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Autore: Flying_lotus95    04/01/2022    1 recensioni
[Capitoli dal 1° al 9° revisionati]
Giappone, inizio anni'60. Un gruppo di sei ragazzi affronta le proprie vicende quotidiane, combattendo con un passato che non vuole lasciarli liberi. Mario Minakami è intenzionato a scoprire chi si cela dietro l'omicidio di Rokurota Sakuragi, l'uomo che sei anni prima aveva preso lui e i suoi amici sotto la sua ala e li aveva reintrodotti nella società, affrontando non poche difficoltà; Joe Yokosuka, meticcio, è alle prese con un passato ingombrante, una sorella da salvare, e un amore da proteggere; Tadayoshi Tooyama è un soldato delle Forze Armate del Giappone, sposato con la dolce Mina. Tra sensi di colpa e paure, dovrà affrontare i suoi demoni una volta per tutte...
Assieme ai loro ex compagni di cella, Ryuji Noomoto, Noboru Maeda e Mansaku Matsuuda, i tre si ritroveranno faccia a faccia ad affrontare un pericolo comune, che minaccerà il loro futuro, la loro "terra promessa".
[Leggera presenza OOC]
Genere: Azione, Drammatico, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Crack Pairing
Note: Lemon, Otherverse, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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Promised Land – La terra che ci hanno promesso. 


 

Parte prima: Normalità

 

Capitolo 1



 - Marzo, arcipelago delle isole Carolina, Oceano Pacifico, anno 20 dell’epoca Showa (1945) 

Quando se lo ritrovò davanti, Mariya non aveva voluto credere ai propri occhi.
Seduta a terra, accanto al lurido futon, vide quel giovane dinnanzi a lei, fermo all'entrata della capanna.
Aveva i capelli rasati, la divisa sporca di fango, e il fucile lasco sulla spalla.
Gli occhi neri dai riflessi grigi scrutavano la ragazza a terra, interdetti e meravigliati. Mariya pregò che non l'avesse riconosciuta.
«Tu...»
Quella preghiera, tuttavia, non fu accolta come sperava.
Il ragazzo l'aveva riconosciuta eccome, il suo sguardo inorridito ne era la prova.
Mariya avrebbe voluto alzarsi in piedi e urlare, urlargli di andare via da lei, da quel posto immondo.
Ci provò, ma le forze le vennero meno. Dopo un'intensa giornata, le gambe non rispondevano più agli stimoli, anche la voce graffiava sulle pareti della gola provata.
Ci provò lo stesso.
«Vattene... ti prego...»
Ma il ragazzo si addentrò nella capanna, dirigendosi verso la ragazza, vestita solo di una sottana ingiallita e scucita ai bordi. Anche lei era sporca, di umori e terra.
Non riusciva più a distinguere alcun sapore o odore. Solo melma, tanta melma e tanto fetore, a volte misto al ferro del sangue.
Una volta vicino, lui cercò di toccarla, ma Mariya gridò con tutta la voce che le era rimasta.
«VAI VIA!»
Lui non l'ascoltò, l'afferrò per i pugni e la strinse a sè, in lacrime.
La giovane non aveva più la forza di allontanarlo, ma tremava ugualmente.
Non era un abbraccio famelico quello, non di un predatore affamato.
Era un abbraccio caldo, un po' impacciato, che sapeva di casa.
«Non volevo crederci che tu fossi qui...» dichiarò il ragazzo, sconvolto.
La giovane avrebbe voluto piangere, ma ormai le lacrime erano scese già tutte dai suoi occhi aridi e stanchi.
«Ti prego, allontanati, sono sporca e maleodorante» sussurrò appena lei, con voce spezzata.
Lui le lasciò un bacio sui capelli unti e neri.
«Non che io sia messo meglio di te» ammise lui, sorridendo appena.
Mariya chiuse gli occhi a quella risata a lei tanto familiare.
Per la prima volta, dopo tanto tempo, si sentì di nuovo sé stessa, presente.
Una lacrima solitaria le solcò la guancia smunta...

 
 

 - Marzo, prefettura di Ishikawa, Giappone, anno 35 dell’epoca Showa (1960)
 
