sacchetto di plastica attorno alla testa, giocava coi capelli biondi della sua migliore amica; la terza, Madalynn, le familiari dita di Cadyah su di sé, rifletteva da ore sulle stesse cose di sempre.
“Ma secondo voi l’ha davvero conquistato così, Tom Davies?”
L’ossessione di Madalynn per Lily Luna era nata quando la più piccola di casa Potter si era fidanzata con il ragazzo di cui era infatuata, e non era mai sfumata.
“È importante?”
Cadyah aveva capito che quella fissa stava lentamente consumando l’amica, che viveva in un universo fatto di paragoni in cui il senso d’inadeguatezza regnava sovrano, e avrebbe tanto voluto fare qualcosa per aiutarla – eppure non riusciva a comprendere quale fosse la chiave di volta, quali parole potessero essere vento in quella nebbia di pensieri negativi.
“Certo che lo è! Non si erano mai neanche scambiati un saluto, prima. Anche tu eri d’accordo che fosse strano, ‘dyah!”, sbottò la bionda, infervorandosi.
“Quasi due anni fa, Mad. È passato tanto tempo, ha ancora senso pensarci?”, provò a capire la ragazza col sacchetto in testa.
“Certo! Scoprire la verità è sempre la cosa più importante.”
Ileen, che fino ad allora non aveva dato segno di star seguendo quella conversazione, sbuffò, si tirò in piedi e lanciò un’occhiata all’orologio, mordendosi il labbro, poi spostò l’attenzione su Madalyn.
“Lily ci ha detto che si sono scontrati in treno ed è stata attrazione a prima vista. Perché non dovremmo crederle?”, soffiò.
“Perché è improbabile.”
Ileen rise. “Forse per una come te,” sputò perfida.
Madalynn rimase pietrificata a labbra storte e appena schiuse, da parole più taglienti di un Diffindo. Cadyah si alzò di scatto dal proprio posto e, mano destra sulla bacchetta raccolta in tutta fretta dal divanetto, fronteggiò la compagna di stanza dalla lingua avvelenata.
“Cosa pensi di farmi?” chiese Ileen sghignazzando, senza provare a difendersi né a spostarsi di un solo passo.
“Costringerti a chiedere scusa.”
La ragazzina col caschetto nero allungò la mano e strinse quel legno tra il pollice e l’indice, poi, senza incontrare resistenza, se lo spostò da davanti al naso. “Lascia che ti dia un consiglio: quando cerchi di risultare minacciosa prova ad impugnare la bacchetta dalla parte giusta,” sibilò.
Cadyah arrossì e lasciò ricadere il braccio.
“E scusa Maddie, ma almeno ogni tanto dovresti pensare ad altro. Rischi di diventare noiosa e sembrare gelosa… Non una bella combinazione.”
Cadyah si morse il labbro e spostò lo sguardo sulla sua migliore amica.
“Io non sono gelosa…” sussurrò lei, in quella che – lo sapevano bene tutte e tre – non era altro che una bugia.
Ma ad Ileen non è che interessassero poi più di tanto le bugie di Madalynn; alzò le spalle e lanciò un’ultima occhiata all’orologio. Era molto tardi, ormai. Oltre a loro, nella sala, era rimasto solo Dennis con un libro in mano.
“Mi sa che vi saluto,” fece l’ultima dei Selwyn, rinunciando definitivamente a verniciarsi le ultime due unghie rimaste nude, “sto morendo di sonno.” Richiuse la boccettina di vetro e se la infilò in tasca, poi se ne tornò in dormitorio, lasciando Cadyah e Madalynn a borbottare.
 
 
 
 
 
Ileen rientrò in camera di soppiatto. Accese l’abat-jour sopra al proprio comodino e lasciò che la stanza si illuminasse di una flebile luce bianca.
“Sei sveglia?”, bisbigliò, voltandosi verso il baldacchino di Lily. Non ricevendo risposta, la ragazza dedusse che la compagna di stanza stesse dormendo, e allora sorrise e si avvicinò a passi felpati al letto dell’amica. Si lasciò scivolare tra due tende verdi e si ritrovò davanti mezzo volto disteso, pallido e struccato. Labbra carnose e guance lisce e paffute. L’altra metà del viso di Lily era coperta da una mascherina per gli occhi color panna – in satin.
Lily dormiva coi capelli sciolti e ondulati distesi sul cuscino, le coperte stropicciate e una gamba all’aria. Così rilassata sembrava una persona qualunque, ma Ileen vedeva solo ciò che voleva e davanti a lei, allora, non c’era una ragazzina ma una donna misteriosa, elegante e ordinata, coi capelli legati in un’acconciatura intricata e le guance dipinte. Una donna bellissima.
Ileen restò immobile ad ammirare l’amica finché Lily non cominciò a muoversi e a rigirarsi su un fianco. Allora decise di tornare al suo baldacchino e, dopo uno sbadiglio, chiuse anche le sue tende e si stese a pancia in su sul materasso.
 
Un’ora dopo il silenzio venne rotto da urla disperate.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
3. 4
 
“Pensi che cambieranno colore?”
Dennis si era da poco ritirato nella propria stanza ed ormai in Sala Comune rimanevano solamente Madalynn e Cadyah.
“Mmh, in teoria con la stratificazione dovrebbero scurirsi ma non si può mai sapere.”
La ragazzina più gracile passò un fazzoletto all’amica. Cadyah lo prese in mano e lo utilizzò per ripulirsi la tempia coperta da una sostanza rossa e vischiosa, poi lo fece sparire dentro al sacchetto che le avvolgeva la testa.
“Ci sono altre perdite?”
Madalynn fece vagare lo sguardo lungo il capo e il collo dell’amica, poi pronunciò un no perentorio.
Assieme a quel no il muro della Sala Comune cominciò a scivolare.
Non appena Madalynn notò Malcom Baddock dalla prima fessura iniziò a ripensare alla scusa che aveva trovato ‘dyah, preparandosi mentalmente a rispondere alla domanda del direttore della casa ad alta voce. Quando però cominciarono ad apparire anche altri tre uomini, oltre al loro professore, Madalynn si voltò verso l’amica con aria confusa.
Cadyah riconobbe subito la divisa degli auror, il celebre aspetto del padre di Lily, il volto vigile di Ronald Weasley... e si chiese cosa potesse significare quell’incursione nei sotterranei nel cuore della notte. Sperò si trattasse semplicemente di un controllo a random o di routine. Eppure, quei visi segnati dalla preoccupazione raccontavano una storia assai diversa.
Impulsivamente, Cadyah prese l’amica per mano. Avrebbe voluto sussurrarle di aver cambiato idea, di non voler raccontare bugie di fronte a dei membri del Ministero, ma era come se la gola le si fosse improvvisamente prosciugata e… non riuscì ad emettere alcun suono.
Non appena Harry Potter notò le due ragazzine piegò le labbra verso il basso e liberò un sospirò, poi mosse la testa in direzione di Baddock. Il professore aprì il taccuino che teneva tra le mani e cominciò a scriverci sopra frettolosamente.
Passò qualche momento, poi il gruppetto formato dai quattro adulti riprese ad avanzare, in direzione delle scale per i dormitori.
La faccenda si stava facendo sempre più misteriosa... ma per lo meno, pensava la Morton, non avevano dovuto mentire.
“Pensi che finiremo in punizione?”, fece Madalynn.
Cadyah si morse il labbro e deglutì a vuoto: “Beh, Forse…”
E poi le due rimasero in silenzio, in attesa – di cosa, non lo sapevano ancora.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
3. 5
 
Quando il primo urlo squarciò l’aria nessuno pensò al peggio.
Ma presto arrivarono altre grida – grida disperate, grida strazianti – e tutti ebbero la consapevolezza che non poteva che essere accaduto qualcosa d’immensamente grave.
 
