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Autore: The Custodian ofthe Doors    06/01/2022    1 recensioni
[Storia interattiva| Deathfic!| Ready? Start!| Iscrizioni chiuse]
In un epoca sorprendentemente di pace, quando nulla turba l'equilibrio del mondo e dell'umanità, il pericolo più grande non è altro che la noia di coloro che hanno e possono tutto.
*
“ Problemi in Paradiso?”.
*
Il foglio volteggiò lento nell'aria densa delle Praterie degli Asfodeli, lì dove sorgeva il muro che li divideva dai Campi di Pena.
L'anima guardò altri fogli colorati svolazzare oltre quelle alte mura scure, caduti dal cielo, forse da quello vero e non dalla volta rocciosa che faceva loro da soffitto.
*
E se è la vita dei loro figli quella che gli dei vogliono veder in gioco, non vi sarà nessuno che potrà impedirlo.
*
“Riuscirai a “sopravvivere”? Sarai in grado di ingannare Thanatos?
Questa è la sfida della morte.
Questa è la Death Race.”
Genere: Avventura, Azione, Commedia | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Altro personaggio, Gli Dèi, Nuova generazione di Semidei, Semidei Fanfiction Interattive
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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Capitolo XVI- Eye- parte seconda.







La dea non aveva atteso una risposta dai suoi interlocutori, non si era attardata a guardare le loro facce sgomente, le spalle basse, i corpi tesi. Demetra aveva girato le spalle a tutti, compresa la dannata telecamera che aveva continuato a riprenderla.
Eolo sbuffò sonoramente, tamponandosi la fronte con un fazzoletto inumidito, maledicendo la dea per non esser rimasta altri due minuti al suo posto, anche solo a far scena.
Il suo assistente lo guardò quasi dispiaciuto, ma ormai abituato ai comportamenti poco collaborativi delle divinità, specie quando erano in diretta come in quel momento.
Erano tutti principi e principesse, tutti pronti a far quel che volevano ignorando la scaletta ed i tempi televisivi, come se quelle lunghe liste, quei copioni, i gobbi, fossero stati fatti per pura forma e non perché dovessero essere seguiti.
 
«Signore, cinque minuti di panoramica sulle anime sconvolte, stiamo mandando una buona base tragica e lasciando che il pubblico ascolti un po’ di lamentele e di pianti, ma poi deve tornare lei in scena.» gli disse l’assistente con una smorfia: non aveva molte altre possibilità, questo era il punto.
Eolo annuì, lasciando che qualche Aura gli ritoccasse il trucco e che il satiro addetto alle luci facesse i suoi test di contrasto.
Quella stupida macchinetta con quell’ancor più stupida pallina bianca si frappose tra di lui e l’assistente ed Eolo pregò suo padre di dargli la forza di affrontare un’altra massacrante sessione d’onda.
Qualcuno chiamò all’ordine, la sirena che indicava l’imminente passaggio di scena fece scappare tutti in fretta dal set ed il dio dei Venti si ritrovò a posizionarsi meccanicamente della sua solita posa eretta e sorridente.


«Tre- Due- Uno. Camera sul conduttore. Luci. Audio e… in onda!»
 
«Bentrovati cari telespettatori!
La Divina Demetra ha appena annunciato la sua prova e le regole che i nostri concorrenti dovranno rispettare per poter superare anche questo traguardo! Sorpresi? Soddisfatti? Scioccati?
Beh, molti dei nostri beniamini lo sono, a quanto pare. Cosa ne dite? La Divina Demetra ha imposto che tutte le anime, anche quelle dei dannati ancora in gara!, entrassero nei Campi Elisi, ma soprattutto-» fece una pausa ad effetto, la telecamera allargò l’inquadratura in un primo piano pieno di patos ed Eolo sfoggiò una delle sue facce più serie. «Dovranno affrontare il Guardiano
La regia fece partire dei mormorii registrati che andarono a sommarsi a quelli degli spettatori in sala.
Il Dio dei Venti scosse la testa.
«È a tutti noi noto quanto sia difficile passare il vaglio del Guardiano dei Campi Elisi, che la Divina Demetra sia stata troppo dura? Riusciranno le anime dei dannati a superare la prova?» chiese con tono grave attendendo che altri suoni preimpostati partissero per sottolineare la difficoltà dell’evento.
«Ma questo forse potranno dircelo coloro che, da secoli, non fanno altro che questo ogni singolo giorno! I Giudici Infernali!»
Sorridendo ampiamente indicò con la mano la sua destra, dove era stato allestito un piccolo salottino in cui erano state posizionate tre poltrone, di cui solo una era occupata al momento.
L’unico Giudice presente sedeva con tranquillità e pacatezza, la schiena dritta e lo sguardo calmo.
Il mantello che teneva appuntato sulla spalla da una spilla dorata ricadeva sulla poltrona con un drappeggio quasi scenico, come se fosse stata sistemata con attenzione ogni singola piega. Esattamente com’era successo, in effetti.
Il Giudice intrecciò le mani in grembo ed accennò un sorriso alla camera.
 
«Buona sera a tutti. Eolo.» disse con lentezza, come se avesse tutto il tempo del mondo, come se fosse abituato a tener discorso ed essere ascoltato con attenzione.
Il Dio dei Venti sorrise più ampiamente ed accennò un applauso che fu nuovamente seguito dalla regia.
«Signore e Signori, il primo e più famoso dei Giudici Infernali: Minosse!»
Altri applausi registrati scrosciarono sopra quelli del pubblico, il sorriso forzato di Eolo sembrava una maschera sul punto di rompersi ma nessuno pareva notarlo.
«Purtroppo, gentile pubblico, oggi potremmo gioire solo della presenza del Re Minosse. Malgrado la più avvincente ed emozionanti delle gare si stia svolgendo nell’Ade, ciò non impedisce ai mortali di portare a termine il loro triste destino come hanno sempre fatto. Per questo motivo i suoi egregi colleghi hanno scelto di rimanere stoici sul loro banco di giudizio a far il loro dovere e hanno lasciato che fosse il più antico e preparato di loro ad illuminarci, quest’oggi, con le sue parole!»
Minosse fece un cenno di diniego con il capo, alzando le mani come se volesse negare l’affermazione di Eolo. «I miei colleghi sono saggi e preparati quanto me, posso dire di esser stato agevolato solo dall’anzianità.» scherzo con falsa modestia, interiormente appagato dalle lusinghe del dio.
«Allora, in veste di Giudice Infernale più anziano, cosa ne pensa di questa gara, di come si stanno svolgendo le singole prove. So che a voi Giudici tocca supervisionare le azioni più illecite ed aiutare gli Dei ideatori di ogni prova a decretare se l’anima abbia effettivamente portato a termine questa o meno. Ci dica, prego.»
Minosse questa volta annuì. «Le prime prove sono state, per così dire, facili da giudicare: ogni Dea e Dio impegnati nella progettazione è stato piuttosto scaltro, decretando un’azione o il ritrovamento di un determinato oggetto per riuscire a superare la prova. Arrivare alla Casa di Ade ed uscire dal Labirinto di Persefone erano già di per sé abbastanza chiare. La divina Artemide ed il divino Ermes sono stati altrettanto furbi, scegliendo un oggetto materiale, di cui tutti potevano appropriarsi, e poi un oggetto immateriale che solo una singola persona poteva sfruttare. Per di più, durante la prova delle Sfere dei Ricordi si è visto, proprio come nella gara del Labirinto, il vero potenziale strategico di ogni anima: abbiamo visto anime spingere altre anime nei muri d’edera o distruggere le sfere per impedire ad un’altra anima di continuare la gara. Credo che quest’ultima prova sia quella che abbia maggiormente assottigliato la lista dei partecipanti.» spiegò placido intrecciando le mani in grembo.
Eolo rivolse l’ennesimo sorriso finto alla telecamera, i fogli con la scaletta stretti in mano assieme al microfono. «E abbiamo visto come siano sempre di più i semidei, i discendenti ed i benedetti ad arrivare per primi al termine di ogni gara. Cosa ne pensa?»
«Come era ovvio che fosse, direi. I figli degli Dei sono sempre stati più potenti, più forti, più scaltri. Non mi sorprende vederli tutti in prima fila, così come non mi sorprende vederli aggregati in squadre.»
«Ma ci sono stati dei casi curiosi, non crede?» domandò ancora gettando un occhio al gobbo.
Perché avevano aggiunto quella domanda? Aveva la dannata scaletta in mano, con le domande approvate dalle alte sfere, che stava succedendo?
«Oh, ce ne sono stati eccome.» rispose Minosse con un sorrisetto divertito sul volto pallido. Per lui le domande scomode erano null’altro che un piacevole intrattenimento, molto più che quella stupida gara. «Iniziamo dalle anime disperse per le Praterie che sono riuscite comunque a mantenere una coscienza di sé e a partecipare?» chiese provocatorio. «Com’è possibile? Sono più che certo che nessuno di voi Dei sia andato a cercare ogni singola anima sensiente, no?»
Eolo sentì i muscoli dei suoi zigomi quasi contrarsi in spasmi involontari. «Beh, sono sicuro che qualcuno li abbia mandati, qui ci occupiamo solo di documentare le prove, sono altre grandi menti quelle dietro ad ogni meccanica.» cercò di recuperare.
Il gobbo si illuminò di nuovo.
 