L'autobus era piuttosto pieno quella mattina.
Il tempo prometteva pioggia imminente, fortunatamente non era stata diramata nessuna allerta tifone. Sarebbe stata una pioggia normale, una leggera burrasca e tutto sarebbe tornato come prima.
Mario odiava i periodi uggiosi. In quei giorni era sempre costretto a muoversi con i mezzi, invece che a piedi o in bici. Aveva lo stomaco sottosopra, i residui della sbornia si erano palesati in tutta la loro irruenza.
I forti scossoni del mezzo non lo aiutarono di certo a restare concentrato e presente a sé stesso.
Non era mai stata sua abitudine bere fino allo sfinimento, ma vi era stata una ragione ben precisa che lo aveva portato a compiere quella scelta discutibile.
Mario si strinse nel suo cappotto, tremava dal freddo. La coppola gli ricadeva sullo sguardo da cerbiatto accigliato e nervoso.
«Dormito male?».
Mario impiegò più di qualche secondo per capire che qualcuno si stava rivolgendo proprio a lui con quella domanda. Tuttavia, preferì soprassedere. Non aveva la forza di rispondere a nessuno, e di risultare cafone e maleducato non gli interessava poi così tanto, soprattutto nei confronti di un estraneo.
«A giudicare dalla puzza, qua abbiamo bevuto parecchio!» continuò la voce, che ad un ascolto più attento, Mario intese che apparteneva ad una donna, che però non doveva avere una padronanza totale del giapponese. Traspariva infatti dalla sua voce un leggero accento inglese.
Alzò così lo sguardo, quel poco che il post sbornia gli concesse per non aumentargli il mal di testa, e vide che in piedi, vicino a lui, vi era una donna dai capelli biondi raccolti in una coda, un enorme valigia poggiata accanto al suo sedile, che si manteneva al corrimano per non cadere alla prima buca in cui le ruote dell'autobus ogni tanto incappavano lungo la strada.
«Le da' fastidio per caso?» biascicò Mario, leggermente infastidito. Poggiò una mano sul ginocchio, come a volersi sorreggere col busto per darsi un tono. Se di sdegno o alterità, questo non lo avrebbe saputo dire nemmeno lui con esattezza.
La straniera diniegò il capo con una smorfia.
«Affatto! È solo che mi sembri troppo giovane per finire alcolizzato alla tua età» disse, sbuffando una risata dal naso. 
Sul volto di Mario si dipinse una smorfia di stizza. Soltanto una donna straniera poteva prendersi tutta quella confidenza verso qualcuno del sesso opposto. Poi notò che sulla valigia vi era incisa una strana etichetta, che richiamava vagamente quella della marina militare statunitense. Si trovò a pensare sulle prime che fosse la moglie di un ufficiale in visita, o un'infermiera che avrebbe preso servizio al campo militare. In ogni caso, di investigare oltre, a Mario non interessò. Spostò lo sguardo verso la zona del conducente, e notò una seconda donna, un po' in là con gli anni, anch'essa straniera. Si teneva al corrimano superiore e fissava fuori dal finestrino con aria molto concentrata. Chiusa nel suo cappotto, non appena si sentì lo sguardo appannato di Mario addosso, si voltò nella sua direzione. Sulle prime il ragazzo la vide sgranare leggermente gli occhi, poi parve addolcirsi e sciogliersi in un sorriso cortese. 
Mario nel dubbio non cambiò la sua espressione, tornando a poggiarsi contro lo schienale, stanco e con la nausea a fiordipelle.
Quante gaijin ci sono in giro per Kanazawa ultimamente, si ritrovò a pensare, prima di chiudere gli occhi, cercando di lasciarsi per qualche secondo il mondo fuori dalle palpebre chiuse.
Tuttavia, il suo desiderio di pace non venne ascoltato.
Il mezzo di trasporto si fermò giusto il tempo di far salire i controllori, per obliterare i biglietti dei passeggeri.
Ma il ragazzo, nel frugare nelle tasche del giaccone e dei pantaloni, si accorse di non possedere nessun biglietto.
«Oh, merda!», esclamò tra i denti, combattendo contro un reflusso improvviso.
Nel frattempo, il controllore gli si avvicinò con aria impostata.
Mario alzò di poco lo sguardo, e tanto bastò a fargli provocare un capogiro molesto.
«Biglietto, ragazzo!» ordinò perentorio l’uomo, con voce atona.
Mario fece per alzarsi in piedi, fu una brutta mossa.
«Ascolti, io-»
Un movimento brusco del veicolo fece balzare Mario in avanti, proprio addosso al malcapitato controllore.
I viaggiatori seduti lì accanto fecero per intervenire in aiuto di Mario, totalmente instabile. La stessa donna con cui aveva scambiato quelle poche parole poco prima si sporse per dare una mano.
Il controllore continuò a squadrarlo, arricciando il naso. L’odore di alcool gli aveva pizzicato le narici, restandone disgustato.
«Già ubriachi a quest’ora?» fece l’uomo, cercando di restare quanto più lontano da quel fetore.
Mario aveva sentito quell’esclamazione come un eco lontano. Un signore che lo teneva per le spalle cercò di ridestarlo, scuotendolo animatamente. Ma Mario era altrove. Con la testa si trovava ancora lì, fuori a quella grande villa…
“Sei stato tu!”, aveva gridato la sera prima, con il sakè nella mano sinistra e l’altra intenta a lanciare sassi verso le finestre di quell’enorme villa.
“Finirai in galera, marcirai in carcere, pezzo di merda!”
Le urla di quella sera si confusero con le parole che stava blaterando in quel momento, verso chi o cosa, nessuno riusciva a capirlo.
L’altro controllore giunse in aiuto del collega, già pronto con il manganello a colpire chiunque volesse ribellarsi alla loro autorità.
«Il ragazzo non sta bene!» fece una signora seduta di fronte, spettatrice della scena.
«È ubriaco» fece un altro signore, in piedi appoggiato al corrimano.
«Dobbiamo portarlo in centrale?» chiese sconcertato il povero controllore al collega, allibito tanto quanto lui.
Mario nel frattempo non riusciva più a distinguere sogno e realtà, la testa gli vorticava vertiginosamente.
Fece per aprire bocca, per cercare di spiegarsi, ma un conato di vomito lo colse totalmente alla sprovvista.
Mario rovesciò così addosso al controllore, causando il panico generale.
«Fermate l’autobus!» urlò il controllore, seguito dalle grida di sconcerto dei passeggeri, cercando di proteggersi alla bene e meglio dagli schizzi di vomito.
Poco prima di perdere conoscenza, a Mario parve di riconoscere nel trambusto da lui involontariamente causato la donna che poco prima gli aveva sorriso, avvicinatasi per soccorrerlo.
«Tutto bene, figliolo?» rimbombò la sua voce gentile nelle orecchie del giovane.
Ma Mario era troppo debole in quel momento per rispondere.
«Sto- sto be-». Un attimo dopo si era accasciato al suolo.
 