Per Madalynn e Cadyah udire quelle urla fu come sbloccarsi. Le due amiche balzarono in piedi, quasi simultaneamente, e senza riflettere cominciarono a correre, su per le scale e sino all’origine di quel caos.
Il fragore proveniva dal dormitorio dei ragazzi del sesto anno, quello con già un letto di troppo. Dennis era nel corridoio e osservava intimorito la porta della stanza accanto alla sua.
“MA CHE È SUCCESSO?”, strillo Madalynn, per farsi sentire in mezzo a quel frastuono.
Dennis si voltò verso le due ragazze e scosse le spalle. Cadyah allora si avvicinò alla porta e provò ad aprirla, prima normalmente e poi con un Alohomora, ma non ci fu nulla da fare. Dopo averci provato ancora e ancora, sin troppe volte, la ragazzina col sacchetto in testa abbassò la bacchetta, si spostò contro il muro e cominciò a piangere.
Il corridoio iniziò a riempirsi di studenti di tutte le età.
Madalynn affiancò Dennis e speranzosa chiese: “Ci saranno gli auror, lì dentro, no?”
Dennis osservò la ragazzina, confuso: “Ci sono gli auror?” Ovviamente non poteva saperlo.
Cadyah si era nuovamente spostata sulla porta e, riconoscendo l’origine di quelle grida, aveva cominciato a bussare insistentemente e a chiamare il nome di Nathaniel.
“NATHANIEL, NATHANIEL!”
Ormai il corridoio era stato invaso. Qualcuno diede una spinta a Maddie, che cadde a terra slogandosi il polso.
“...NATHÌ, NATHÌ...”
Quando la porta cedette per un istante e il direttore della loro casa spuntò da quella stanza, tutta la calca si riversò su di lui.
Ma che è successo!?”
Professore?”
Madalynn, facendo lo slalom tra la folla, riuscì a raggiungere nuovamente l’amica e
a prenderla per mano con l’arto non dolorante.
Ormai quasi tutti erano nel corridoio a cercare di capire cosa stesse succedendo. Mancavano solamente Lily, Ileen, Scorpius… e pochi altri.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Quando cominciarono le urla Lily era immersa in un sonno profondo ed Ileen aveva gli occhi stanchi ancora aperti sull’oscurità.
La rossa si svegliò di soprassalto, imprecando, e istintivamente si tappò le orecchie con le mani. Subito capì che doveva essere presto: il sonno era ancora tenacemente aggrappato ad ogni suo arto e lei si sentiva tremendamente stanca.
Ileen si stiracchiò ed accese l’abat-jour. La rossa sbuffò, scivolò fuori dalle coperte e senza camuffare il tono seccato si rivolse a chiunque fosse nella stanza ad alta voce.
“Ma che è!?”
“Non so.”
“E che ora è?”
Lily aprì la tenda e con uno sforzo di volontà scese dal letto; Ileen la imitò e poi guardò l’orologio.
“Le tre e mezza.”
Ecco il perché di tanta spossatezza.
La minore dei Potter infilò la mano sotto al cuscino e tirò fuori lo specchio. Si osservò, mordendosi il labbro. Era stanca e si vedeva: aveva gli occhi tutti cerchiati. Ingoiando una bestemmia la ragazza aprì il cassetto del comodino e afferrò una boccettina di vetro dal contenuto roseo; senza pensarci due volte cominciò a tamponarsi il viso col prodotto colorato, facendo attenzione ad ottenere un colorito uniforme, poi prese in mano la bacchetta e si legò i capelli in un’acconciatura semplice ma elegante.
Ileen tremava.
Lily prese in mano il mascara marrone e cominciò a pettinarsi le ciglia.
“E se fosse successo di nuovo qualcosa di grave?”, bofonchiò l’ultima dei Selwyn, osservando timorosa l’amica.
Lily arricciò il naso. “I morti non urlano,” dichiarò poi categorica, alzando le spalle, e finì di truccarsi in tranquillità.
 
 
 
Il pigiama di Lily, in raso bianco, era abbinato alla sua mascherina per gli occhi. Per qualche motivo la ragazzina non ritenne necessario toglierselo, per sentirsi pronta ad uscire dalla camera. Forse, in fondo, era anche lei curiosa di scoprire l’origine di quel frastuono... ma non l’avrebbe mai ammesso ad alta voce.
Una volta riposti i trucchi, Lily si voltò verso la compagna di stanza e la incentivò ad uscire.
Ileen aveva la blusa tutta spiegazzata e la più giovane dei Potter se ne accorse non appena si abbassò a degnarla di uno sguardo. Doveva aver dormito vestita. Lily pensò che fosse una cosa riprovevole, ma decise di non fare commenti. La fretta di capire cosa stesse succedendo ebbe la meglio; affiancò la compagna di stanza in silenzio ed accelerò il passo seguendo il rumore.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Quando Lily ed Ileen arrivarono nel corridoio delle urla, l’ala maschile dei dormitori di Serpeverde era completamente immersa nel caos.
Corpi sudati, tremanti e bagnati di lacrime sbattevano l’uno contro l’altro mentre si muovevano impazziti senza meta alcuna. Corpi immobili come statue ricoprivano le pareti come una lugubre carta da parati.
Lily fece di tutto per trattenere l’uragano di emozioni da cui si sentì sopraffare, ma si ritrovò comunque col respiro affannato e gli occhi lucidi. Da lì poteva udire distintamente le urla che qualcuno diceva appartenessero a Nathaniel Cowley. Erano grida cariche di dolore, versi lancinanti. Lily non sapeva come proteggersi da tutta quella sofferenza; avrebbe voluto soltanto tapparsi le orecchie, stendersi sul pavimento freddo e aspettare che tutto finisse; avrebbe voluto tornarsene in camera… Ma poi vide Baddock.
Il direttore della sua Casa era una delle tante persone accasciate contro il muro. Ad intervalli regolari veniva schiacciato da uno stuolo di studenti in preda al panico ma pareva non accorgersene. Appariva fuori dal mondo.
Lily, dimentica dell’amica che si copriva la bocca con la mano al suo fianco, ricominciò a camminare e a farsi strada tra i corpi accaldati. Raggiunse il gruppetto che soffocava il professore e con tono imperioso convinse i compagni a spostarsi.
Si avvicinò all’uomo.
Malcom Baddock aveva il colorito giallognolo e gli occhi vuoti. Quando Lily gli chiese come stesse lui fece un cenno automatico nella sua direzione e seguitò a guardare il nulla. I suoi occhi apparivano vuoti, nebbiosi, lontani. Lily lo richiamò, scuotendolo per la spalla. Il professore abbassò lo sguardo grigio e staccò la schiena dalla parete. Tutto preso dall’isteria generale cominciò a barcollare pericolosamente a destra e poi a sinistra e poi a destra e poi- In un flash piegò il volto in una smorfia di dolore e lasciò che le ginocchia gli cedessero sotto il peso del suo stesso busto fiacco. Ad attutire la caduta solamente la forza del braccio di Lily, che in tutta fretta aveva afferrato i lembi della sua camicia.
In quel momento la porta della stanza si riaprì con un cigolio lamentoso. La prima figura che comparve nel corridoio era celebre, seppur inaspettata dai più, ed apparteneva al Signor Potter. La presenza finalmente dimostrata degli auror non fu utile a tranquillizzare la folla isterica e anzi confermò in molti cuori la gravità della situazione, così che tutti, dopo qualche secondo di silenzio, ricominciarono a scalpitare, ad urlare e a fare domande che, ancora una volta, rimasero sospese nel vuoto.
Harry Potter, infatti, restava muto e continuava a soppesare inquieto quel corridoio ombroso e illuminato solamente da rare lanterne. Cercava sua figlia.
Solo quando finalmente la vide abbandonò per un secondo il rigore dal volto, liberando involontariamente un breve sorriso.
Lei era viva, piegata verso il suo professore. La riconobbe dalla chioma fulva e ordinata. Sentendosi improvvisamente più leggero, a passi lunghi e ben distesi si avvicinò a lei.
Malcom adocchiò l’auror, sembrò recuperare l’energia all’improvviso e con un balzo sbilenco si rimise sull’attenti. Lily corrugò la fronte e poi si voltò incontrando così il viso sciupato del padre.
“Papà…”, sorrise la ragazza.
Harry poggiò le mani sulle spalle della figlia, prima di lasciarsi trascinare in un abbraccio affettuoso.
“Papà… Ma che sta succedendo!?”
Harry sospirò stancamente; la ruga che gli tagliava in due la cicatrice sembrò voler inghiottire tutto il suo viso.
“La situazione... è grave,” tentennò l’uomo, “adesso vi portiamo tutti in Sala Grande e-” Harry si voltò di scatto verso il Presidente della Casa dei sotterranei. “Signor Baddock, allora, ci siamo tutti?”
Malcom, ancora tutto giallo, immerse una mano nella tasca destra dei suoi pantaloni e dopo qualche secondo la fece risbucare dalla stoffa assieme ad un taccuino sproporzionatamente spesso. Subito iniziò girarsi da una parte all’altra e a fare dei segni sulla carta con una piuma, sotto lo sguardo spazientito di Harry Potter.
Anche Lily cominciò a guardarsi attorno e individuò facilmente le sue tre scagnozze, Morrison e persino Dennis Otto. Le sue spalle, però, erano stranamente scoperte e sentivano l’assenza di due pupille fondamentali.
La ragazza si ritrovò ad ingoiare in silenzio il groppo che le si era formato in gola.
“Manca Scorpius Malfoy.”
 