Cosa ne pensa delle anime scomparse nel Labirinto”
 
Cosa?

Il Dio dei Venti cercò di ignorare quella seconda domanda del tutto inopportuna ed abbassò lo sguardo sui suoi foglietti, cercando di recuperare il filo originario del discorso.
«Cosa ne pensa de-»
«Oh, ma certo, le anime scomparse nel Labirinto.» esclamò invece il giudice scorgendo anche lui la scritta sul gobbo. «Questo è un dettaglio interessante, non credete, Eolo? Anime benedette, anime di eroi che avevano tutte le carte in regola per superare la prima, vera prova, sono state catturate dai rami dell’edera della divina Persefone, mentre anime di dannati, di dimenticati o di persone comuni che rischiavano di scomparire per sempre, sono state salvate. Per non parlare della scomparsa delle armi disseminate per il Labirinto.» proseguì quello senza alcun freno, sempre più compiaciuto della piega che stava prendendo la situazione.
Eolo invece sudava freddo, sullo schermo luminoso si srotolavano frasi, domande, insinuazioni, rimandi ad eventi che Zeus in persona gli aveva detto di non citare, di non portare all’attenzione del pubblico.
«Credo sia scontato dire che c’è qualcuno, lì sotto, che sta giocando una partita tutta sua. Qui su abbiamo le votazioni, i preferiti, gli eroi più acclamati che ricevono grazie ed aiuti dagli spettatori da casa, ma nell’Ade ci sono reietti e sconosciuti che stanno ricevendo supporto da un’entità sinistra.»
Il dio continuò a guardare lo schermo, ignorando la telecamera puntata su Minosse. Il gobbo ricordava come anime scomparse durante la prima prova fossero riapparse al via della seconda, come interi gruppi di beati fossero stati rallentati per lasciar passare dannati che, se solo avessero incrociato la via dei suddetti eroi, sarebbero stati falciati dai loro poteri divini. Insinuava come anime provenienti dai cancelli neri fossero giunti nelle Praterie degli Asfodeli, alla ricerca della loro Sfera dei Ricordi, con le armi che avevano avuto in vita, quelle stesse armi che gli erano state strappate dalle mani morte, dalle tombe profanate, che certo non avevano raggiunto neanche la prima terrazza.
«C’è qualcuno in grado di fare una cosa del genere? Assolutamente sì, e credo che tutti noi sappiamo chi sia.»
Mentre Minosse continuava a parlare di come tutti questi eventi fossero curiosi e pericolosi allo stesso tempo, mentre il pubblico sussultava e si indignava, scoprendo sempre nuovi dettagli che gli erano stati nascosti, mentre le Aure impazzivano dietro ai telefoni, ai messaggi divini, alla programmazione del gobbo che sembrava aver preso vita propria e non riuscivano a fermarlo in nessun modo, neanche staccandogli al spina, Eolo guardò dritto davanti a sé, dietro a tutte le scalinate piene di esseri divini, creature e spiriti, oltre le luci rosse delle telecamere ed i volti pieni di panico della sua troupe.
Lì, nel buio denso del muro, una mezzaluna s’allargava lentamente. Lucidi ed affilati, bagnati di saliva come le fauci di una bestia affamata, la cui sola vista del cibo le faceva venire l’acquolina in bocca, una sfilza di denti scintillava come se vi avessero puntato contro un faro.
Sopra quel ghigno galleggiante due biglie verdi intarsiate d’oro s’aprirono fissandolo con attenzione.
La pupilla nera si chiuse in uno spiraglio sottile come gli occhi di un serpente.
La lingua rossastra e carnosa passò veloce sui denti, leccando le labbra inesistenti.
 
Eolo guardò impotente la decisione del Fato: aveva scelto caos.
 
 
Dovrebbe sorprendermi sapere che anche tu sei dalla parte di Giordano Delle Vie?
 
 
Il nulla rise.
 
Ovviamente, no.
 





*
 





Quando Demetra se n’era andata, senza minimamente preoccuparsi del caos che si stava lasciando alle spalle, gli schermi si erano velocemente fatti neri. Il simbolo di Ade come unico segno che fossero ancora in funzione.
Cade aveva fissato per un momento quello che gli pareva un omino stilizzato con le braccia alzate e poi, scuotendo la testa, si era voltato verso i suoi compagni.
C’era ancora tenzione tra di loro: un po’ per la gara, un po’ per lo scherzetto di Cicno nel renderli tutti sordi con una maledizione, un po’ perché palesemente Nathan si sentiva il fuoco al sedere nel ritrovarsi davanti a qualcuno che ne sapeva più di lui, che era più potente di lui e che non aveva neanche paura di mostrarlo.
L’irlandese allungò una mano verso Jonas, stringendogli delicatamente il polso per tirarselo vicino. Aveva la vaga sensazione che presto tutte le anime sarebbero insorte in un modo o nell’altro, specie da come il vociare si stava sempre più alzando attorno a loro.
 