 
«È salito su di un mezzo pubblico senza biglietto e per giunta ubriaco!»
Setsuko si beccò in pieno tutta la filippica dell’agente che elencava la sequela di “reati” commessi da Mario nell’arco di una sola mattinata.
Credeva che ormai quei tempi fossero passati, e invece…
«Certamente è troppo poco per una detenzione, ma converrà con me che è decisamente inappropriato assumere atteggiamenti simili!»
Setsuko annuì, mortificata. L’agente aveva le sue ragioni per parlare in quel modo; se solo avesse capito quanto quella povera donna si trovasse in difficoltà ad esporre le proprie! Ma parlare serenamente con Mario era ormai causa persa.
Tutto diventava motivo di discussione e litigio, tenere a bada il carattere turbolento e fumantino del suo figlioccio non era impresa facile.
«Per adesso si becca una multa, ma la prossima volta non ci andremo così leggeri!» sentenziò l’agente, sempre più indispettito.
«Non ci sarà una prossima volta, glielo assicuro!» promise la donna, più a sé stessa che all’uomo seduto di fronte a lei.
Uscì da quell’ufficio con un gran mal di testa. Era stata in ansia per tutta la notte, non aveva saputo nulla di Mario per tutto l'arco della giornata. Aveva persino chiamato al Rainbow per accertarsi che fosse lì, in compagnia dei suoi amici di sempre, ma Ryuji gli aveva risposto che non lo aveva visto per tutto il giorno.
Aveva poi fatto un tentativo in caserma, ma Tadayoshi gli aveva risposto allo stesso modo.
Setsuko era davvero esausta. Ma almeno, quel moccioso non si era cacciato in altri guai per il momento.
Si diresse verso la sala d’attesa, aspettando che Mario uscisse dalla stanza del dottore.
Con lui era entrata anche la donna bionda, trascinandosi la valigia al seguito.
Per precauzione lo avevano visitato, ma fortunatamente non aveva ematomi o traumi di alcuna natura. Solo una sbronza bella pesante, e l’alito che puzzava di alcool misto ad acido.
Aveva vomitato di nuovo quando si era risvegliato, ma era troppo debole per riconoscere il posto in cui si trovava.
Continuava a chiamare sempre la stessa persona. Lo stesso nome.
Rokurota… Rokurota…
«Le chiedo scusa» Setsuko si voltò alla volta di quel richiamo detto con voce gentile, educata.
La donna che era sull'autobus assieme a Mario lo aveva seguito fin in ambulanza, assieme all'altra donna straniera, che aveva dichiarato di essere un medico e di avere la situazione sotto controllo.
Era rimasta lì seduta ad aspettare notizie del ragazzo, evidentemente si era preoccupata più del necessario.
«Come sta quel ragazzo? Ha vomitato anche l'anima sull'autobus, ho avuto paura fosse un'indisposizione grave!». Nel parlare, quella signora aveva un leggero accento francese misto ad un perfetto giapponese.
Setsuko chinò il capo in segno di riverenza.
«Da quel che so, sta bene, ha solo ecceduto un po' troppo con l'alcool…» le rispose, con cortesia, nonostante non faticasse molto a nascondere una lieve ostilità nei suoi confronti. Era pur sempre una gaijin, e da quelle persone tutti preferivano mantenere le distanze.
«Capisco…» commentò la donna col vago accento francese. Agli occhi di Setsuko non sembrava una persona sciatta, anzi: non era esagerata nel vestire, ma aveva qualcosa nei modi che la rendeva elegante in modo innaturale.
«Non sia troppo dura con suo figlio, signora! Anche il mio a volte faceva queste cose… sono ragazzi, può capitare» cercò di giustificarlo la sconosciuta, con una punta di malinconia mista a nostalgia nella voce. Setsuko non si soffermò molto sul fatto che quella donna avesse usato il passato per riferirsi al proprio figlio. Lo giudicò piuttosto un banale errore grammaticale.
«Ehm, lui non è-»
«Setsuko-chan!» la donna interruppe la frase, non appena si sentì chiamare da una voce rauca ma giovanile.
Nel voltarsi, riconobbe il viso tondo e le orecchie grosse di Noboru e la mole grossa ed imponente di Mansaku. Erano entrambi amici fraterni di Mario, da quasi sei anni.
Setsuko rivolse loro un sorriso rilassato, rasserenandosi di poco. La donna straniera sorrise a sua volta, cortese.
«Setsuko-chan, che ha combinato stavolta Mario?» chiese Noboru, inarcando un sopracciglio e piegandosi in avanti, con i pugni ben piantati sui fianchi.
«Mario…» ripetè impercettibilmente la sconosciuta, come in trance.
Entrambi erano accorsi dopo la chiamata della stessa Setsuko. La donna non aveva le forze e la pazienza per affrontare da sola un’altra battaglia sconclusionata con quel testardo di Mario.
Necessitava di qualsiasi tipo di sostegno, e sapeva che in quei ragazzi lo avrebbe trovato a mani basse, come sempre.
Setsuko fece un bel respiro profondo prima di parlare.
«Ha vomitato addosso ad un controllore» rivelò, incrociando le braccia.
«Era ubriaco e non possedeva alcun biglietto di viaggio» continuò, infastidita e mortificata allo stesso tempo.
I due ragazzi la guardarono sorpresi e meravigliati, senza parole.
«Ma lui sta bene adesso?» chiese Mansaku, visibilmente preoccupato più per la salute dell’amico che delle sue infrazioni.
Setsuko annuì, mordendosi il labbro inferiore.
«Non so più che fare con lui» confessò poi, con aria amareggiata.
Mansaku e Noboru capivano perfettamente le sue preoccupazioni. D’altronde, neanche loro riuscivano a tenere a bada il loro migliore amico. Soprattutto negli ultimi tempi, era diventato più intrattabile del solito.
L’unico che aveva il coraggio di fargli una bella lavata di capo era Tadayoshi, essendo il più grande della combriccola e l’unico a cui, apparentemente, Mario desse retta. Gli altri, ormai, avevano preferito lasciar correre ad ogni sua alzata di testa o presa di posizione.
La donna straniera avrebbe voluto dire qualcosa, ma la voce le si era bloccata in gola, restando a bocca aperta e le parole incollate alla punta della sua lingua.
Pochi minuti dopo, i quattro videro uscire un Mario visibilmente sbiancato e febbricitante dalla stanza del medico. Era in compagnia dell'altra donna straniera che stava vicina a lui sull'autobus.
Aveva gli occhi rossi e lucidi, tremava per il freddo e aveva male alla testa e allo stomaco.
«Per ora ha solo qualche decimo di febbre. Una bella giornata di riposo e suo figlio tornerà come nuovo» disse la donna alla volta di Setsuko, dando una leggera pacca sulla spalla al povero Mario, che accusò il colpo come una bastonata anziché come un leggero colpo d’incoraggiamento.
«Lei non è mia madre» brontolò Mario, gonfiando le guance come un bambino.
Noboru trattenne a stento una risata, bloccato prontamente da Mansaku, relegandogli un buffetto dietro la nuca. Anche in momenti simili, Mario riusciva a cacciare la verve più pungente del suo repertorio.
Setsuko lasciò perdere la battuta poco felice di Mario, per lei in quel momento c’era davvero ben poco da ridere.
La seconda donna, quella dell'accento vagamente francese, si limitò a fissarlo con aria enigmatica, come se stesse studiando i suoi lineamenti e li stesse memorizzando per bene.
«Adesso che torni a casa facciamo i conti» rispose Setsuko, piccata.
« Sono adulto ormai, smettetela di trattarmi come se fossi un pisciasotto! » ribattè a sua volta Mario, sottolineando la parola pisciasotto con una punta di veleno nella voce.
Setsuko non riuscì a trattenersi oltre, lo schiaffo che gli mollò in pieno volto fu talmente forte da far girare mezzo reparto a guardare. La dottoressa, Noboru, Mansaku e l'altra signora sussultarono di fronte a tanto ardore.
«Imbecille! Sono stata tutta la sera in pensiero per te! Ho chiamato a destra e a manca per sapere dove ti fossi andato a cacciare!» Setsuko esplose come una mina nascosta sotto terra, tanto era il nervoso che aveva accumulato per colpa sua.
«Poi stamattina mi chiamano dalla stazione di polizia per dirmi che ti hanno rinvenuto ubriaco e senza biglietto sulla corriera! Ti avrei ucciso se ti avessi avuto davanti!».
Mansaku fece per intervenire, ma Noboru lo bloccò in tempo.
«È una cosa loro, Mansaku. Meglio non intromettersi» fece il più piccolo, improvvisamente serio. Mario aveva decisamente esagerato.
«Meglio, guarda, un problema in meno per te, no?» ruggì Mario, con voce rotta. Lo sguardo che rivolse a Setsuko era talmente infuocato da riuscire quasi ad intravederne le fiamme ballare in quelle iridi grandi e tempestose.
«Non hai battuto ciglio quando io e Joe siamo stati buttati fuori dalle poste, soltanto perché ti conveniva! Perché di andare contro il volere dei signori Sakuragi non se ne parla affatto, giusto?».
Setsuko deglutì per darsi un contegno, quel moccioso stava oltrepassando ogni limite.
Preferì non rispondere a quella provocazione, gli stava già dando fin troppa corda.
Nessuno si accorse del sussulto che la donna straniera ebbe nel sentir pronunciare quel cognome.
«Forse è meglio se continuate questa discussione altrove» s’intromise la dottoressa, buttando un’occhiata intorno. Gli infermieri e altri spettatori involontari stavano osservando la scena, curiosi di vedere l’evolversi della vicenda.
«Si, forse è meglio andare da qualche altra parte» convenne Mansaku, con la sua solita aria pacata e titubante, «a Mario poi non fa bene agitarsi così» sentenziò poi, preoccupato.
«Non ho bisogno che tu mi dica cos-» Mario non finì mai l’invettiva al vetriolo diretta all’amico di sempre. Setsuko gli tirò un orecchio, invitandolo poco gentilmente a schiodarsi da lì.
«Grazie per tutto, signorina» rispose la donna, inchinando il capo, mesta.
Noboru e Mansaku fecero altrettanto, seguendo i due in religioso silenzio.
«Heather Hudson» si presentò la dottoressa, buttando in fuori il petto «Sono il nuovo medico assegnato al campo base militare statunitense. È stato un piacere» dichiarò fiera, gli occhi le sorridevano, nonostante la situazione fosse più tesa di una corda di violino.
«Ci scusi per lo spettacolo poco felice a cui ha dovuto assistere! Ma il nostro Mario ama farsi riconoscere sempre, in tutto il suo splendore!» fu l’unico commento che buttò fuori Noboru, ridendosela sotto i baffi.
Mario lanciò un’occhiataccia prima verso la volta dell’amico, poi un’altra di puro astio verso Setsuko, divincolandosi dalla sua presa. Lei preferì lasciarlo andare avanti, senza opporre alcuna resistenza.
«Bel caratterino il ragazzo, complimenti!» scherzò Heather, portandosi le mani sui fianchi. A vederla con quel vestito a fiori e gli stivali ai piedi, non dava per niente l'aria di essere un'ufficiale militare.
Setsuko si profuse in un ennesimo inchino di scuse.
«Aspetta un attimo!» fece l'altra signora, notando che dalla tasca del giaccone di Mario era caduto qualcosa. 
«Ti è caduto… questo…» la frase le morì d'intensità non appena si accorse che ormai quel giovanotto era troppo lontano per poterle dare retta, mentre era piegata in avanti per raccogliere quel foglietto.
«Cos'è?» le si avvicinò Setsuko, prendendo dalle mani della donna quell'oggetto caduto, un bigliettino ripiegato su sé stesso, accartocciato quasi.
Inizialmente pensò si trattasse del biglietto dell’autobus. Ma non appena lo dispiegò, vi trovò scritto su un indirizzo.
«Cos’è?» chiese Noboru, con franca ingenuità.
Nel leggere quell’indirizzo, Setsuko osservò il profilo barcollante di Mario che si allontanava da loro. La sua furia si tramutò in qualcosa di più denso e calmo. Qualcosa di più simile alla preoccupazione che al rimprovero.
Avrebbe dovuto parlare con lui, non ci poteva essere altra soluzione.
«Niente» disse Setsuko, infilandosi il biglietto nella tasca del cappotto di flanella rossa.
Salutò ancora la dottoressa e ringraziò la sconosciuta che si era premurata di stare lì con loro tutto il tempo necessario.
«Che Dio vi protegga» disse lei, con un sorriso sincero stampato sul bel volto affilato e magro. 
Setsuko si sentì investire da un calore strano, avvolgente. Come se il peso gentile di una coperta le fosse caduto sulle spalle, a proteggerla dal freddo.
Voltò definitivamente le spalle alla sconosciuta e si diresse verso l'uscita.
«Che possa essere…» iniziò la donna, ma poi scosse il capo, incuriosendo persino la giovane dottoressa. Si congedo da lei con un sorriso e lasciò anche lei quel corridoio.
«Welcome to Japan, Heather!» mormorò fra sè e sè la dottoressa, divertita da tutto quel trambusto.
 