Sullo sfondo, Carter si allontanava dalla stanza maledetta trascinandosi dietro un più che sconvolto Nathaniel Cowley.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
3. 6
 
Letti troppo pieni,
letti troppo vuoti.
 
Quella non sarebbe stata una notte come tante e Neville Paciock lo sapeva bene. L’apocalisse era cominciata con il Patronus miagolante della Preside che lo buttava giù dal letto ed era continuata con una notizia che lo aveva colpito come uno schiaffo in pieno viso. Una seconda morte, un secondo omicidio, si era consumato ad Hogwarts.
Alla disperazione erano subentrate subito l’incredulità e il senso del dovere e l’uomo, senza rifletterci troppo, si era messo in moto per tornare nella torre e contare i ragazzi della sua casa. Letti troppo pieni, letti troppo vuoti; stanze buie e stanze ancora illuminate. Il mondo dei giovani, preso alla sprovvista, si mostrava senza maschere – così diverso da quello degli adulti, con regole matte e tutte sue.
 
Il professore usciva da una stanza e poi da un’altra ignorando apprensione, sorpresa, delusione... Quella notte il suo lavoro non lasciava spazio alle emozioni.
Non tutti, però, condividevano il suo stato d’animo, all’apparenza così calmo. Appena fuori dalla camera dei ragazzi del sesto anno Neville venne infatti raggiunto da un omino macilento, vestito di tutto punto con una divisa da apprendista auror pezzata di sudore. Il giovane, trepidante ma per nulla intrepido, era stato spedito a recapitare l’ultima nuova. Neville lo squadrò dall’alto al basso, immobilizzandolo senza bisogno di sfiorare la bacchetta. L’uomo ingoiò a vuoto, poi sembrò prendere coraggio e cominciò a farfugliare confusamente la notizia di una terza morte.
“Dove?”
“Nei sotterranei.”
“Come?”
“Per… per avvelenamento, credo.”
“Chi?”
“N-Non so.”
Neville Paciock abbassò lo sguardo per un solo istante sulla pergamena che teneva fra le mani, poi la ripiegò a metà e bussò alla porta dei ragazzi del settimo anno. Il detective seguì il professore, appiccicandosi al suo collo come Patafix.
 
 
 
Bastò il rumore delle nocche sopra al legno a svegliare Scorpius Malfoy.
Poi, meno gentili, arrivarono anche il tonfo di una porta che sbatte, passi pesanti sul pavimento di pietra, tende che strusciano...
Stava accadendo qualcosa e, nella confusione del dormiveglia, il giovane Serpeverde nell’ala sbagliata del castello si tirò in ginocchio e puntò la bacchetta verso il rumore. Ma il rumore era Neville Paciock, e Neville Paciock era il padrino di Albus, nonché il suo prof di Erbologia e il presidente della casa di Grifondoro. Cazzo. Non appena se ne accorse Scorpius abbassò il braccio, mordendosi il labbro. Poi aprì la bocca, per tentare una scusa, ma Neville non lo guardava già più.
L’uomo aveva una penna in mano e appuntava qualcosa su un foglio; da dietro al suo collo spuntava timida la testa di un’altra persona, che osservava tutti i gesti del professore in silenzio.
“Al!”, bisbigliò il ragazzo, cominciando a scuotere il braccio del proprio fidanzato. “Al, svegliati!”
“Scorpius!?” Una voce confusa si alzò dal letto poco più a destra, quello di William Stump, “Ma che cazzo…”
Il biondo ignorò William e continuò a scuotere Albus, sempre più rozzamente, finché il ragazzo non cominciò a muoversi tra la coltre di lenzuola rosse.
“Lumos!” Harry Whitehorn illuminò la stanza a giorno, e subito si scambiò un assonnato cenno d’intesa con William, poi con lo sguardo oltrepassò Neville e si soffermò sui due fidanzati. “Vedo che tutti i nodi, prima o poi, vengono al pettine,” commentò soddisfatto – un sorriso meschino a sporcargli il viso aristocratico.
Albus, che nel frattempo si era rizzato sul letto, si asciugò le mani fredde e sudate sul lenzuolo, poi fece scivolare la mano destra sino a quella sinistra di Scorp.
Al teneva lo sguardo vergognoso fisso sulla trapunta, eppure voleva alzarlo: su Neville, su Harry, su William. Voleva tener testa a tutti loro. Non avrebbe permesso a nessuno di schiacciarlo, non quella volta. Scorpius quella notte aveva bisogno di sentire tutto il suo supporto e lui sarebbe stato la persona coraggiosa che il suo ragazzo si meritav-
“Piantatela adesso!”, la tagliò corto Neville, che aveva ancora molto da fare – e molti ragazzi di troppo di cui occuparsi. “Alzatevi tutti e seguitemi, senza fare storie.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
3. 7
 