«Abbiamo un bel problema ora.» sospirò Lea stringendo le braccia al petto.
Stava cercando disperatamente di trovare una soluzione veloce ed indolore, ma l’unica cosa che le rimbombava in mente erano i sermoni del prete del suo orfanotrofio, parole lontane e sbiadite ma che suonavano stranamente come salvifiche.
Cade annuì. «La gente non l’ha presa per niente bene.»
«Vorrei ben vedere, quando muori ti spediscono in un luogo dicendoti che non potrai mai raggiungere gli altri. Poi arriva lei e ti dice che devi entrare in uno dei luoghi in cui non potevi entrare.» Jane arricciò il naso infastidita. «Neanche io l’ho presa bene.»
«Questo vuol dire che la maggior parte delle anime rimaste in gara non sono beati?» domandò Eliza alzandosi sulle punte per guardarsi attorno.
Lea le gettò un’occhiata sorpresa e poi fece lo stesso. Quel metro e ottanta che l’aveva sempre infastidita finalmente poteva rivelarsi utile e non le fu difficile svettare sui suoi compagni e osservare i loro rivali.
Aggrottò le sopracciglia. «Non credo. No, non vedo così tanti dannati. C’è molta gente messa male ma ora come ora non saprei dirti se sono sporchi per via delle prove o per il luogo da cui provengono.»  ammise dando un colpetto ad Úranus.
Il semidio scosse però il capo, dandole ragione. «Possiamo dedurre che molte anime non vogliano semplicemente combattere. Dopotutto alcuni di noi hanno ritrovato le loro armi o quelle di altri, ma tanti sono disarmati.»
«Nessuno vuole un combattimento impari.» annuì Nathan.
«Potete biasimarli? Molti di loro sono semplici mortali, che non hanno mai dovuto combattere in vita, non seriamente, non una guerra. Per quanto credo siano presenti centinaia di soldati, provenienti da ogni dove, sono propenso a credere che la maggior parte dei defunti della terra non abbia servito sotto nessuno stendardo.»
Cicno inclinò la testa per far scrocchiare il collo rigido, sorprendendosi nel sentire il classico schiocco.
A lui, così come a tutti gli altri dannati, le ossa non erano mai mancate: malgrado non avessero più un corpo mortale molte punizioni corporali tendevano a ferirli e dilaniarli fino alle ossa, quelle stesse che sarebbero dovute esser cenere ma che, per volontà divina, mantenevano in loro il proprio spettro, solo per farli soffrire ancora di più.
«Cicno ha ragione, probabilmente molti temono lo scontro.» convenne Eliza. «Ma non è il nostro problema principale ora.»
«No, il problema è che tre su otto di noi non possono entrare nei Campi Elisi.» borbottò Jonas.
Il ragazzino era rimasto vicino a Cade, neanche infastidito dalla presa leggera dell’altro sul suo polso. Certo non propenso ad ustionarlo come aveva fatto Cicno.
Fu proprio Cade a dargli una stretta per consolarlo un po’, sorridendogli mesto. «Troveremo il modo per farvi entrare tutti e tre.»
«Se c’è.» mormorarono contemporaneamente Jonas e Jane.
Nathan alzò gli occhi al cielo, maledicendo la loro vena drammatica, ma Cade cercò di ignorarlo e continuò a sorridere agli altri.
«Certo che c’è un modo, deve esserci per forza!»
«Come fai ad esserne così sicuro.» sfidò la figlia di Ecate.
«Perché non avrebbe avuto senso aprire le porte della cloaca del mondo e farne fuoriuscire ogni male, consapevoli del fatto che avrebbero uccido e dilaniato migliaia di anime innocenti, se poi quello stesso miasma non sarebbe stato in grado di passare la quinta prova.» rispose invece Cicno, gli occhi freddi puntati sul muro di Foschia che riusciva a scorgere oltre la marea di anime ancora riunite davanti al palco.
«Credi che non sarebbero capaci d’essere così crudeli da far gareggiare anche voi per poi bloccarvi?» domandò Eliza scettica.
Ma Cicno fece un cenno d’assenzo. «Certamente. Gli Dei sono in grado di mostrarsi magnanimi e crudeli, non metto in dubbio questo. Sarebbero stati perfettamente in grado di aprire i cancelli neri, far illudere tutti noi dannati della possibilità d’esser liberi, per poi imporci una sfida che, apriori, avremmo perso, ma avrei capito questa tecnica all’inizio della gara o alle battute finali, non ora. »
«In che senso?»
«Nel senso che potevano usare i dannati come modo per sfoltire il gruppo principale, ma che avrebbero fatto prima a fare una selezione più rigida all’inizio.» concluse Eliza.
«Sì e no.» le concesse Cicno con un sorriso appena accennato. «Devi vedere l’intera situazione da molteplici punti di vista. Perché non hanno fatto selezioni più rigide, come hai ipotizzato tu?»
«Perché non sarebbero state abbastanza divertenti, questa è la cosa più banale. So dei sadici del cazzo, dopotutto.» borbottò Nathan. «Quanto cazzo ci mettono a muoversi? Perché non tirano giù il muro? Non vorranno che ci immergiamo in una fottuta banchina di Foschia, vero?» continuò sempre più impaziente.
Cicno annuì ancora. «Sicuramente maggiore è il numero di partecipanti, maggiore è l’intrattenimento. Per di più, i dannati fanno più spettacolo. Chi per secoli ha covato in seno risentimenti, dolore, rabbia e vendetta è una bestia feroce pronta a tutti per poter esser finalmente salva.»
«Pensavano che saremmo stati più cattivi?» domandò Jonas sorpreso. «Cioè, è ovvio questo. I dannati, noi dannati, dovremmo essere tali perché abbiamo fatto qualcosa di sbagliato nella vita, lo so, ma ci sono anche moltissime anime come me che-»
«Non hanno fatto male a nessuno o non l’hanno fatto di proposito, che hanno solo fatto la scelta sbagliata consciamente o meno.» concluse rapida Eliza per lui. «Ma ci sono anche tutti coloro che non vedono l’ora di sfogare le loro frustrazioni su terzi, non potendo torturare di rimando i loro torturatori. Va bene, vi hanno presi in gara per renderla più emozionante. Perché credi non vi impediranno ora di proseguire?»
«Cinque è un numero ambiguo, specie su tredici, non credi? Per di più la Divina Demetra ha detto che saremo ancora giudicati e che, questa volta a differenza della precedenza, dovremmo provare di aver fatto l’unica cosa, in vita, che ci permetterebbe di meritare il perdono.»
La figlia di Nike sospirò, in parte rincuorata da quella spiegazione più che logica. «Meritare il perdono, ma certo. Se si è già beati si presuppone che non vi sia nulla per cui essere perdonati, mentre per tutti gli altri…»
«Non andare così di fretta. Siamo stati graziati per un’azione fatta, per un comportamento, una decisione. Ma anche il più onesto degli uomini ha qualcosa da farsi perdonare.» la interruppe Cade.
«Sarà come essere di nuovo davanti ai Giudici.» mormorò Úranus cupo, lo sguardo puntato lontano, pronto a scorgere un qualunque movimento.
«Io neanche lo ricordo più.» ammise senza vergogna Cicno. «Ho solo rimembranze sbiadite di ciò che mi disse Minosse, della sua coda lunga ed affilata.»
Gli altri si voltarono tutti a guardarlo, le sopracciglia aggrottate, i volti curiosi e crucciati.
«In che senso “coda lunga ed affilata”?» domandò Jonas confuso.
«La sua coda, voi non l’avete vista?»
«La coda che si arrotola tante volte quanti i gironi in cui si verrà sprofondati.» mormorò piano Lea, i ricordi dei racconti Danteschi fattigli da Giovanni che le tornavano in mente.
Dante Alighieri e la sua Divina Commedia… c’era qualcosa in quel testo, nel ricordo di quell’opera che mai aveva letto per intero che le solleticava la lingua, una frase celebre, più frasi celebri, una costante che si ripeteva in ogni mondo ultraterreno. Cos’era?
Si volse verso Jonas e Nathan, pronta a chieder loro se ricordavano nulla della famosa Commedia, ma si bloccò non appena si ricordò che nessuno dei due era italiano, quindi vi erano davvero poche possibilità che l’avessero studiata.
Si mordicchiò il labbro pensosa. Úranus e Cicno erano da escludere a priori e anche Eliza non credeva ne sapesse nulla. Forse Jane? No, neanche lei doveva saperlo, era scritta in volgare, neanche in latino, quindi, a meno che non fosse giunto nella sua città un predicatore italiano con la passione per la letteratura del Trecento dubitava fortemente che la figlia di Ecate potesse aver la più pallida idea di cosa stesse parlando.
Per l’amor del cielo, ce l’aveva sulla punta della lingua, era una frase famosissima, era alla fine di ogni mondo, c’entravano le- le stelle!
 
Ma che diamine centrano le stelle ora?
 