* * *
 


Johnny Be Goode di Chuck Berry risuonava per tutta la stanza, rimbombando tra le pareti come un puro inno alla vita.
Joe ballava e cantava sulle note di quella canzone come faceva da ragazzino, quandi mprovvisava spettacoli di fronte ai suoi compagni di sventura, incurante del fatto che potesse essere scoperto da Setsuko o da Rokurota.
Aveva sempre avuto buon ritmo, il corpo magro e sinuoso rendeva i suoi movimenti agili e ipnotici. 
Con la sigaretta accesa tra le labbra, Joe canticchiava le strofe mentre si allacciava la cintura dei pantaloni. Era in canottiera, l’aria pungeva ma il calore di quella canzone gli penetrava le ossa.
La musica era sempre stata presente nella sua vita, e avrebbe voluto continuare a farcela restare. La sua vita sarebbe anche potuta andare a rotoli, ma se accompagnata da qualche buon pezzo musicale, il viaggio sarebbe stato meno arduo e asfissiante.
«Hai intenzione di farmi venire sotto casa tutto il vicinato?».
Joe si girò di scatto nel sentire quella voce di donna, vellutata ma divertita. Non si era accorto di essere osservato mentre dava adito al suo piccolo show personale.
Namie Sawada lo stava squadrando con aria attenta, con una spalla poggiata allo stipite della porta, le braccia incrociate sulla vistosa vestaglia di seta colorata.
Aveva giusto qualche anno in più a Joe, lavorava come parrucchiera in un saloon di bellezza. Si erano conosciuti per puro caso, qualche mese prima, quando il ragazzo era giunto sul suo posto di lavoro per consegnare un pacco in portineria.
Namie lo aveva notato subito, con quegli occhi incredibilmente chiari e la pelle trasparente, come coperta da un velo di seta purissima. 
Non ci era voluto poi così tanto a conoscerlo e ad approfondire ulteriormente la loro conoscenza, data l’innocente civetteria di Joe, e l’intraprendenza dell’altra.
«Hai una voce incantevole, Joe, lo sai! Però sono le nove del mattino, ci tireranno le uova alle finestre, capisci?» osservò Namie, con aria fintamente afflitta.
Il volto di Joe si aprì in un sorriso luminoso, ringalluzzito per il complimento.
Si avvicinò alla donna con passo felpato, liberando una nuvoletta di fumo dalla bocca.
«Mi concedete questo ballo, nee-san?» provocò lui, prendendola per i fianchi e porgendole la sigaretta.
Namie avvicinò le labbra al suo mozzicone, trovando il pretesto di baciargli anche le dita mentre aspirava. Joe non le ritrasse.
Lei lo guardò divertita, restando intrappolata in quelle iridi dal colore inusuale. 
«Sei proprio tremendo!» affermò la donna, e si abbandonò ai movimenti scatenati di quella musica straniera, guidata dal più giovane.