Harry Potter sentì il peso dell’universo posarsi nuovamente sulle sue spalle. Proprio lì, in quel momento. Manca Scorpius Malfoy era una frase che non sarebbe semplicemente dovuta esistere, una frase che lo toccava personalmente e lo intimoriva, più di quanto avrebbe voluto.
Eppure avevano controllato ovunque lì nei sotterranei, lui e Ron, e del fidanzato di suo figlio non vi era semplicemente traccia.
“Sono ragazzi, nel pieno dell’adolescenza. Vedrai che li ritroverà Neville assieme su nella Torre, e tu dovrai fingere di essere arrabbiato quando in realtà sarai solamente sollevato.”
Harry non riusciva a controllare gli scenari tragici che prendevano forma ininterrottamente nella propria mente, eppure sapeva che l’ipotesi di Ron non era poi così campata in aria. Doveva solo… convincersi che l’amico avesse ragione, chiudere la mente e tornare nei panni dell’auror sicuro e imbattibile, nella propria parte rassicurante. L’uomo sbuffò, teso. “Spero che tu abbia ragione…”, rivelò, “ma non dire a Ginny che l’ho detto.”
“Tranquillo, amico.” Ron accompagnò le parole con un sorriso tirato; Harry strizzò le palpebre ed inspirò profondamente – era il momento di raddrizzarsi la maschera esteriore. Dopotutto non c’era più molto che potessero fare, là sotto; bisognava solo raggiungere la Sala Grande e poi... i dubbi rimasti sarebbero stati fugati una volta per tutte.
Harry si avvicinò al professor Baddock e diede le nuove disposizioni, poi si voltò nuovamente in direzione di sua figlia – la sua piccola, dolce Lily.
La ragazzina era ferma, la schiena dritta e le mani sopra i fianchi, quasi immobile in mezzo a un gruppo di studenti che chiacchieravano in modo concitato, tre amiche che si agitavano al suo fianco.
Chissà a che stava pensando. Chissà se anche lei nascondeva le proprie paure dietro una maschera di imperturbabilità. Chissà se aveva già capito la gravità della situazione. Harry provò a immaginarselo. Solitamente era una cosa che trovava semplice fare, eppure in quella occasione Lily appariva nuovamente indecifrabile. Forse era solo stanca, rifletté l’uomo, forse quella era l’espressione che faceva quando era preoccupata e lui aveva semplicemente avuto la fortuna di non vederla mai, prima del giorno della morte di Lysander.
Lily si accorse di un certo calore sulla sua schiena, un calore familiare. Era consapevole di essere guardata, e da più direzioni, ma c’era qualcosa di insistente nello sguardo che le colpiva le spalle – sapeva di fissazione.
La ragazzina si ritrovò a sperare di trovare dietro di sé la persona che meno desiderava al mondo, e allora si voltò lentamente, per non far trapelare dai suoi movimenti una certa fretta, una certa necessità, aggrottando la fronte.
Quando i suoi occhi si scontrarono con la figura del padre, Lily distese il viso e ingoiò il disappunto in un sorriso sghembo. Era confusa. Sorrideva. Si morse il labbro e tornò a voltarsi verso le amiche.
Il nodo nel sacchetto che copriva i capelli di Cadyah, complici la corsa e i movimenti affrettati, si era allentato e ormai l’intero collo della ragazza era macchiato di rosso, così come le sue mani piene di fazzoletti. Anche le mani di Madalynn erano ormai tutte sporche, oltre che bagnaticcie per il sudore, eppure né a Cadyah né a Maddie sembrava importare più di tanto di quel casino in costante espansione; le due continuavano ad appoggiarsi l’una all’altra – a stabilizzarsi a vicenda – come se la forma non contasse più nulla. Solo il contenuto è importante, sembravano dire, solo la nostra amicizia.
Lily a volte si ritrovava a guardare quel duo immutabile e allora il suo cuore si accendeva di uno strano rancore che sarebbe stato così semplice da decifrare, ma che lei si sforzava di seguitare a ignorare. Così. Così girava la testa, cercava Ileen, la trovava. Quando non la ignorava la voleva accanto a sé, a portata di orecchio. Qualunque cosa Lily dicesse, Ileen era sempre – sempre sempre – d’accordo. Come una fedele scagnozza.
Amica, però… Amica mai.
 
Bastò davvero poco per ottenere l’attenzione della ragazza dal caschetto corvino. Lily si avvicinò a Morrison e Ileen, che stavano parlando, e la ragazza era nuovamente tutta sua – solo sua.
Le relazioni sociali nella sua cricca seguivano regole invisibili ai più, eppure tutte sapevano esattamente quale fosse la loro parte, in ogni momento.
“Hai visto Cadyah?”
“Sì.” Ileen storse le labbra e Lily sorrise.
“Un giorno si salteranno addosso, quelle due, sapete che intendo,” commentò sognante il ragazzo, osservando la Nott che si stringeva alla Morton, “e io spero di essere lì a godermi lo spettacolo.”
“Non ci spererei troppo… E comunque, non mi sembra il momento di pensare al sesso,” lo rimbrottò Lily.
“Non ti sembra il momento!? È quando sarebbe il momento opportuno, a ora di cena?”
Lily ebbe un secondo d’incertezza e preoccupata lanciò uno sguardo furtivo ad Ileen, che però non sembrava aver compreso l’implicazione di quell’idiota gagliardo.
“Ti ricordo che è sparito il ragazzo di mio fratello. Proprio quello che, tra parentesi, è anche un tuo compagno di stanza.”
“Non dirmi che sei preoccupata per lui.”
“Tu no?”
“È un coglione. Tanto gay e poi… non dirmi che non hai notato come ti guarda?”
E così si era accorto anche lui dell’ossessione di Scorpius. Eppure in quel momento che importanza aveva? Scorpius era sparito, forse era addirittura morto come Lysander, e per quanto Lily non lo sopportasse di certo non gli augurava nulla del genere. No, non poteva essere morto. Albus ci sarebbe rimasto troppo male.
“Ti hanno mangiato la lingua, adesso? O forse non hai nulla da dire perché in fondo lo sai che ti osserva come se volesse fare il bis?”
Lily spalancò gli occhi tondi e li puntò sul viso accalorato del compagno di Casa. Accanto a loro Ileen s’infervorava tutta ed era ormai pronta a scoppiare. “Ma insomma, come ti permetti!” Con uno slancio alzò la voce e prese le cieche difese dell’amica. Lily la fermò – non aveva bisogno di nessuno per combattere le proprie battaglie – e si scoprì a sorridere – ghignare, quasi.
Per un istante aveva temuto che Morrison rovinasse tutto ma, se la strategia del ragazzo era di intaccare la sua reputazione partendo da Scorpius, allora lei non aveva davvero nulla da temere.
Era certo: quel ragazzo non la conosceva per niente. Nessuno avrebbe creduto a una storia del genere, e Ileen glielo aveva appena dimostrato.
“Morrison, ultimamente le tue battute non fanno ridere nessuno.” La finì così Lily, alzando le spalle e rilassando i muscoli del viso.
Ovviamente, però, non vi era stata alcuna battuta.
Morrison era davvero convinto che Scorpius fosse impazzito a causa di una seconda occasione mai data e, in fondo, non aveva neppure tutti i torti. Il sesso, però, col fidanzato di Albus non c’entrava proprio nulla.
Lily non credeva semplicemente nelle seconde occasioni. In nessun contesto.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
3. 8
 