«Si stanno muovendo.» esclamò d’improvviso Úranus attirando anche l’attenzione della figlia di Apollo.
Lea alzò di scatto la testa, guardando prima il compagno e poi il mare brulicante di anime davanti a lei che sembrava tremare come un campo di grano.
«Che sta succedendo?» chiese Jane alzandosi sulle punte per poter scorgere qualcosa, invano.
Poi le voci si alzarono e le anime cominciarono a muoversi più velocemente, quasi impaurite.
«Roscio malpelo, riesci a fare un salto e vedere?» domandò Nathan accennando anche lui un saltello per poter svettare sopra tutti gli altri partecipanti, confusi quanto loro.
Cade annuì, strinse un’altra volta il polso a Jonas e poi lo lascò per spiccare un balzo e librarsi a circa cinque metri da terra.
Sospeso in aria per una frazione di secondo che sembrò durare una vita, Cade percepì i suoi stessi occhi spalancarsi per lo sconcerto, il fiato bloccargli in gola, la lingua seccarsi.
«Porca vacca.» sibilò a denti stretti ridiscendendo a picco come un sasso gettato in acqua.
«Cos’hai-» provò a chiedere Jane inutilmente.
Cade neanche la guardò in faccia, afferrò di nuovo Jonas e poi proprio la figlia di Ecate e se li tirò dietro scattando in avanti.
«Muovetevi! Muovetevi, muovetevi! Dobbiamo andare via di qui. Stanno tutti tornando indietro, dobbiamo allontanarci!» gridò facendosi strada a forza tra le altre anime, prendo a spallate chiunque non si togliesse di mezzo.
«EHI! Che diamine fai, pazzo rosso! Lasciami immediatamente!» protesto Jane inciampando nei suoi stessi passi, la gonna lunga ingombrante e stracciata che le andava tra i piedi.
«Che cazzo succede?!» gli urlò dietro Nathan afferrando comunque Lea per il braccio e spingendosela davanti, mentre Eliza faceva lo stesso con Úranus e contemporaneamente cercava con lo sguardo Cino.
«Stanno tornando indietro! Sta crollando tutto!» rispose Cade tra la confusione generale che le sue stese grida stavano generando, sommatasi a quella che altre anime in fuga come loro si portavano dietro.
Jane inciampò di nuovo, scivolando dalla presa di Cade che voltò di scatto al testa, lanciò Jonas in avanti rischiando anche di farlo cadere e cercò di frenare la sua corsa nel tentativo di raggiungere Jane. Ma proprio quando la figlia di Ecate stava per crollare in ginocchio un braccio inaspettatamente forte le si strinse attorno alla vita ed improvvisamente si ritrovò sollevata da terra, stretta nella presa salda di Cicno.
«Perdonami, non avrei osato tanto se non fosse necessario.» le disse sbrigativo facendo cenno a Cade di muoversi mentre i loro compagni tiravano tutti un sospiro di sollievo.
«Per questa volta lascerò correre.» ansimò Jane in cerca d’aria per quell’improvviso scatto. Per un momento era stata certa che sarebbe caduta e le altre anime l’avrebbero calpestata a morte. Non era la prima volta che succedeva.
Cade nel frattempo si era girato di nuovo verso Jonas che, malgrado avesse cercato di fermarsi, aveva continuato a muoversi spintonato dalle altre anime.
Fu un sollevo sentire la mano di Cade afferrarlo per la maglia e tirarselo contro, facendogli da scudo contro le altre anime spaventate.
«Cosa sta crollando? Perché crolla?» domandò affannato il ragazzino cercando di non inciampare nei suoi stessi passi.
Cade gettò un’occhiata rapida alle sue spalle, scorgendo tutti i suoi compagni finalmente vicini a lui e deglutì.
«Il muro bianco-»
«Le mura bianche?» gracchiò Lea con voce acuta. Stavano crollando le mura dei Campi Elisi? Dopotutto Demetra aveva detto che non si potevano distruggere le porte, non aveva detto nulla sulle mura stesse.
«Non quelle! Non impanicarti più di quanto già non lo siamo tutti!» le ringhiò contro Nathan spostandola di peso alla sua sinistra per non farla scontrare con altre anime.
«Il muro bianco!» ripeté Cade sopra le urla ed un rumore sordo spaventosamente simile a quello di un terremoto.
Che diamine aveva l’Ade con questa gara? C’erano stati più terremoti da quando era partita la Death Race che da quando Cade era lì, ed erano come minimo cent’anni!
«Il muro che diceva Demetra, quello fatto di nebbia!» gridò.
«Foschia. È un muro di densa Foschia, ciò che rende invisibile il nostro mondo agli occhi dei comuni mortali. È una delle armi più potenti di tua madre.» spiegò Cicno. Si girò di lato, alzando di più Jane, sollevandola quasi all’altezza del suo volto per farla passare sopra a delle anime ammassate a terra.
«Non è il momento Encyclopedia! Guarda dove cazzo vai piuttosto!» Urlò di rimando Nathan.
Cicno si voltò a guardarlo con fare impassibile. «Poteri vedere anche ad occhi chiusi dove sto andando, a differenza tua.»
«Smettetela di discutere, non mi pare proprio il momento!» Sbottò Lea allungando una mano all’indietro per afferrare Nathan e strattonarlo.
Il figlio di Ares ricambiò la stretta senza neanche rendersene conto, pronto a far presente al greco che se non gli stava mettendo le mani addosso era solo perché stavano correndo, lui aveva in braccio la ragazza delle Praterie che, palesemente, con quella gonna non poteva correre in mezzo a così tanta gente e perché Lea lo stava tenendo. O almeno erano quelle le sue intenzione prima che un improvviso tuono, un rumore cupo e basso, esplodesse sulle loro teste.
Le grida delle anime non riuscirono a sovrastare il fragore del muro di Foschia che crollava su sé stesso, imploso nelle sue fondamenta.
Una gigantesca onda biancastra e fumosa si gettò in picchiata dall’alto della volta rocciosa verso le valli nere, infrangendosi a terra e travolgendo inevitabilmente ogni anima.
L’impatto della Foschia sui corpi concreti dei morti non lasciò esuli, spingendo tutti violentemente al suolo.
Cade si buttò su Jonas, stringendoselo al petto come aveva già fatto altre volte ma mai con la paura così forte di sentirselo scappare di mano per colpa del massiccio spostamento d’aria. Poco dietro di lui Cicno aveva appena avuto il tempo di chinarsi a terra, prima di sentire il vento sferzargli contro la schiena come le fruste dei demoni torturatori. Vide al suo fianco una forma sfocata, Lea che allungava la mano verso di loro nel tentativo di afferrarli, di non perderli, ma Cicno non poté muoversi, conscio che se avesse lasciato la presa sulla figlia di Ecate la furia della Foschia gliel’avrebbe strappata di braccio.
Fu proprio Jane però a torcersi nella presa del greco per poter stringere la mano dell’italiana con tutta la forza che aveva, aiutata dal compagno che riuscì a sporgersi leggermente verso gli altri, combattendo la potenza del vento.
Così come Lea, bloccata a terra dal peso di Nathan, anche il soldato si ritrovò ad allungare la mano verso Cade e Jonas, cercando di afferrare almeno la giacca del rosso, certo che quel vento della malora si sarebbe portato via sia lui che il ragazzino, che li avrebbero persi nel caos del crollo, svaniti per sempre, ma come era stato per Cicno ci pensarono altri a sporgersi al posto suo: Nathan sentì un braccio insinuarsi sotto il suo, Eliza stringersi al suo fianco, mentre Úranus, stretto a sua volta alla figlia di Nike, si allungava per prendere Cade per il bordo dei pantaloni e tirarlo indietro, verso tutti loro.
Una volta avvicinatisi il più possibile fu il turno di Jonas di afferrare con una stretta spacca-ossa il braccio di Cicno e, aiutato anche dai compagni, tirare lui e Jane più vicini possibile.
Alle volte la vita, o la morte, era strana. Ognuno di loro, in quei lunghi minuti che parvero ore, ricordò l’ultima volta che si era stretto a qualcuno in quel modo.
Jonas ricordò un altro petto e altre braccia che lo accoglievano, più esili e ossuti del torace fermo e compatto di Cade, ma che gli avevano trasmesso la stessa sensazione di sicurezza, di roccia in mezzo al temporale che ora era il suo amico.
Così come Cade stesso ricordò le proprie braccia stretta attorno alla vita di un amico ferito ed un fucile scarico, schiacciato contro il muro umido di un vicolo nella periferia di Dublino, un vicolo tanto simile eppure così diverso da quello in cui Nathan si era fermato, spalla contro spalla con i suoi compagni in attesa del segnale del Tenente per poter attaccare.
Similmente Eliza aveva tenuto la schiena premuta contro una superficie sporca e ruvida, le braccia intrecciate a quelle dei suoi compagni, ma invece che in attesa lei si era fatta puntello contro una barricata che minacciava di crollare contro la spinta del nemico.
L’ultima persona che Úranus aveva stretto era stata sua madre. L’aveva afferrata per la vita, ponendo un braccio sotto alla pancia gonfia ed uno spora, alzandola quasi di peso per postarla dietro ad un albero, per evitare i colpi di moschetto sparati dai villici che avevano deciso di doverli uccidere.
Anche Jane si era stretta a sua madre, il corpo freddo ed inerme steso sul pavimento era stato troppo pensate per essere sollevato del tutto, ma la ragazza si era piegata su di lei avvolgendola in un abbraccio soffocante e singhiozzante. Martha non aveva mai risposto a quell’ultimo gesto d’affetto disperato.
Lea aveva il corpo febbricitante di un ragazzo più giovane di lei tra le braccia, non era ancora morto ma se avesse smesso di prendersi cura di lui, se avesse ascoltato quel soldato e se ne fosse andata, allora sarebbe stato spacciato in poche ore. Non la conosceva neanche l’ultima persona che aveva abbracciato e sciogliere quella stretta era stata la sua condanna a morte.
Se chiunque fosse riuscito a scorgere il volto di Cicno in quel momento forse l’avrebbe preso per pazzo. Sul bel volto del giovane greco c’era un sorriso morbido ed un po’ beffardo, qualcuno avrebbe potuto reputarlo sintomo di un ricordo dolceamaro, ma se fosse esistito al mondo un solo essere che l’avesse conosciuto davvero, avrebbe potuto dire con certezza che quello sul suo viso non era altro che cinica beffe di sé, rancore, odio, dolore.
Perché l’ultima volta che Cicno aveva abbracciato qualcuno, in vita, era stato il suo stesso corpo prima di togliersi la vita.
 