Il ballo si era inevitabilmente concluso tra le lenzuola già sfatte. 
Era stato divertimento e piacere, anche se effimero. Joe avrebbe potuto considerarsi fortunato, dopotutto.
«Devo andare» fece, alzandosi dopo un po' dalle braccia dell'altra, sciogliendosi delicatamente dal suo abbraccio. 
Si aggiustò i pantaloni e la cintura, e afferrò da terra la t-shirt bianca e la giacca di jeans. 
«Ti chiamo io allora?» incalzò Namie, sollevandosi sui gomiti. Le onde medie dei suoi capelli castani tinti le scivolarono in parte dietro le spalle, in parte sul petto, poco prima della collina dei seni, nascosti sotto la seta della sottana. 
«Quando vuoi, mi trovi al Rainbow» rispose Joe, ammiccante. 
Namie gli rivolse un sorriso furbetto, d'intesa.
Alzatasi anche lei, raggiunse il ragazzo, aggiustandogli il colletto e sistemandogli la giacca, più con fare materno che seduttivo.
«Dovresti trasferirti qui, vivere insieme a me non è male, sai? Tanto lavoro tutto il giorno e avresti casa tutta per te» fece la donna, dandogli un buffetto amichevole sotto al mento.
Quel discorso Namie l’aveva intavolato già altre volte, ma Joe non ne era mai stato particolarmente interessato. Quella stanza per lui fungeva soltanto da passatempo, il pensiero di starvi troppo a lungo non lo aveva attraversato neanche di striscio. 
«E come faccio a pagarti l’affitto? Ho perso anche il lavoro di recente, e con le serate al Rainbow non è che guadagni chissà quanto» ammise Joe, canzonatorio.
Namie mise in mostra il labbruccio, mostrandosi dispiaciuta.
«Beh, per te farei uno sconto speciale…» sussurrò, ad un paio di centimetri di distanza dalle sue labbra. Ma a quelle parole Joe mutò leggermente espressione, anche se in modo impercettibile.
«Magari invitami alle tue serate, così ti sento cantare, almeno una volta» propose lei, cambiando discorso dinnanzi alla sua non risposta. Le dita perfettamente smaltate disegnavano linee immaginarie sul petto asciutto del giovane.
Joe abbozzò un sorriso, complice. 
«Ti dedicherò Johnny Be Goode allora» esclamò, giulivo, «e dovrai scatenarti più di tutti gli altri, altrimenti ti chiamo sul palco a ballare» la minacciò divertito, tirandosela contro cingendole i fianchi in un abbraccio stretto. Namie sospirò sensualmente a quella stretta, inclinando il capo all’indietro.
«Basta che poi non mi lasci sul più bello» sussurrò lei al suo orecchio, leccandogli con la punta della lingua il padiglione esterno dell'orecchio. 
Joe arrossì a quel gesto. 
Non provava esattamente amore per lei, ma il sesso con lei era caloroso, morbido e avvolgente. Una carezza dopo una stancante giornata e pensieri ingombranti. 
A volte, i quei momenti, stringeva così tanto gli occhi da pensare di essere altrove, perdendosi nei suoi stessi sospiri. Si aggrappava alle cosce morbide della compagna e ai suoi fianchi, affondava il viso tra i suoi seni, e veniva con un lento mugolio gutturale. 
Era anche capitato altre volte che mentre lei dormisse, Joe si fosse tirato le ginocchia al petto e avesse pianto in silenzio, cercando di non farsi sentire. Era un qualcosa di incontrollato, gli succedeva spesso di provare reazioni così altalenanti tra loro. Oscillava tra la felicità più acuta e la malinconia più sentita.
Gli stava succedendo lo stesso quella mattina, quando improvvisamente si era ricordato delle parole di Rokurota:
"Quando sei triste, pensa alla musica. Muoviti, salta, grida, lasciati travolgere. Immagina di stare su un palco, e davanti a te si staglia un pubblico immenso che non vede l'ora di ballare. E quindi tu canta e balla per loro, ma soprattutto fallo per te stesso."
Allora Joe si era alzato e aveva infilato sul piatto del giradischi il primo vinile che aveva trovato, e aveva iniziato a ballare e cantare, come faceva da sempre, fin da quando era bambino.
«Resti ancora? Cinque minuti soltanto» chiese la donna, nella voce traspariva una velata supplica.
Joe soffocò un gemito in gola, stralunando gli occhi.
«Va bene, ma solo per cinque minuti. Non uno di più».

 
* * *

Il mal di testa non accennava a placarsi in alcun modo.
Steso supino sul letto, Mario si era portato il braccio sinistro sugli occhi: li sentiva gonfi e secchi, come se avesse pianto per un giorno intero.
Ma erano anni ormai che Mario non esplodeva in un pianto fragoroso e liberatorio. Gli anni del carcere minorile lo avevano forgiato nel carattere, rendendolo più duro di fronte a qualsiasi tipo di avversità.
Non aveva pianto nemmeno al funerale di Rokurota, non aveva versato nemmeno una lacrima, un lamento o un gemito di disperazione. Non che i suoi amici avessero fatto diversamente, dopotutto. 
Alle volte, il peso di quei pianti non consumati gli opprimevano il petto come un macigno di ferro rovente, e l’unico modo per sfogare tutta quella tristezza e rabbia, era stato prendersela con le persone più vicine a lui, Setsuko, i ragazzi, Lily...
Ah, se fossi ancora vivo, si ritrovava a pensare poi, racchiuso in sé.
Se tu fossi ancora vivo, ora le cose sarebbero andate bene. 
Adesso avrei una famiglia vera, una casa… e un padre.