La Sala Comune non era mai stata così asfissiante, a quell’ora della notte.
Albus non ebbe neppure il tempo di accorgersi di essersi impalato, lì sul penultimo gradino, che si ritrovò a terra – la guancia spalmata contro una piastrella di pietra terrosa, ruvida, sporca. Harry Whitehorn gli sfilò accanto, ridendo, e poi fu il turno di William, di Amelia e poi- Albus si alzò, e Scorpius era già lontano.
La Sala Comune non era mai stata così fredda.
Doveva essere appena successo, forse Neville aveva fatto un gesto – perché lui non aveva udito nulla – e Scorp era stato costretto a spostarsi, a raggiungere il gruppetto di studenti delle altre Case fermo accanto al camino. Forse Neville aveva parlato e lui non se n’era semplicemente accorto – troppo occupato a soccombere sotto a quegli sguardi che non volevano saperne di lasciarlo andare.
La Sala Comune non era mai stata così fredda e il camino era troppo distante per riscaldarsi col tepore delle sue fiamme.
Albus si sfregò le mani sporche sulla stoffa ruvida dei jeans e poi tremando rizzò il collo verso il disappunto di James, la soddisfazione di Rose e la pietà di Hugo Weasley.
Se non ci fosse stato il panico a riempirgli i polmoni, probabilmente il ragazzo si sarebbe accorto della figura impossibile e che eppure c’era e dei vestiti da lavoro di suo fratello; la sua mente, però, riusciva a concentrarsi solamente su un unico pensiero: Cosa vogliono, loro, da me? Che vogliono? Che vogliono?
E gli occhi pizzicavano già quando Hugo si voltò e James e Rose cominciarono ad avvicinarglisi.
“Non so davvero… che dire,” cominciò l’allievo auror scuotendo la testa, senza neppure provare a nascondere la nota di disgusto nella sua voce, “non sai fare altro che stronzate.”
“Certo che… nemmeno un po’ di decenza,” gli diede manforte Rose.
Albus la sentiva proprio lì, la delusione. Gli occludeva la gola.
“Non sai quanto cazz-”
“Jaaames!”, lo riprese Rose, che non sopportava il linguaggio scurrile.
“Non sai quanto ca… Non sai quanto è stressato, ultimamente, papà,” aggiunse l’uomo, “e tu? Non puoi seguirle due regole, una volta tanto. No. Tu devi peggiorare le cose come al solito, e solo perché non sai tenertelo nelle mutande.”
Albus strinse i denti e si accorse di vedere sfocato – di vedere allagato. Se solo fosse potuto annegare, in quell’istante, nei suoi stessi occhi...
E fu in quel momento che lo sentì, lo stridere delle sopracciglia di Rose. S’incurvavano e la deformavano e la trasformavano nell’essere più crudele che avesse mai messo piede sulla terra – così diceva Lily. S’incurvavano e le riposizionavano le corde vocali, donandole il tono della più malvagia delle megere.
“E poi per chi? Per un Malfoy.”
Un commento di troppo.
“PIANTALA, ROSE!”, urlò Albus, riuscendo finalmente a superare la diga nella sua gola, “PIANTATELA TUTTI E DUE!”, continuò, soffocando le grida in singhiozzi.
“Vedi di avere un po’ di rispet-”
“NO, JAMES. VEDI… Vedi di averlo tu. E non me ne frega un cazzo se-”
“LE PAROLE!”
“NON ME NE FREGA UN CAZZO! UN CAZZO, UN CAZZO, UN CAZZO, ROSE. UN. CAZZO.”
L’arpia si portò le mani a coprire la bocca innocente.
“Non crederai di passarla liscia…”
Albus scosse la testa, sorridendo con le guance tutte bagnate. Avrebbe voluto che sua sorella fosse lì. Lei, certamente, se la sarebbe cavata meglio di lui in una situazione simile. Avrebbe pronunciato una delle sue battute raggelanti e ne sarebbe uscita vincitrice – vinceva sempre, lei – così elegantemente…
Lui aveva ormai abbandonato da un po’ la dimensione dell’eleganza.
Certo, avrebbe preferito forse combattere una battaglia diversa, e non una a colpi di cazzo, ma urlare cazzo, cazzo quanto lo faceva sentire bene. E quindi continuò a farlo ancora per un po’. Sbatté quella parola in faccia a suo fratello e a Rose e di nuovo a suo fratello, e poi-
Sentì la gola impastarsi di nuovo e qualcuno gli strizzò il braccio. Neville gli aveva lanciato un incantesimo silenziante e Hugo lo tirava verso di sé.
Lo guardavano tutti.
Cazzo.
 
 
 
 
 
“Si può sapere che ti è preso?”, chiese nuovamente Hugo mentre il cugino finiva di asciugarsi le lacrime per una seconda volta. Neville aveva annullato l’incantesimo, ma Albus non aveva comunque più voglia di parlare – non più.
“Ehi, Al…”
Fuori nel corridoio – ancora più freddo, ancora più asfissiante – il ragazzino e il professore provavano a capire, ma il silenzio di Albus non aiutava.
“Senti,” fece il più piccolo, “lo so che mia sorella può essere una vera rompipalle,” proseguì, beccandosi un’occhiataccia da Neville, “però o ci dici perché hai reagito in questo modo o-”
“O?”, sussurrò Albus tenendo lo sguardo puntato a terra, prima di riasciugarsi lo zigomo col palmo.
“O-”
Hugo, solitamente di così tante parole, non seppe completare la sua stessa frase e speranzoso alzò la testa verso il suo professore.
Neville si accasciò accanto ai ragazzi e abbassò le palpebre, mettendo in evidenza le occhiaie scure.
“O continueremo a non capire che ti è preso.
E Albus, lascia che te lo dica, è un pessimo giorno per una scenata del genere. Ti prego, non rendermi le cose ancora più difficili…”
C’era una certa esasperazione, una certa stanchezza nel tono di Neville che era impossibile da ignorare. E fu proprio grazie ad essa che improvvisamente Albus rivide tutto: la mano di Scorpius che lo scuoteva con urgenza, l’uomo che scendeva le scale accanto al suo padrino, James.
James ad Hogwarts, l’anno dei suoi M.A.G.O..
James a Hogwarts, vestito con una mimetica nera.
“Co- Cos’è successo?”
Hugo appoggiò la testa sulla spalla del cugino e Albus si accorse che tremava.
“Ragazzi,” si preparò ad ammettere l’uomo, “qualcosa di irrimediabile.”
I cugini si voltarono l’uno verso l’altro, ed entrambi furono certi che fosse morto qualcun altro.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
3. 9
 