 
*
 
 



C’era una vecchia memoria che le batteva costante nella mente.
Era uno dei suoi primi incarichi, la divisa blu ancora integra, priva di lacerazioni, ma certamente non di sporco.
Non l’aveva mai infastidita troppo il sudore, la terra, il sangue. Erano parte del gioco, erano solo ornamenti inevitabili della vita che aveva scelto, che aveva ricercato fin da quando era bambina, fin da quando aveva imparato ad arrampicarsi alla finestra della cucina per fissare suo padre allontanarsi per l’ennesima missione.
Eliza lo ricordava chiaramente ma al contempo le pareva vi fosse un velo di polvere su quelle immagini, come una vecchia stampa abbandonata in soffitta.
Ricordava il sergente chiamare a gran voce il plotone, il rumore degli zoccoli del cavallo marrone risuonavano attutiti sulla terra smossa, mentre l’uomo intimava a tutti di prepararsi ad attraversare il fiume, a tirar fuori le corde per legarsi gli uni con gli altri, sollevare i fucili, tenere la polvere da sparo fuori dall’acqua.
Si erano fermati sulla riva per fare ciò che era stato loro ordinato, legarsi saldamente gli uni agli altri per impedire che qualcuno si perdesse nella corrente troppo forte, che mettesse un piede in fallo e fosse trascinato via.
Ricordava persino il sergente prendere il capo della corda e legarlo al suo cavallo, entrando per primo in acqua per assicurare un punto fermo, per aiutare a tirare tutti gli altri.
Erano passati senza problemi, nessuno aveva perso il suo fucile, la polvere da sparo era rimasta asciutta, solo un soldato era scivolato su di un sasso poco stabile ma i suoi compagni l’aveva ripreso prima che potesse anche solo bagnarsi il capo.
L’immagine che ne ricavava era rassicurante: un gruppo di uomini per lo più sconosciuti che si aiutavano a vicenda ad attraversare un fiume dalla forte corrente, legati gli uni agli altri, pronti a soccorrersi se ce ne fosse stato bisogno. Un uomo a capo, in una posizione di privilegio, che si faceva carico d’essere il primo ad avventurarsi nelle acque infide, a dare l’esempio a tutti i suoi sottoposti.
La sensazione del muro di Foschia che si abbatteva contro di loro era stata esattamente la stessa di quando si era calata lentamente nell’acqua fredda, arrancando passo dopo passo con le braccia alte, senza la possibilità di reggersi alla corda ma potendo sperare solo nella resistenza del nodo, dalla stabilità dei suoi piedi e dei riflessi dei suoi compagni. Eppure, stratta tra Nathan ed Úranus, per quanto si sentisse legata, per quanto fosse certa che il nodo avrebbe retto, non sentiva la stessa sensazione di sicurezza provata al tempo.
Il vento aveva continuato a soffiare senza posa, ettolitri ed ettolitri di aria densa e fumosa continuavano ad abbattersi su di loro ed Eliza si domandò per quanto ancora sarebbe durato, quanto doveva esser alto e spesso quel muro, quanto grande, quanto largo. Copriva forse solo il muro con le porte? I Campi Elisi avevano un perimetro tondo, per quanto ne sapeva, per quanto doveva essersi estesa la copertura di Foschia, per nascondere tutto?
D’improvviso qualcosa spostò sia Úranus che Cade, spingendoli in avanti e costringendo tutti loro a serrare la presa che avevano gli uni sugli altri e ad allungarsi verso i due rossi, timorosi di perderli.
L’onda d’urto era troppo rumorosa perché qualcuno potesse sentire alcun ché, ma Eliza avrebbe giurato d’aver udito delle urla.
Alzò a mala pena il capo, costringendosi ad aprire gli occhi e osservare lo spettacolo davanti a sé, malgrado tutto ciò che riuscisse a vedere non fosse altro che bianco, vento bianco che soffiava e soffiava, disegnando linee quasi concrete attorno ai corpi delle anime. Gli stessi corpi che stava trascinando via senza pietà.
Il crollo del muro di Foschia stava disperdendo ulteriormente le anime rimaste e che questa fosse la volontà di Demetra o meno, era appena stata applicata l’ennesima scrematura dei concorrenti: se non si era abbastanza forti per resistere alla Foschia non c’era alcuna speranza di poter tornare in vita.
 
 
 

 
Cade imprecò mentalmente. Quello poteva essere il momento migliore per elencare tutti i santi di cui aveva memoria, ma la verità era che aveva paura che aprendo la bocca anche solo per un momento poi non sarebbe più riuscito a chiuderla.

E l’ultima cosa che voglio è ingoiarmi qualcosa anche da morto. Ne ho mangiati pochi di insetti in vita a forza di volare qui e lì.
 
Solo che questa volta la paura era di ritrovarsi qualche parte di corpo altrui in bocca, altro che insetti. Ed era sicuro che qualcuno si stesse perdendo qualche pezzo perché quello che l’aveva colpito poco fa era di sicuro un uomo, senza ombra di dubbio, anche se non l’aveva visto.
La ferocia delle tempeste poteva dilaniare corpi, distruggere barche, case, porti, perché questo sarebbe dovuto essere diverso?
Strinse di più le braccia attorno a Jonas, probabilmente gli avrebbe lasciato il segno, dei bei lividi che il ragazzino si sarebbe portato fino alla fine di questa gara, ma non gli importava. Tutto ciò che contava ora era non perdere né lui né nessuno dei loro compagni.
Fu grato di sentire anche Úranus aumentare la stretta che era finalmente riuscito a passare attorno alla sua vita, se avesse continuato a tenerlo per i pantaloni era sicuro si sarebbe ritrovato senza braghe in poco tempo.
Dovevano soltanto resistere ancora un po’, la pressione dell’aria stava diminuendo, seppur in modo quasi impercettibile, ma entro una decina di minuti il peggio sarebbe passato e si sarebbero quanto meno potuti liberare di quell’intreccio di braccia che li teneva tutti stretti assieme.
C’era però qualcosa di simile all’orgoglio che bruciava nel petto di Cade, la consapevolezza che tutte quelle persone, quegli sconosciuti – potevano ancora definirsi tali dopo tutto quello che avevano passato assieme? – si fossero preoccupati di afferrare un compagno e poi un altro ed un altro ancora, di non perdersi, che si fossero preoccupati gli uni degli altri, lo riempiva di un’euforia che non credeva avrebbe potuto riprovare così facilmente.
Chinò il capo premendo le labbra sui capelli scompigliati di Jonas, puntellando poi i piedi a terra per spingersi leggermente indietro, verso Úranus ed Eliza, sino a che non sentì il ginocchio della giovane contro la schiena.
Erano un po’ più vicini così, un po’ più compatti, più uniti. E come se gli avesse letto nel pensiero, Jonas tirò più a sé Cicno e di conseguenza Lea e Jane si strinsero di più tra di loro, aiutando il ragazzino a far avvicinare la figlia di Ecate e quello di Apollo.
Rimasero così, in silenzio forzato, ignari delle urla di chi veniva strappato alla terra e alle braccia dei compagni, di chi si ritrovava a volare in aria, dei corpi colpiti così violentemente da essersi ritrovati schiacciati contro la volta rocciosa. Di tutte quelle anime che vi rimasero incastrate, impalate alle stalattiti massicce.
Era una fortuna che nessuno sguardo si sarebbe mai potuto spingere così in altro, il macabro quadro che andò dipingendosi sul soffitto dell’aldilà sarebbe rimasto nelle loro menti per tutti i secoli a venire.
L’onda d’urto spazzò via il sangue che colava da quei corpi non morti ma non ancora vivi, l’erba nera divenne lentamente lucida, bagnata. Per la seconda volta il sangue degli uomini tornò alla terra piovendo da un cielo fittizio.
E nessuno parve accorgersene.
Così come nessuno sembrò scorgere, tra quella marea di filamenti biancastri, altri dorati che dal terreno strisciavano verso le anime per legarsi attorno ai loro corpi e tenerli saldi a terra.
Nessuno tranne Cicno e, il semidio lo sapeva, tutti i suoi altri compagni.
Il figlio di Apollo socchiuse gli occhi per cercare di valutare la situazione, per quanto tempo ancora il vento avrebbe soffiato, e fu quasi con sorpresa che si rese conto del fine e sinuoso filo d’oro che lentamente si faceva spazio tra l’erba scura. Se non ci fosse stata la cascata di Foschia sarebbero risaltati come gemme tra i carboni, ma Cicno aveva la vaga sensazione che sarebbero riusciti ugualmente a non farsi notare.
Il filo d’oro si alzò come se non vi fosse alcuna forza da contrastare, come se al contrario si ritrovasse attirato verso l’alto, come pendesse da un soffitto rovesciato. Lo vide ondeggiare leggermente fino a raggiungere il livello del suo braccio, quello stretto attorno alle gambe della figlia di Ecate, e arrotolarsi lentamente attorno ad esso.
Per un attimo provò la voglia irrefrenabile di scansarsi, di scacciare il filo così disgustosamente simili nei movimenti ad un serpente d’acqua, ma sapeva che non lo era, sapeva che quel filo, quella magia, non era altro che l’ennesimo aiuto del suo signore, che andava a sommarsi alla sempiterna domanda che gli rimbombava in testa da quando l’aveva incontrato per la prima volta:
 