Il rumore della porta lo ridestò dal suo sonno inquieto, scorgendovi dall’uscio una Setsuko guardinga, il suo sguardo lo penetrava fin dentro le ossa. Come faceva sempre, nulla di nuovo.
«Che c’è? Vuoi assicurarti che sia abbastanza calmo da non mordere?» esordì lui, alzando di poco il braccio dagli occhi per osservarla stizzito.
Setsuko si strinse nello scialle rosso, sembrava non volesse avere alcuna intenzione di litigare con lui. Aveva l’aria stanca ed afflitta.
Mario cercò di alzarsi con un leggero movimento di reni, facendosi forza con i gomiti. La testa gli faceva ancora un male cane. 
Setsuko si decise ad entrare nella stanza, rimase per un po' a guardarlo in piedi, accanto alla branda.
«Voglio solo parlare senza creare spargimenti di sangue. Una volta le nostre conversazioni erano molto più tranquille» dichiarò la donna, sedendosi sul materasso di fronte al ragazzo. «Mi confidavi tutto. Ora invece faccio fatica persino ad intavolare un discorso civile con te» ammise lei, con sguardo basso e triste.
Mario incrociò le braccia al petto, imbronciato.
Setsuko rise di quell’espressione; in quei momenti, gli sembrava ancora un ragazzino, con quello sguardo dolce perennemente accigliato e il brontolio sempre sulla punta della lingua.
Gli poggiò una mano sulla spalla, cordiale. Gliela massaggiò appena.
«Ero talmente stordito che non mi ero accorto di essere salito su quella maledetta corriera» bofonchiò lui, mortificato.
Setsuko continuò a fissarlo, voleva cogliere qualsiasi messaggio occulto che, volontariamente o no, Mario gli stesse nascondendo.
«Ma perché mai ti sei ridotto a quel modo? Non arrivi mai a bere così tanto!» 
L’accusa che gli aveva rivolto Setsuko non era dura né crudele. Voleva semplicemente capire quali fossero le sue reali intenzioni. La curiosità la divorava dentro, e quel biglietto che aveva trovato aveva acuito le sue preoccupazioni.
«Io… io non lo so» fu la risposta secca di Mario, guardandosi le mani, in particolar modo la destra. Quando la chiudeva a pugno si sentiva tirare tutti i tendini, li poteva percepire tesi come corde di violino, quasi sul punto di spezzarsi. Le cicatrici sul dorso si diramavano come a creare una fitta boscaglia livida, ricca di spine e tagli cuciti alla bene e meglio.
«Da quando non lavoro più alle poste mi sento un fallito. Quel pezzo di merda ha dovuto togliermi anche l’ultima cosa che mi restava: la mia dignità».
Setsuko sapeva cosa voleva dire quel discorso per Mario.
Non era stato facile per loro, per nessuno di loro, farsi riaccettare in società dato il loro passato in carcere. Era stata lei a trovargli quel lavoro, grazie anche all’aiuto di Kensuke Tenko, dottore della cittadina e suo capo primario nell’ospedale in cui lavorava, nonché amico di lunga data suo e di Rokurota.
Mario aveva accettato, ma solo alla condizione che con lui potesse svolgere qualche mansione anche Joe. Col tempo erano diventati così inseparabili che era stato difficile non accogliere la richiesta del ragazzo. Da quando si erano lasciati il carcere alle spalle, loro due avevano fatto quasi tutto in simbiosi, separarsi sarebbe stato quasi innaturale per entrambi.
Non era stato certamente il lavoro dei suoi sogni, ma era stato un buon modo per scacciare via i pensieri, per crearsi una routine, per mantenersi attivo.
Perderlo, inutile negarlo, era stato un brutto colpo. Soprattutto in quel modo cattivo e subdolo, con tanto di lettera anonima spedita al capoufficio, di cui però era stato facilmente intuibile il mittente.
Setsuko decise di affrontare il punto della questione.
Aveva cercato per tutta la sera le parole giuste per affrontare la discussione che ne sarebbe fuoriuscita. Ma doveva farlo, non poteva rimandare oltre.
Estrasse il biglietto con su scritto l’indirizzo e lo porse a Mario. Il ragazzo imprecò tra i denti non appena lo riconobbe.
«Cosa ci facevi con l’indirizzo del signor Sakuragi?» domandò Setsuko, rigida. Nessun sorriso o compiacenza nella voce.
Mario la fissò, come un condannato a morte senza via di fuga. Tergiversare non sarebbe stata di certo la scelta più adatta. 
«Ho trovato il suo indirizzo» confessò distratto, guardando verso le tende della finestra.
«Come lo hai trovato?» lo interrogò lei, sempre più dura.
Mario increspò le labbra, portandosi il ginocchio destro al petto. 
«Nell’agenda di Jeoffrey» ammise poi, a voce bassa, colpevole.
Setsuko sospirò, risoluta. 
«L’aveva lasciata incustodita sulla scrivania, così-»
«Che cosa pensavi di fare?» lo interruppe la donna, leggermente arrabbiata.
I suoi occhi neri scrutarono i grandi occhi da cerbiatto di Mario, che risposero a quello sguardo di sottecchi, intimoriti.
«Fare giustizia, forse?» rispose lui, nervoso.
Setsuko sapeva che sarebbe esploso di lì a poco. Ed era l’ultima cosa che avrebbe voluto in quel momento, ma sapeva anche che non sarebbe riuscita ad evitarlo oltre. 
Sospirando affranta, si spostò una ciocca della frangia nera dietro l’orecchio.
«Giustizia? Con Atsumichi Sakuragi pensi davvero che serva a qualcosa la giustizia?»
«Quello stronzo ha ucciso Rokurota, e invece di marcire in una cella, passeggia libero per le strade della città come se niente fosse!» esplose Mario, contenendosi a fatica. Gli occhi scuri saettavano di rabbia compressa.
«E non contento, ci ha pure sbattuto fuori a calci dal nostro lavoro! Non sa più cosa inventarsi per renderci la vita impossibile!».
«E cosa avresti risolto andando da lui? Pensi davvero che la polizia avrebbe dato retta ad un ex detenuto come te?» Setsuko si pentì subito di ciò che aveva detto, accorgendosi troppo tardi dello sbaglio.
Mario le lanciò uno sguardo rabbioso, livido. Si era sentito messo con le spalle al muro, come quando in riformatorio, il primo giorno di detenzione, lo avevano fatto spogliare nudo sotto un getto di acqua gelida. Era talmente fredda che ogni raffica d’acqua che gli aveva lambito la pelle sembrava scorticarlo, come la lama di un pugnale sulla corteccia di un albero. 
Si era sentito ferito, ma ormai a quelle parole ci aveva fatto l’abitudine.
Avanzo di galera.
Poco di buono.

Bastava che chiunque sapesse del suo passato per sentirsi addosso quelle accuse silenziose. 
Per fortuna, non era il solo a portare quel peso sulle spalle. Era consapevole del fatto che quel fardello lo avrebbe sempre condiviso con quegli amici che ormai considerava come fratelli, e che un tempo condivideva anche con Rokurota.
Perderlo per lui era stato un brutto colpo, un incubo dal quale non si sarebbe mai più risvegliato.
E l’unica persona che glielo aveva strappato via era stato proprio Atsumichi Sakuragi.
Personalità di spicco della prefettura, l’uomo più potente dopo l’Imperatore, dicevano le voci sul suo conto.
Per Mario invece quell’uomo era solo una viscida serpe, pronta a tutto pur di mantenere saldo il proprio prestigio, anche a costo di vendere la sua stessa famiglia, o sacrificare sangue del suo sangue in nome del dio Potere.
Setsuko cercò di riparare al suo errore, richiamando l’attenzione del ragazzo.
«Scusami Mario, non volevo dire-»
«Mica mi vergogno di essere un ex galeotto?» sibilò Mario, sempre più cupo.
«È lui che si dovrebbe vergognare di sé stesso! Io ho pagato i miei debiti, se esiste davvero un briciolo di giustizia a questo mondo, è tempo che paghi anche lui per le sue malefatte, e che le paghi pure a caro prezzo!» Mario ormai era un fiume in piena, Setsuko non potè fare altro che seguire le sue parole in silenzio, rassegnata.
«E se devo riaffrontare il carcere per ottenere giustizia per Rokurota, ben venga! Tanto non le temo più quelle maledette sbarre!».
Il ragazzo aveva il fiatone dopo aver vomitato tutto quello che aveva nel cuore da tempo, le tempie gli pulsarono fortemente, ricordandogli la propria debolezza fisica.
Si portò la mano offesa sugli occhi, contrito.
Il confronto con Rokurota fu inevitabile.
Tra i ragazzi, ovviamente, non vi era alcun legame di sangue, e l’uomo si era solo occupato del loro reinserimento sociale.
Lui aveva creduto molto nella loro riabilitazione. Aveva dato loro una speranza, un motivo per amare ancora la vita.
Le mura di quella villa avevano resistito ad ogni cambiamento, anche alla mancanza forzata del proprio padrone di casa.
Dopo la sua morte, era come se a Setsuko fosse stato passato un testimone invisibile.
Era toccato a lei guidare quei ragazzi, ma non possedeva né le speranze di Rokurota e nemmeno la sua stessa forza morale. 
Mario la stremava continuamente, metteva sempre a dura prova le sue buone intenzioni.
Ma non si sarebbe arresa, non per così poco. Erano stati tre anni di fatiche e pianti, cedimenti e rabbia, ma avrebbe continuato a portare avanti, nonostante tutto, il sogno dell’amico di sempre. Il sogno del suo grande amore non corrisposto.
«Basta così» convenne poi Setsuko, alzandosi dal letto e sistemandosi la gonna.
«Meglio se riposi un po'. Ne riparleremo con più calma».
«Non ho più niente da dire a riguardo» fu la stoccata finale del giovane, coricatosi di lato, dando le spalle alla donna. 
Setsuko non infierì oltre, lasciò che il sonno alleviasse la sua rabbia e le sue pene.
Richiusasi la porta dietro, vi si appoggiò con la schiena, respirando profondamente.
Lo sguardo gli ricadde sulla foto che avevano fatto tutti insieme, sei anni prima, appesa alla parete del corridoio.
Una sé stessa più giovane e con i capelli più lunghi sorrideva all’obbiettivo insieme a Rokurota, Mario, Joe, Tadayoshi, Ryuji, Mansaku e Noboru. 
Non ricordava per quale ricorrenza avessero scattato quella foto, provava solo un’immensa serenità nel vederli tutti così vicini e sorridenti.
Rokurota sembrava il più felice di tutti, il più sereno.
Setsuko si avvicinò alla foto, e carezzò con le dita il profilo dell’uomo, che gli sorrideva incoraggiante.
«Mi chiedo cosa avresti fatto tu», sussurrò lei, mentre una lacrima le scivolò dalla palpebra sinistra.
Quella notte pregò l’anima di Rokurota affinchè vegliasse su quella testa calda di Mario, e di tenerlo lontano dalle grinfie di quell’uomo.