La Sala Grande era un accampamento diviso in cinque grandi oasi. Vicino all’entrata, a sinistra rispetto al portone d’ingresso, si poteva osservare Anthony Goldstein intento a finir di sistemare la porzione della stanza dedicata ai Corvonero mentre i suoi studenti, uno dopo l’altro, venivano perquisiti dagli auror.
Nazanin Alizadeh e Minerva Paciock, del primo anno, furono le prime a gettarsi in pasto agli agenti e ad avere accesso alla sala. Furbe, si scambiarono uno sguardo complice e guizzando via dalle mani di Emma e Kason presero la rincorsa più lunga della storia, per poi tuffarsi di pancia su uno dei materassi blu lì a terra – e ridere, ridere, ridere – il tutto sotto lo sguardo distante e spazientito della Preside McGranitt.
“Bambine, un materasso a testa,” specificò Anthony, riprendendo le sue due pesti e offrendo loro una bottiglietta d’acqua ciascuna.
“Due materassi tutti per noi, Nì,” s’illuminò Minnie.
“Se riusciamo a farli star su possiamo costruire una tenda!”
“No, non potete spostare i materassi, né condividerli. Sceglietene due vicini e fate le brave.”
“Ma se poi abbiamo freddo?”
Pian piano i Corvonero entrarono tutti e presto arrivarono pure i Grifondoro. Ci furono vari tentativi di trattenere Minnie dall’andare a salutare il papà, ma dopo mezz’ora la bambina era seduta assieme ad Hugo e Mark Talbott su un materasso rosso e a bocca spalancata ascoltava le mirabolanti avventure di Bob il Babbano, un’idea dei due ragazzi che presto avrebbe preso forma in un fumetto.
Rose Weasley, che era l’unica ad essersi portata dietro un libro, approfittava dell’attesa per andare avanti con lo studio e Albus fingeva di non esistere mentre osservava il gruppo dei Serpeverde e dei Tassorosso di troppo fermi poco più in là – sempre più preoccupato.
Gli studenti dei sotterranei arrivarono solamente molto tempo dopo, in esorbitante ritardo. Harry Potter si portò subito verso il fondo della sala, dove si trovava la postazione della Preside e dell’auror più anziano. Ron invece, visto lo stato di Baddock, si occupò di mostrare agli alunni la loro porzione di stanza.
Lily Luna, per tenersi alla larga da Morrison, prese posto in un materasso posizionato tra Ileen e Dennis Otto.
La fetta di stanza riservata ai Serpeverde si trovava poco più avanti di quella dei Corvonero e accanto a quella dei Tassorosso. Percorrendo quindi con lo sguardo una diagonale Lily poteva vedere suo fratello, bianco come un cencio, quasi immobile e seduto sopra a un lenzuolo rosso. Poco distante, Scorpius e degli altri ragazzi parlavano con un auror. Lily sospirò sollevata, incrociò lo sguardo di Hugo intento a riprendere il fiato e schivando i saluti si voltò di fretta verso la fetta dei Corvonero. Tom l’accolse con un cenno del capo e un sorriso sul viso, che Lily si sforzò di ricambiare. Pochi materassi più in là era sdraiato Lorcan Scamander e la ragazzina sfiorò la sua figura con la coda dell’occhio, prima di tornare a Tom e rispiegare le labbra, un po’ più facilmente.
In Sala Grande, oramai, si erano sistemati i membri di tutti e quattro i gruppi ma la quinta fetta, quella dei grandi, era ancora un viavai – un via, vai e torna.
Mentre gli auror discutevano e gli studenti si cercavano e sussurravano, la McGranitt si alzò dalla propria sedia e, dopo essersi trascinata al centro del palco, cominciò a parlare, ottenendo subito la totale attenzione da parte di tutta la stanza – quadri e fantasmi compresi.
Finalmente, finalmente una spiegazione.
“Cari studenti…” E riprese il respiro. “Cari studenti,” ripeté, alzando la voce, “questa sera due di voi sono stati uccisi.”
Neville prese posto sul materasso di Hugo e con un braccio cinse il busto di sua figlia. Lily schiuse le labbra. Albus si strinse le ginocchia contro al petto.
Non vi era mai stato tanto silenzio, in una stanza piena di gente.
“Gli auror che potete vedere alle mie spalle si occuperanno della difesa di Hogwarts e delle indagini... sulla morte di Rafael Gonç-” Strazio, strazio nell’aria. Grace Hoogan si alzò in piedi, urlando, e Tiberius, e Jonathan, e Sebastian, e i Tassorosso tutti insieme insorsero in un comune verso di dolore e si ammassarono piangendo l’uno sull’altro, subito seguiti da nuovi gruppi di studenti – tutti i giocatori e gli amanti del quidditch, tutti i compagni del sesto anno. Non vi era anima viva, in quella scuola, che conoscesse Rafael e non gli volesse bene – o forse solo una.
La Preside si asciugò una lacrima e chiamò un silenzio impossibile, così proseguì in mezzo a quel chiasso: “Sulla morte di Rafael Gonçalves, Benjamin Roberts e Lysander Scamander.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
3. 10
 
C’erano schiamazzi ovunque, attorno a lei. Arrivavano da ogni direzione, erano confusi, non si capiva nulla… eppure Lily avrebbe giurato di sentire il suo nome in mezzo a quel frastuono, gridato ripetutamente a mo’ di accusa: Lily Luna, Lily Luna… Ma lei non aveva fatto proprio niente! E allora perché qualcuno la chiamava e poi smetteva e poi ricominciava e poi- Perché qualcuno le aveva appena sfiorato il braccio?
Lily alzò lo sguardo di scatto verso destra… e poi lo riabbassò, altrettanto velocemente.
“Lily Luna, stai bene?”
Era Dennis Otto.
La ragazzina si morse il labbro – forte, fortissimo – e lanciò un’occhiata furtiva alla sua sinistra. Ileen le dava la schiena e consolava Cadyah assieme a Madalynn. Nessuno, oltre a Dennis, aveva fatto caso a lei.
“Lily Luna,” ripeté il ragazzo, “tutto okay?”
La ragazza annuì, tenendo lo sguardo lucido rivolto verso il basso.
Doveva tornare in sé, non poteva farsi sopraffare così dalle emozioni – non di fronte a tutti, non- Una lacrima le rigò il viso e lei se l’asciugò, poi un’altra e lei si asciugò anche quella.
Non aveva alcuna ragione apparente per starsene lì frignare. Certo, Benjamin e Lys erano stati smistati nella sua stessa casa, ma non erano suoi amici. Rafe, invece… Lei non avrebbe dovuto nemmeno conoscerlo.
Lysander Scamander, Benjamin Roberts, Rafael Gonçalves. Loro non erano affar suo, eppure… in un certo senso lo erano stati tutti e tre, anche se solo per poco – pochissimo tempo. Tutti. E. Tre. Non poteva essere un caso che fossero morti proprio loro – tra tutti proprio loro.
La ragazza ripensò a quello che le aveva detto Morrison poco prima e al suo atteggiamento pretenzioso – ma i patti erano sempre stati chiari e lui aveva accettato senza fare storie e- No, non era possibile che il ragazzo avesse ucciso tre studenti solamente per convincerla a concederglisi di nuovo. Morrison era un idiota ma... non era pericoloso. Gli interessavano la carne fresca, le ragazze usa e getta… Una, due botte e via, alla prossima. Non voleva alcun vincolo e quindi, pur non ripudiando qualche raro bis, una richiesta rifiutata non sarebbe di certo stata la fine del mondo, per lui.
Non poteva essere stato Morrison, né un altro dei suoi amanti: sbarazzandosi l’uno dell’altro, dopotutto, non ci avrebbero guadagnato proprio niente!
Insomma, la cosa avrebbe avuto già più senso se qualcuno avesse cercato di metter fuori gioco Tom. A lui, dopotutto, spettava il posto d’eccellenza…
Eppure non sono mica la protagonista di un qualche romanzo giallo, pensò Lily Luna, il mondo non gira attorno a me. E quindi era molto più probabile che quei tre fossero morti per qualunque altra ragione. Erano tutti e tre alunni del sesto anno, dopotutto. Condividevano spazi, ogni giorno, e chissà cos’altro.
Distanziandosi da quanto successo la minore dei Potter riuscì finalmente a calmarsi e a nascondere la propria tristezza in un angolo buio della propria mente – lontano da occhi indiscreti.
Rialzò la testa e si voltò una volta per tutte verso le compagne di stanza. Madalynn stava chiedendo a Ileen se avesse notato qualcosa di strano al tavolo dei Tassi quando era andata a chiedere informazioni a Grace per la ricerca di pozioni e la ragazza dai capelli corvini pareva preoccupata. “No, era tutto tranquillo,” rifletté Ileen, levandosi le unghie da sotto i denti e piegando le labbra verso il basso.
“Chissà cos’è successo… e chissà chi è stato…”, si chiese allora la ragazza bionda, abbassando la voce all’improvviso.
Lily tornò a domandarsi la stessa identica cosa… e fu colpita da un’illuminazione. Trattenne il respiro e lasciò vagare lo sguardo di nuovo lontano, in cerca di quella persona che avrebbe avuto un movente per-
Tom Davies stava chiacchierando fittamente con alcuni suoi amici. Non appariva particolarmente turbato.
Lily abbassò gli occhi di fretta e deglutì a vuoto, frenando quella smorfia che le stava crescendo sul viso.
Possibile che fosse stato proprio lui?
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
3. 11
 