Quanto è potente per poter utilizzare il suo potere anche nelle terre dell’Ade?
 
Non che gli altri Dei non potessero farlo, tutte le divinità erano in grado di utilizzare i proprio poteri nel dominio del sommo Ade, ma era proprio per rispetto, o timore, di questo che non lo facevano, non in modo così palese ed invasivo per lo meno.
Voltando di poco la testa alla sua sinistra scorse altri fili strisciare a terra e legarsi prima alla gamba di Jonas e poi a quella di Cade.
Non poteva girarsi ulteriormente a controllare gli altri membri di quella strampalata compagnia, ma era sicuro che anche loro fossero stati ancorati al terreno.
Il suo signore li proteggeva, ancora una volta manipolava il gioco per tenerli in campo, ignorando invece tutti coloro che non gli erano di alcun interesse, tutti quei corpi fagocitati dalla Foschia.
Quando i fili si furono assicurati attorno alle loro membra, Cicno poté giurare di sentire i propri muscoli rilassarsi, come se il suo inesistente corpo percepisse meglio della sua mente che non vi era alcun pericolo ormai, che il muro, la sua caduta, non avrebbe potuto arrecar loro alcun danno.
Cicno aggrottò le sopracciglia: la percezione del suo corpo era sempre più solida e concreta, era nei piani degli Dei? Avevano accettato fin dall’inizio questa condizione, magari solo per spettacolarizzare i giochi? Certo, un’anima ferita non perdeva sangue e Cicno sapeva fin troppo bene quanto le divinità dell’Olimpo amassero i massacri, le carneficine, ma non era comunque una mossa azzardata? Non era comunque troppo rischio farli tornare “umani”, anche solo per poco?
 
Risvegliare nelle anime, specie in quelle dei dannati, il ricordo della loro vita, della sensazione di aver un corpo e non solo di essere feriti nella profondità del loro essere immateriale… potrebbe essere pericoloso, potrebbe portar loro a desiderare ancora di essere vivi, portarli a ribellarsi.
 
Quando l’aria iniziò a farsi meno pesante e le sferzate del vento più leggere, Cicno spalancò gli occhi puntandoli su quei fili dorati che avevano assicurato a lui, i suoi compagni e chissà quante altre anime, salvezza certa. Li fissò in attesa che qualcuno se ne accorgesse o che scomparissero d’improvviso e non si stupì più di tanto quando fu proprio quest’ultima opzione ad avverarsi.
I fili d’oro si sgretolarono in un pulviscolo luccicante impossibile da distinguere da quello delle sfere dei ricordi, se non fosse che in quelle lande Ermes non avesse depositato nessun globo di vetro. La sabbia fine e quasi impalpabile, simile a quella della creta secca levigata dalla pietra pomice, si depositò lesta tra gli steli neri, quasi assorbita dalla terra dell’aldilà, cancellando ogni traccia della sua esistenza.
Cicno alzò allora il capo per guardarsi attorno, per vedere se altri, oltre a lui, si erano resi conto di ciò che era successo e fu con un certo compiacimento che scorse i volti dei suoi altri compagni, quelli che avevano giurato fedeltà al suo signore, visi giovani, giovanissimi o più maturi, gli unici nei cui occhi poteva scorgere la consapevolezza di ciò che era realmente accaduto.
A forse sei metri da lui una ragazza dalla pelle scura e gli occhi a mandorla gli fece un cenno con la testa. La casacca che indossava era ricamata in disegni geometrici, colorati e fitti, la treccia spessa e nera che le poggiava sulla spalla, legata da un laccetto di cuoio, brillava sporca di frammenti di vetro, o forse di fili d’oro.
Anche lei stringeva a sé altri due ragazzi, bambini avrebbe detto, di certo ancora nuovi alla pubertà, ma Cicno poteva percepire in loro l’eco del sangue divino, seppur non uno forte come quello dei suoi, di semidei. Uno di loro era minuto, i capelli castani scompigliati e gli occhi del colore dei ghiacciati, che emanavano lo stesso freddo che avrebbe potuto emanare il potere di sua madre. Non era la prima volta che Cicno incontrava un figlio di Chione e sapeva come riconoscerli a primo colpo.
Probabilmente il suo potere, se ne avesse avuto uno, sarebbe potuto risultare molto utile al suo padrone, non era così strano poi che la figlia di Zefiro fosse stata incaricata di proteggerlo e portarlo alle fasi finali della gara.
Spostò lo sguardo oltre quel gruppetto, in tutto cinque persone, e trovò facilmente altri con la sua stessa missione. Erano tantissimi e le loro compagnie, più o meno numerose, si intervallavano ad ancora troppe anime insulse.
Fece per voltarsi verso le sue spalle, quando si ricordò d’aver ancora tra le braccia la figlia di Ecate e che questa, presa coscienze della scomparsa dell’onda di Foschia, aveva smesso di starsene buona e ferma ed aveva iniziato a muoversi, cercando d’alzarsi, o quanto meno assumere una posizione un po’ più dignitosa.
Con un gesto rapido Cicno l’aiutò a tirar su il busto e la adagiò a terra togliendole il braccio da sotto le gambe ossute.
 
«State tutti bene?» domandò più per riflesso che per vero interesse, sfruttando la scusa di volersi assicurare che anche gli altri fossero vigili per girarsi e guardare anche le anime dietro di sé.
Non riusciva a vedere Michael, aveva scorto una moltitudine di maglie aranciate, violacee, qualcuna color sabbia e altre blu notte, ma del suo fratellastro neanche l’ombra. Era assurdo però aspettarsi di riuscire a scorgerlo tra tutti quei volti e Cicno si diede mentalmente dello stolto: come poteva interessargli la salvezza, scontata dati i fili d’oro, di un’anima legata a lui solo dal patto stretto con un padrone comune e dal sangue maledetto del bastardo che aveva dato loro la vita? Nulla. A Cicno non interessava di nulla e di nessuno e si ritrovò infastidito dai suoi stessi pensieri quando se ne rese conto.
Doveva pensare ad altro, non a stupidi mocciosi protetti da un potere così forte da agire indisturbato nell’Ade.
 