 

* * *


«Io vorrei proprio capire cosa gli frulla in testa certe volte a quell’incosciente di Mario!», esclamò Noboru, con le mani intrecciate dietro la testa, mentre camminava per la via principale della cittadina in compagnia di Mansaku, tutto intento ad osservare dove mettesse i piedi.
«E se Sakuragi avesse aperto la finestra e lo avesse accolto a suon di fucilate? Ne aveva tutto il diritto, visto che era invasione di proprietà privata!» continuò il ragazzo, ancora scettico dopo quanto accaduto. 
Dopo quanto successo dopo il licenziamento, Noboru aveva intuito che Mario si fosse recato dai Sakuragi a fare una delle sue solite piazzate, con l'intenzione di regolare i conti. 
Per questo, una volta raggiunta la villa, Noboru lo aveva costretto a vuotare il sacco assieme a Mansaku.
E Mario, tra una sonora sbuffata e l’altra, confessò di essere andato sotto casa di Atsumichi Sakuragi ad urlare contro l’imponente cancello di ferro, per vendicarsi del suo licenziamento. L’alcool lo aveva aiutato a prendere coraggio per la sua impresa, facendo fuoriuscire, oltre alla forza, anche i ricordi più tetri.
Mansaku non aveva saputo come ribattere, mentre Noboru prima si era scompisciato dalle risate, e poi lo aveva rimproverato aspramente, con quella voce gracchiante che si ritrovava, facendo aumentare notevolmente il dolore che Mario aveva alla testa a causa della febbre e del post sbornia.
«Io so solo che poteva cacciarsi in un brutto guaio» commentò Mansaku, con le spalle ricurve e l’aria mesta. «Non possiamo nulla contro quell’uomo» constatò poi, portandosi pollice ed indice al mento, pensieroso.
«Dobbiamo stare molto attenti a non pestargli i piedi, a quello lì» ribattè Noboru, mettendosi le mani in tasca. «Atsumichi Sakuragi non è tipo da farsi scorrere le provocazioni addosso. È un uomo pericoloso» dichiarò, parlando più fra sé che con l’amico lì accanto. Le luci dei locali notturni iniziarono ad accendersi lentamente, ed anche il traffico cittadino stava notevolmente aumentando. 
«A me fa paura soltanto nominarlo… non so come faccia Mario a sfidarlo così apertamente» tagliò corto Mansaku, con una punta di amarezza nella voce, grattandosi la nuca imbarazzato.
«Pensa che facendo lo sbruffone riuscirà a spuntarla, l’idiota! Già è tanto che Sakuragi non ci abbia fatto fuori assieme a suo figlio» aggiunse Noboru, aprendosi un pacchetto di sigarette americane. «Non che ci creda alla storia del suicidio di Rokurota infondo… ma nessuno crederebbe alle nostre supposizioni. Supposizioni avanzate da ex carcerati tra l’altro! Fa già ridere così!». Ma a Noboru non veniva affatto da ridere a riguardo.
Più di una volta avevano discusso con Mario su quella storia, ed era sempre andata a finire male, con Mario che se ne andava, accusandoli di aver abbandonato il ricordo di Rokurota, di averlo dimenticato.
Ma la verità era che nessuno di loro aveva dimenticato nessuno: Rokurota Sakuragi era stato per tutti loro - oltre che una specie di fratello maggiore - come un padre amorevole.
Era stato molto severo, ma allo stesso tempo era stato un uomo giusto, fin troppo corretto.
Se uno di loro cadeva, era sempre lì pronto ad aiutarli a rialzarsi, non senza avergli fatto una bella strigliata prima. 
Li aveva accompagnati nel loro percorso di recupero, gli aveva dato loro dei sogni da proteggere e coltivare…
Che un uomo così avesse pensato al suicidio, era risultato piuttosto strano a tutti coloro che lo avevano conosciuto.
Era risaputo anche che non andasse per niente d’accordo con suo padre, Atsumichi Sakuragi, il sospettato numero uno della lista di colpevoli stilata personalmente da Mario, l’uomo da cui la sera prima era andato ad urlare il proprio astio e la propria vendetta, aiutato dai fumi dell’alcool.
Gli altri avevano appoggiato le sue teorie, ma dimostrare che Sakuragi padre c’entrasse qualcosa con la morte del figlio non era impresa facile, considerando il suo alto lignaggio e la sua intoccabilità sociale e politica.
Tanto valeva continuare la propria vita nel miglior modo possibile, proprio come Rokurota avrebbe desiderato per tutti loro. 
Ma Mario non era decisamente dello stesso avviso. Avrebbe dimostrato il coinvolgimento di Atsumichi Sakuragi nel presunto suicidio del figlio, a costo di rimanere da solo a combattere nel processo.
Mentre Noboru cercava di accendersi la sigaretta, l’urlo di Mansaku per poco non gli fece scivolare il fiammifero dalle dita.
«Ehi Joe! Siamo qui!» Mansaku richiamò l’attenzione del biondino, uscito da un locale lì vicino.
Joe alzò una mano in segno identificativo, salutò il padrone del locale e si avvicinò agli amici di sempre, con le mani in tasca e il suo solito sorriso affabile.
«Cos’è? Avevate paura per la mia incolumità?» fece Joe allegro, dando una bella pacca sonora a Noboru, facendogli cadere definitivamente il fiammifero acceso sui sampietrini. Il più piccolo lo guardò in cagnesco, con la sigaretta ancora spenta tra le labbra. Mansaku esplose in una grossa risata, abituato a quel teatrino.
«Niente affatto! Passavamo di qui e ti abbiamo visto. Ma meglio così, camminare da soli per strada a quest’ora non è sicuro» affermò Mansaku, con la sua solita aria da bonaccione incallito. Joe sorrise davanti a tanta premura. Mansaku era il più tranquillo della combriccola, amante del buon cibo e della buona compagnia. 
Dopo anni, Joe non si era ancora abituato a ricevere tanto bene da qualcuno.
Quando Rokurota era ancora in vita, aveva faticato, all’inizio, ad accettare le sue gentilezze per quelle che erano e non perché nascondessero secondi fini.
«Già ci pensa quel buon tempone di Mario a farci venire l’ansia, vedi di non mettertici anche tu, per favore» brontolò Noboru, rovistando nel pacchetto alla ricerca di un fiammifero.
Joe gli porse il suo accendino, placcato in acciaio, lo accese con un colpo secco del pollice.
«Dovresti comprarti un accendino, adeguati al futuro Noboru!» lo prese in giro Joe, ridendo sotto i baffi.
Noboru aspirò dalla fiamma per accendersi la sigaretta, e dopo aver rilasciato una boccata di fumo nell’aria, lo squadrò scocciato.
«E io cosa ti tengo a fare, scusa?» esordì lui, piccato. «O fai il galante soltanto con Namie-san?».
Joe gli rivolse un’occhiata scioccata, colto di sorpresa.
«Ma tu che-» 
«Le voci corrono, amico mio» sentenziò Noboru, ciccando sul selciato, dandosi arie da saputello.
Joe annuì, incredulo. Probabilmente, ipotizzò, lo aveva visto uscire dal saloon di bellezza dove lavorava la donna, e aveva intuito qualcosa.
Oppure era stata opera di Daisy. Quando aveva una notizia succulenta tra le mani, non riusciva mai a starsene zitta, nonostante Joe l'avesse pregata più volte di essere più riservata. 
Ma a quel pensiero, Joe non si adirò poi così tanto. Dopotutto, la conosceva abbastanza bene da poter affermare che combattere con tutto quell'entusiasmo vitale che emanava era battaglia persa in partenza.
«Sei andato a chiedere se ti accettavano come cameriere?» chiese poi Noboru, cambiando discorso, grattandosi la nuca.
Joe annuì nuovamente, con le mani in tasca.
«Sì, mi hanno detto che mi avrebbero fatto sapere. Ma sono un po' scettico, confesso» esclamò il ragazzo, storcendo il naso. 
Sia Noboru che Mansaku proruppero in un verso di comprensione. 
«Nel frattempo, potete venirci a dare una mano al Rainbow, se non si trova niente. Vero che il guadagno è notevole, ma tra spese varie, divise tra noi cinque, si arriva sempre con l’acqua alla gola…»
«Lo so, Noboru. Ma in realtà più che per me, sono preoccupato per Mario. Col carattere che si ritrova, sarebbe capace di alzare questioni ogni due minuti» scherzò il biondo, sogghignando divertito.
Mansaku appoggiò la sua battuta, Noboru un po' meno.
«A proposito, non viene stasera?» tergiversò poi il giovane hafū, rivolgendosi ad entrambi.
«Mario stasera è meglio che se ne stia tranquillo a casa!» sbuffò Noboru, schizzando nel sentire il nome dell’amico di sempre.
Joe lo guardò torvo. «Come mai? Che ha combinato stavolta?» chiese, visibilmente preoccupato.
«Te ne parliamo con calma al Rainbow» intervenne Mansaku, con aria gentile.
Joe annuì, immaginando l’ennesima trovata in cui si era cacciato il compagno. E a giudicare dalla reazione di Noboru, non era stata una sciocchezza.
«Finalmente! Stavo per aprire il locale tutto da solo!», una voce li richiamò dall’altro capo della strada.
Un giovanotto con i capelli scuri e gli occhiali li aspettava davanti alla porta del Rainbow, con un sorrisetto compiaciuto sulle labbra.
«Non è giornata Ryuji!» fu la risposta immediata di Noboru, che entrò come una saetta nell’antro del locale, dritto verso il bancone e la cassa.
Ryuji lo seguì con lo sguardo, strozzando una risata in gola.
«Che gli è preso, gli è andato di traverso il pranzo per caso?» chiese, con sguardo allegro.
«Sì, devi ringraziare Mario per questo, da quanto ho capito» fu la risposta di Joe, dando una pacca alla spalla dell’amico. Ryuji si sistemò gli occhiali sul naso, divertito.
«E quel disgraziato non viene stasera?» fece poi, alla volta di Mansaku, che gli rispose facendo spallucce.
«Adesso ti spieghiamo tutto» fu la sua umile risposta. 
Ryuji alzò divertito un angolo della bocca, soffocando una risata canina.
«Anche Tadayoshi farà tardi, raccontatemi tutto mentre lo aspettiamo» sentenziò, entrando anche lui, raggiungendo i compagni al bancone.