Cider Baston, portiere della squadra di quidditch dei Tassorosso, si lasciò scivolare sul bordo di una delle sedie della stanza degli interrogatori, tra fratello e fidanzato, e subito ricongiunse la mano a quella di Jonathan Figg. Orson si voltò verso lǝ gemellǝ e il suo capitano, accennando un’espressione preoccupata, e poggiò l’orecchio sulla spalla di Cider.
Tutti e tre si stavano domandando perché gli auror si fossero portati dietro solamente loro e non l’intera squadra. Solo Jonathan, però, ebbe il coraggio di domandare la cosa al vecchio uomo seduto dietro alla scrivania.
Ernest Shelley alzò la testa da una pila di documenti e grugnì spazientito. Senza offrire alcuna risposta, poi, tornò ad occuparsi degli aspetti burocratici di quello spiegamento di forze assieme al collega.
Fortunatamente il silenzio forzato non durò a lungo. Dopo pochi minuti una donna bionda in mimetica nera aprì la porta, spinse un altro ragazzo dentro alla stanza, e la richiuse con un tonfo.
Kason Longmann guardò in direzione del nuovo arrivato e accennò un breve sorriso. Ernest si schiarì la gola.
“Lorcan Scamander?”
Il ragazzo annuì poi, traducendo il cenno del capo dell’auror più giovane, capì di essere invitato a prendere posto. Trovò la sedia più lontana possibile dal gruppo di Tassorosso e vi ci si accomodò sopra.
“Bene,” fece quindi Ernest, grattandosi la guancia ruvida, “e voi dovreste essere Jonathan Figg, Orson Baston e Violet Baston,” continuò, improvvisamente rianimato.
“Mi scusi: Cider, non Violet,” specificò il portiere, poi tutti e tre i giocatori di quidditch annuirono all’unisono.
“Cider!? E che razza di nome sarebbe?”
“Il mio… Semplicemente il mio.”
L’anziano lanciò un’occhiata scettica in direzione del trio, poi disse okay, fece un segno su un foglio di carta, e riprese a parlare: “E quindi siamo Cider, Orson, Jonathan e Lorcan.” Tutti annuirono.
“Io mi chiamo Kason Longmann,” prese parola l’auror più giovane, “il mio capo vi ha fatto chiamare qui perché risultate essere le persone più vicine a Rafael Gonçalves e Lysander Scamander.”
“E per Benjamin? Non viene nessuno?”, s’informò Jonathan, sbiancando e aumentando la stretta sulla mano di Cider.
“Tranquillo, di lui ci siamo già occupati,” rispose mostrando i denti bianchi e dritti l’americano, mentre Ernest sbuffava e borbottava frasi sul rispetto delle autorità e l’educazione di una volta... E se con ce ne siamo già occupati s’intendeva che ci si fosse interessati a dare un tranquillante a Nathaniel prima di riportarlo a casa, in attesa che si riprendesse dallo shock per poterlo poi finalmente interrogare… beh, allora gli auror si erano veramente già occupati della questione.
Il ragazzo, rincuorato, riprese colore sul viso.
“Allora: Lorcan, Benjamin e Rafael frequentavano il sesto anno e lo stesso vale per tutti voi, tranne che… per Jonathan Figg. Dico bene?”
I tre Tassorosso annuirono e Lorcan continuò a guardare un punto fisso davanti a sé.
“I ragazzi erano amici? Comunicavano? Hanno fatto insieme un qualche lavoro di gruppo o... insomma, qualunque altra cosa vi venga in mente?”
Cider si voltò verso il fratello e Orson scrollò le spalle: “Non mi viene in mente nulla di specifico…”
“Beh, diciamo che Rafe andava d’accordo proprio con tutti. Sicuramente ha parlato con entrambi, ad un certo punto, ma per quanto riguarda i lavori di gruppo, i gruppi di studio e altre cose del genere… era leale a noi Tassorosso.”
“Poi né Lysander né Benjamin facevano parte della squadra di quidditch di Serpeverde,” continuò con sicurezza Jonathan, come se quell’affermazione potesse spiegare tutto quanto. “Se non mi sbaglio erano entrambi prefetti.”
“Sì, è così,” confermò Kason. “Scamander, suo fratello le ha mai parlato di Benjamin e Rafael?”
Il Corvonero strinse le labbra, tremando, e le prime lacrime della giornata cominciarono a bagnargli il viso.
“Allora?” lo incalzò Ernest, “Non abbiamo tutto il giorno.”
Ma Lorcan non riusciva a pronunciare nemmeno una parola. Non riusciva neanche a muoversi – solo a tremare e a piangere.
“Benjamin e Lysander erano amici. Erano sempre assieme a Nathaniel, potreste fare a lui quelle domande,” intervenne nuovamente Jonathan, soccorrendo il compagno di scuola.
“Magari suo fratello sa qualcosa in più di lei, Signor so-tutto-io Figg.”
Il capitano dei Tassorosso arrossì per la rabbia e ricominciò a parlare, alzando la voce: “Ma non lo vede che non si sente bene!? Lo lasci stare!”
“Le rammento che la vostra collaborazione sarà fondamentale per la risoluzione di questo caso,” ricordò il Signor Shelley, pratico, “non penserà che questa sia una chiacchierata tra amici.”
Jonathan lasciò andare la mano di Cider e balzò in piedi. “No, ma credo che i vivi siano più importanti dei morti,” sbraitò, cominciando a vedere tutto sfocato.
“Adesso basta. Si sieda,” la fece finita Kason Longmann, lanciando un occhiataccia al proprio superiore, “e torniamo a parlare di Rafael Gonçalves…”
 
 
 
 
 
Una volta terminato l’interrogatorio la donna che aveva accompagnato Lorcan Scamander al secondo piano del castello rispuntò dalla porta con un gran sorriso inopportuno sopra al viso.
“Indovinate chi ha trovato una pista?” si vantò, avvicinandosi ai colleghi allargando le braccia e piegando il mento verso l’alto.
Emma era inappropriata, spavalda e spesso fastidiosa – in poche parole una spina nel fianco – eppure rimaneva uno degli auror più quotati, una vera e propria gemma in una squadra già ben equipaggiata.
Il vecchio Ernest, rincuorato, le diede una pacca sulla spalla prima di esortarla a parlare.
“Ho provato a cercare informazioni sul veleno utilizzato nella biblioteca del castello, ma non ho trovato nulla,” spiegò la donna, “eppure… ero certa che mi ricordasse qualcosa.” Emma fece una pausa e si riportò una ciocca di capelli secchi dietro all’orecchio, temporeggiando, prima di concedere la rivelazione finale. “Mio nonno. Il professore di storia babbano. Credo che una volta mi abbia accennato ad un veleno molto simile a quello utilizzato e quindi sono sicura che potrei trovare qualcosa al riguardo, nella sua biblioteca.”
“Ma non c’erano traccie di magia nera?”, chiese Kason, ricordando la rivelazione del proprio superiore.
“Certo, Kaos, ma questo non elimina la possibilità di una ricetta base di origine babbana,” sbuffò la bionda, irritata, prima di consigliare gentilmente all’amico di darsi una svegliata.
Ernest Shelley si grattò il mento, pensieroso, poi puntò lo sguardo astuto e divertito in quello della donna. “Mi stai forse chiedendo il permesso di andare in Italia?”
Emma scosse la testa, ridacchiando. “No, ti sto direttamente portando i documenti da firmare per farmi approvare il viaggio. La prossima Passaporta per Palermo parte domani pomeriggio da Greenwich.”
L’anziano prese i fogli che gli porgeva Emma tra le dita, poi si appoggiò alla scrivania per lasciarci sopra il proprio autografo.
 