«Col cazzo, sembra che ci abbiano buttati tutti in una cazzo di asciugatrice.» borbottò Nathan facendo leva sulle braccia per non pesare più su Lea.
La figlia di Apollo rimase sdraiata a terra, rotolando semplicemente di fianco e rilassando le membra tese.
«Non ho la più pallida idea di cosa sia un’asciugatrice, ma sembrava quasi il vento che tira a Trieste.»
«Era forte come una cascata, se non fossi assolutamente sicura avrei giurato che fosse acqua, tanto era potente, sferzante e compatta l’onda che ci ha colpito.» commentò Eliza sedendosi sui talloni. Tirò su il braccio che aveva ancora intrecciato a quello di Úranus per aiutare il giovane a sedersi a sua volta e poi si allungò per battere un paio di pacche sulla schiena di Cade.
«Voi tutto bene?» domandò rivolta ai due compagni.
Così come Lea anche Cade e Jonas erano rimasti a terra, a riprendere fiato.
Il più piccolo staccò con lentezza la mano dal braccio di Cicno, quasi come se le dita si fossero anchilosate in quella posizione serrata, e la lasciò cadere mollemente sull’erba, mentre Cade non si sforzò neanche di sciogliere l’abbraccio che li teneva vicini.
«E che cazzo.» ansimò provato da quella tempesta di Foschia.
Jonas grugnì. «L’ha detto lui.»
«Maldetta foschia.» borbottò di rimando Jane.
Nathan la guardò scettico. «Detto da una figlia di Ecate ha dell’ironico.»
«Perché? Sei morto in guerra, no? Non ti sei lamentato neanche un po’ per questo?» lo sfidò lei di rimando, accomodatasi meglio a gambe incrociate, scostatasi un poco da Cicno.
«No che non mi sono lamentato, sono morto facendo il mio dovere.» rispose subito l’altro.
Eliza chiuse per un attimo gli occhi espirando già stanca di quelle chiacchiere. «Però avresti preferito morire di vecchiaia, così come Jane preferirebbe non vedersi attaccata da ciò che invece dovrebbe essere al suo servizio, questo è il sunto del discorso. Ora.» continuò secca prendendo forza per alzarsi in piedi, la sensazione delle gambe addormentate in contrasto con il bruciore dei muscoli sottoposti a tutta quella tenzione. Fece una smorfia di disconforto e poi si spolverò i pantaloni. «Se siete tutti in grado di mettervi in piedi e camminare direi di metterci in marcia. Alcune anime si stanno già muovendo e non voglio trovarmi tra la calca un’altra volta.»
Così dicendo porse la mano ad Úranus e poi a Nathan, tirando entrambi su di peso contemporaneamente.
Lea la guardò sorpresa ma poco intenzionata ad alarsi. «Sei sempre stata così forte?» domandò con voce bassa.
Nathan grugnì, proprio come aveva fatto Jonas poco prima, Jane si trattenne dal farglielo notare solo perché Cicno si era tirato in piedi e le aveva stretto la mano attorno all’avambraccio per aiutarla a far lo stesso.
«Retaggio divino dei figli di Nike, ogni tanto, quando gli prende bene, alzano le montagne, dividono i mari e spaccano culi. Il resto del tempo sono degli stronzetti iperattivi e super competitivi che non sanno perdere e rosicano malissimo quando succede.» spiegò guadagnandosi un’occhiataccia da parte della suddetta figlia di Nike.
Si strinse nelle spalle. «Che c’è? È la verità, non sapete perdere e prendete tutto per una competizione.»
«Detto da te poi.» bisbigliò Lea.
«Che hai detto tu?»
«Che mi devi dare una mano ad alzarmi, mi hai placcata a terra come fanno gli atleti di lotta libera, non mi sento più la schiena. Dovresti pensare di perdere un po’ di peso, Wright.» lo provocò lei ghignando allungando entrambe le mani per farsi tirare su.
A quel punto anche Cade non poté ignorare i buffetti che Jonas gli stava ripetutamente dando sulla guancia per farlo alzare e fu costretto ad abbandonare il suo giaciglio improvvisato e sedersi a far mente locale prima di unirsi ai suoi compagni.
Fissò Eliza per un lungo momento, poi sorrise: «Beh, da quel che dice il biondastro qui tu sei tutto tranne che figlia di Nike allora!»
Jonas alzò gli occhi al cielo e saltò su con un balzo agile, «Smettila di dire cavolate e alzati, Eliza ha ragione, se perdiamo troppo tempo tutti quanti si saranno ripresi abbastanza per accalcarsi davanti alle porte dei Campi Elisi.»
«Il che potrebbe essere un problema che non ci riguarda, se non riusciamo a scoprire se anche noi possiamo entrare o meno.» ricordò Jane con voce monocorde, lo sguardo fisso verso il luogo dove prima si ergeva il muro di Foschia. Fece schioccare la lingua in bocca, «Quindi sono quelli i famosi campi? Non ricordo se ho mai visto l’ingresso o meno, ma non sembrano più minacciosi della Foschia.»
I semidei si girarono tutti nella direzione indicata a Jane, tutti a fissare silenziosi quella lunga parete bianca infinita ed immacolata, interrotta solo da una grandissima porta centrale e due, più piccole ma comunque maestose, ai suoi lati.
Ciò che non quadrava in quella visione, che stonava con la normale figura dell’entrata dei Campi Elisi per i beati che vi erano stati, e che contrastava le parole di Demetra, che sembrava così sbagliato da lasciar credere che forse erano rimasti tutti affetti dalla Foschia che ora mostrava loro uno spettacolo ingannevole, era che le grandi porte, tutte e tre, erano spalancate.
Malgrado la lontananza tre archi mostravano uno scorcio di un luogo chiaro, luminoso, quasi sfocato e accecante, un miraggio verso cui orde di anime si stavano avventando come furie, ansiosi di passare anche quella prova, bramosi di tornare o mettere piede per la prima volta, in ciò che c’era di più simile al paradiso sotto quella terra.
Cade saltò in aria come un petardo, si accucciò a terra senza neanche alzarsi in piedi e poi si diede la spinta per spiccare ancora una volta un salto.
Ricadde con un tonfo attutito, le sopracciglia crucciate.
«Sono- aperte? Le porte dei Campi Elisi sono aperte. Ma- che senso ha?»
Úranus scosse piano la testa. «Nessuno, non ne ha alcuno. La divina Demetra ha detto che non avremmo dovuto distruggere le porte, che avremmo dovuto trovare il modo di entrare…»
«Quindi non sembra una fregatura solo a me.» disse Jane incrociando le braccia al petto.
«Sembra troppo bello per essere vero…» mormorò Jonas.
«Perché non lo è.»
La risposta secca di Cicno fece distogliere finalmente l’attenzione di tutti da quello scorcio di paradiso. Il greco teneva gli occhi freddi puntati in quella direzione, ma invece di concentrarsi su ciò che c’era all’interno delle mura era fisso su suo perimetro, sull’entrata dei Campi Elisi.
«Ma sono aperte.» fece notare Cade. «Quindi qualcuno deve essere già entrato.»
«No. Sono aperte solo per illuderci che possa esser semplice varcarle. Ricorda il monito della Dea Demetra, le guardie scelte dell’Ade sono lì, ad aspettarci al varco. Loro e il Guardiano.»
«Sono così sicuri che non riusciremo a passare, da tenere le porte spalancate?» provò ancora Cade.
Cicno sorrise. «Sono talmente così sicuri che chiunque passerà la lama delle guardie non supererà la prova del Guardiano da non preoccuparsi di chiudere ogni entrata.» corresse con voce gentile.
Nathan tornò a guardare le porte pensieroso, ora anche lui concentrato sulla schiera infinita di soldati, o almeno presupponeva fossero tali, allineati sul confine dei Campi Elisi.
«Ma chi diavolo è questo Guardiano?» domandò poi, ingoiano in rospo e ammettendo, seppur indirettamente, di non sapere di cosa si stesse parlando.
Úranus scosse la testa, ancora. «Non ne ho idea.»
«E se non ce l’ha Golia figuriamoci noi.» sospirò Cade. «Angioletto?» chiese poi rivolto a Cicno.
Il figlio di Apollo si costrinse a guardarlo negli occhi e smettere di cercare di scrutare oltre.
«Non posso averne certezza, ma potrebbe trattarsi di un drago, come colui che era a custodia del Giardino delle Esperidi. Potrebbe essere una divinità minore, il sommo Atlante che regge il peso del mondo sulle sue spalle ed è posto all’entrata della fine del mondo. Se si trattasse di lui-»
«Saremo un po’ nella merda. Bello.» lo interruppe Nathan.
«Credo che potremmo scoprirlo solo affrontandolo. Avviciniamoci e vediamo com’è la situazione, potremmo osservare come gli altri affrontano le guardie e questa fantomatica prova e poi elaboreremo un piano.» sentenziò Eliza ricevendo un cenno d’assenzo da tutti.
La figlia di Nike riportò lo sguardo sui Campi Elisi, sarebbe stata la prima volta, in tutta la sua esistenza, che sarebbe riuscita a tornare a casa dopo una missione. E ad attenderla sarebbe potuto esserci anche suo padre, per una volta avrebbe potuto ritrovarlo al sicuro, riabbracciarlo dopo essersi messa l’anima in pace ed aver accettato di non rivederlo mai più, per la seconda volta.
Avrebbe potuto mostrare all’uomo i suoi compagni, fargli vedere come fossero riusciti a creare un gruppo quanto meno funzionale, come altri come lei avessero poteri straordinari, come ancora ad oggi persone di ogni genere e ogni luogo potessero unirsi sotto un’ideale o un obiettivo comune.
Se solo quella non fosse stata semplicemente l’ennesima battaglia di una guerra la cui fine l’avrebbe portata a scontrarsi proprio contro quei compagni ora così cari sarebbe stata felice di potersi ricongiungere a suo padre, di poter potare i suoi amici nella sua casa, di vivere in tranquillità una vita che aveva sempre visto troppo lontana da sé, dal suo destino.
Stringendo i pugni e facendo strada agli altri semidei, Eliza si ripeté che in quel momento non era importante, che ora poteva ancora godere della compagnia, della fiducia, forse persino dell’affetto di quegli strani individui, per ora poteva fingere che sarebbero rimasti al suo fianco fino alla vittoria e non che proprio questa li avrebbe divisi, uno dopo l’altro.
Qualcuno batté le mani alle sue spalle e la giovane non dovette girarsi per indovinare chi fosse stato.
«Bene! Andiamo a vedere e poi, alle brutte, vi facciamo imbucare di straforo. Che dici angioletto, ce la facciamo a scavalcare le mura? Quello non è barare no? Alle brutte vi lancio dall’altra parte.» ridacchiò Cade.
«Alle brutte vi lancia Eliza, non so se tu avresti la forza per farlo.» gli fece eco Lea, la voce tesa ma comunque divertita.
«Alle brutte ci lanciamo te dall’altra parte!»
«Oh, non fare così, gattino, fratello Cade lo diceva per voi! Sono disposto persino a volare fin là su per farvi entrare, poi non venirmi a dire che non vi voglio bene!»
«Smettila-di-chiamarmi-in-quel-modo-imbarazzante.» sibilò il ragazzino.
Ma non doveva essere molto minaccioso perché Cade rise spensierato. «Ma non è imbarazzante, sei piccolo, sei tutto arruffato e fai il broncio. È un dato di fatto, vero Cicno?»
«Perché chiedi a lui?!»
«Perché è obiettivo.»
«Perché non capisce la cazzo di ironia e prende tutto seriamente, ecco perché.» borbottò Nathan.
«Oh, allora siamo in due, soldatino.»
«Questa è tutta colpa tua, roscio di merda, adesso anche la principessa mi chiama così!»
Eliza sospirò pesantemente accelerando il passo, qualcuno le si affiancò.
«Se prima quella faccia cupa era per il timore di doverci dividere, sappi che io non vedo l’ora, quando fanno così mi fanno contare i secondi che ci dividono dal momento in cui potrò prenderli a calci in faccia.»  masticò Jane a denti stretti.
La figlia di Nike si sentì improvvisamente più leggera a quella confessione.
Sì, se si fossero conosciuti in vita, in quella precedente o in una nuova, sarebbe stata davvero felice di poterli chiamare amici, di poterli chiamare compagni.
Forse, un giorno, Thiche l’avrebbe accontentata.
 