//Revisionato in data 4/11/23//

 
Buongiorno a tutti!
Sono davvero molto emozionata, lo confesso 😊
È la prima volta che pubblico una long qui su EFP, e non potevo cominciare nel modo migliore, riportando le gesta dei fanciulli protagonisti di quest’opera, che ho amato, e amo, con tutto il cuore!
Ho recuperato da poco l’anime di Rainbow su VVVID, e tanto mi è bastato per far scoccare la scintilla tra me e questi giovani pulzelli.
Ho sentito il bisogno di cucire loro addosso una storia parallela a quella principale, una sorta di “rewriting/what if” (che non me ne vogliano gli autori, questa è semplicemente una storia che vuole omaggiare l’originale, non prenderne il posto).
Come vedrete, man mano che leggerete, troverete alcune differenze rispetto alla storia originale, e questo comporterà anche un leggero OOC nei personaggi.
Io cercherò di renderli quanto più simili agli originali, ovviamente aggiungendo un qualcosa di mio. Questo sarà inevitabile, vista anche la piega che prenderà la ff.
Per adesso, abbiamo introdotto un po' tutti quanti, in particolar modo Mario e Joe, ed anche una misteriosa “Mariya”, ma con l’avanzare dei capitoli, verranno approfonditi tutti.
Vi illustrerò man mano le curiosità della storia a fine capitolo, e se c’è qualcosa che v’incuriosisce, non esitate a farmelo sapere!
So che ultimamente questo sito è un po' abbandonato, ma chi passerà per leggere e vuole lasciarmi due paroline, lo faccia, senza timore. 
Mi scuso sin d’ora se la mia scrittura non sarà perfetta, cerco di fare il possibile per regalarvi capitoli scritti bene e ben dettagliati, sperando però di non annoiarvi.
Cercherò poi di essere costante con le pubblicazioni: come sapete, siamo in periodo di sessioni, perciò potrebbero sorgere ritardi o cose simili.
In ogni caso, per chiunque abbia amato l’anime e adesso prova una profonda nostalgia, ma anche per chi l’anime non lo conosce ancora (tranquilli, non sono presenti spoiler pesanti) e ha curiosità di imbarcarsi in questo viaggio, lascio qui il mio modesto lavoro, sperando che vi piaccia, che vi diverta e vi faccia commuovere o, perché no, anche arrabbiare.
Vi avverto che non sarà una storia leggerina, ma se provocherà anche solo una piccola emozione dentro di voi, potrò ritenermi soddisfatta.
Pronti ad iniziare questo 2022 in compagnia di Mario e i suoi amici? 
Auguro a tutti voi una buona lettura, e lascio un sentito “Grazie” a chi vorrà imbarcarsi in quest’avventura!
 
   
 
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