“E adesso fatemi un favore, portate via questi marmocchi.”
 
 
 
 
 
Emma e Kason s’inoltrarono per i corridoi umidi assieme ai ragazzi. I Tassorosso continuavano a rallentare, provando a mantenere la stessa identica andatura di Lorcan Scamander, ma il Corvonero non se ne rendeva neppure conto e seguitava ad ignorare il mondo intero – perso in un dolore tutto suo.
Lorcan, ultimamente, passava sempre più tempo a dialogare con se stesso e il suo cervello non faceva altro che accusarlo ancora e ancora.
Lui e Lys erano sempre stati poli opposti – nessun interesse in comune. Avrebbero potuto condividere tutto e invece non si erano mai presi il tempo per conoscersi davvero. I loro discorsi erano sempre stati pochi e frivoli… e adesso che Lys era morto Lorcan non aveva tra le mani uno straccio di perché, e il suo cuore era colmo di rimorso.
Poco oltre il gruppo di studenti avanzavano i due auror, impegnati in una discussione costellata di risate acute ed irritanti.
“Allora, sei ancora sicura di non voler gettare la spugna?”
“Certamente, Kaos. Quando farò ritorno in Scozia da eroina sarà un onore, per Potter, ricevere la mia proposta,” rispose Emma, prima di ricominciare a gracchiare pensando alla nuova scommessa.
Lorcan si fermò. Se avesse ancora avuto con sé la sua bacchetta non ci avrebbe pensato due volte prima di lanciare una fattura silenziante a quella donna insopportabile.
Anche Jonathan, che imitava ogni passo del compagno, si arrestò di colpo – subito seguito da Orson e Cider – e… dopo un secondo d’incertezza aprì la bocca preoccupato: “Tutto okay, Lorcan?”
Il ragazzo si voltò verso i Tassorosso e notò che tutti e tre lo stavano osservando.
“No,” disse solo, prima di incrociare le braccia e riprendere ad avanzare.
I tre ragazzi si scambiarono un’occhiata allarmata e si avvicinarono al Corvonero dalla felpa blu.
“Vuoi parlare?”
“No.”
“Vuoi... un abbraccio?” Cider e Orson alzarono simultaneamente gli occhi al cielo.
“No.”
“Non c’è proprio niente che possiamo fare per farti stare meglio?”
Lorcan socchiuse le palpebre, sbuffando stancamente, e portò la mano destra a coprirsi la tempia pulsante.
“Lasciarmi in pace.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
3. 12
 
In infermeria c’era una temperatura polare.
La prima cosa che fece Rolanda, una volta entrata nella stanza, fu stringersi nel proprio scialle grigio. L’atmosfera – vista su morto – era decisamente raggelante, ma anche l’incantesimo lanciato per preservare i corpi contribuiva a far nascere brividi.
“Rolanda, come sono messi di sotto?”
“Hanno spento le luci.”
Non mancava ormai più molto all’alba e Poppy, ragionando ad alta voce, borbottò qualcosa sul ciclo sonno-veglia prima di andare a rabboccare la propria tazza di tè. Rolanda Bumb, invece, rimase per qualche momento impalata a fissare le sagome semi-coperte da lenzuola bianche, prima di essere riportata alla realtà da un soffio a malapena percepibile.
“Sei venuta.”
Domitille era seduta accanto a una tenda, e stringeva tra i palmi una tazza di tè ancora colma e fumante. Rolanda le si avvicinò e non poté fare a meno di notare le sue guance irritate, macchiate di rosso, e i suoi occhi gonfi e contornati di grigio.
“Oh, Tille,” fece la donna, accarezzando con le dita la treccia scompigliata della francese, “sono venuta il prima possibile.”
“Lo so,” disse la più giovane, alzando un braccio per congiungere le dita a quelle della donna più anziana. La loro pelle a contatto era fuoco e Domitille si portò quel calore sino all’altezza del cuore – il volto che si faceva uniformemente più rosso. E poi la ragazza baciò il punto in cui i loro corpi si congiungevano, diventando uno solo, e ben presto la loro fiammella soffocò in un fiume di lacrime.
Rolanda piegò le ginocchia di fretta e strinse a sé la donna seduta. Le sue interazioni con Domitille erano sempre state più che altro litigi – per la sicurezza nel quidditch –, risate, battute. Eppure, pian piano… il sentimento che era nato da ciò che era inizialmente solo un fastidio e poi uno svago... era arrivato a colmarle l’anima intera: d’affetto – certamente –, d’amore – forse. Non c’era discussione che tenesse.
La professoressa ripensò a ciò che fino a pochi mesi prima Domitille avrebbe ritenuto la peggior disgrazia possibile, a ciò che, ad ogni nuovo infortunio, faceva tornare a galla il dissapore. Non importa se è da anni che non muore nessuno per il quidditch. Prima o poi, qui, qualcuno ci arriva stecchito. Me lo sento, diceva la francese quando Rolanda si aggrappava alle statistiche.
Per fortuna nessuno era ancora morto su una scopa. La realtà, però, in quel momento superava qualunque frase urlata a mo’ di profezia. Troppi ragazzi avevano perso la vita in quella scuola, in meno di due mesi… Sembrava di essere nuovamente in guerra. Il nemico, però, questa volta era sconosciuto.
Poppy aveva appena terminato di tracannare il proprio tè – il secondo giro. Riscaldata e dissetata, poggiò la tazza utilizzata sopra a uno scaffale, poi, senza la minima indecisione, si allontanò nella stanza confinante per lasciare alle due donne un po’ di privacy.
Nel fondo trascurato della tazza le foglie regalatale dalla professoressa Cooman presero a roteare, sempre più velocemente. Nessuno, però, ci fece caso, e il presagio di morte passò inosservato.
 








 
 
Ciao e grazie per essere arrivati fin qui!
In questo capitolo sono disseminati alcuni indizi, quindi se volete... potete cominciare a fare ipotesi.
Spero che il capitolo vi sia piaciuto e che la storia vi stia appassionando.
Se vi va, potete anche farmi sapere chi è il vostro personaggio preferito e chi, invece, vi sta proprio sulle scatole! (Ho una mezza idea che Emma non sarà molto amata ahah)
Se siete interessati al prequel di questa storia, vi lascio il link a Coming Out (minilong in corso incentrata sulla relazione tra Albus e Scorpius).
 
Insomma, grazie per il tempo che mi avete dedicato e a presto!
  
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