Mura così alte non ne aveva mai viste in vita. La cosa più imponente che gli si era parata davanti era stata la cresta montuosa del suo paese, quella che aveva visto più da vicino la parete dello strapiombo nel quale si era gettato.
Nella morte, invece, Cicno aveva già potuto osservare enormi, spesse e minacciose mura che promettevano d’esser impenetrabili, sia dall’interno che dall’esterno.
I Campi Elisi erano però quanto di più diverso ci fosse dai Campi di Pena.
Le pareti monolitiche candide come il gesso, come la spuma di mare ed il ventre dei cervi, non circondavano un baratro che si apriva nelle profondità più recondite del sottosuolo come facevano le mura nere. Non vi erano gradoni, terrazze che si affacciavano sul nulla, su di un livello ancora più basso ed oscuro che ospitava anime ancora più sporche, più malvage. Erano distese erbose, dolci collinette, strade lastricate e dimore modeste ma accoglienti tutto ciò che si nascondeva dietro la cinta muraria. Erano tre porte dall’aspetto serioso come quelle dei templi, che racchiudevano al loro interno la sacralità delle effigi e delle offerte fatte agli Dei, non cancelli di ferro pesante, lunghe barre fuse le une alle altre, come le celle degli schiavi e dei prigionieri di guerra.
Cicno avanzò veloce dietro i suoi compagni senza mai staccare gli occhi di dosso dal suo obiettivo, senza mai guardare chi lo circondava, chi correva al loro fianco, superandoli senza degnarli di uno sguardo, per arrivare alla meta.
Era una palese provocazione e questo tutti quanti, a questo punto, dovevano averlo capito. Dopotutto i Campi Elisi erano stati inviolabili ed inviolati per secoli, quindi era logico pensare che le sue guardie fossero sicure di sé e del loro potere, della protezione che aleggiava sulle loro teste, sulle loro anime.
Ma più si avvicinavano, più proprio l’aspetto di quei soldati metteva in allarme Cicno. La sua vista eccezionale gli permise di scorgere, seppur da lontano, i volti impassibili e tranquilli di tutti quegli uomini e quelle donne che attendevano, con solenne fermezza, che anche una sola anima giungesse al loro cospetto.
 
Perché non si muovo? Com’è possibile che nessuno sia ancora giunto da loro?
 
Cicno poteva percepire l’ansia crescere tra i suoi compagni, forse anche loro sempre più consci dell’assoluta mancanza di rumori di lotta, del cozzare delle spade o di qualunque suono producessero le armi più moderne.
Vide Cade fremere sulle sue stesse gambe, ogni passo ondeggiante come se si stesse trattenendo dall’alzarsi in volo e constatare con i suoi occhi che le sue orecchie non lo stavano ingannando.
 
«Che cazzo succede? Perché non combattono?» gridò Nathan sopra il vociare concitato delle anime davanti a loro.
«Non è possibile che nessuno sia già arrivato alle porte! La gente che si trovava sotto al palco dovrebbe già essere lì!» aggiunse Lea allungando il collo per riuscire a scorgere qualcosa.
Di fianco a lei Úranus aggrottò le sopracciglia. «Sbaglio o stiamo rallentando?»
«No, le anime davanti a noi si stanno fermando.» annuì Eliza. «Dovevamo muoverci più velocemente, dannazione.»
«Scusate,» chiamò a voce alta Jonas, attaccato al braccio di Cade che se lo tirava contro ad ogni minima deviazione, «ma com’è possibile che con tutto questo spazio ci stiamo fermando? Le Praterie sono immense e le porte dei Campi Elisi anche. Non riescono ad entrare da tre entrate?» domandò confuso.
«Questa storia non mi piace.» borbottò Jane, voltandosi a cercare Úranus o Cicno. «Voi non sapete nulla? Non avete idee?»
«Siamo veramente fermi, com’è possibile?»
«Mi spiace, ma non ho la più pallida idea di cosa possa aver causato questo arresto.» ammise Úranus.
«Cicno?»
«Dev’esserci qualcosa prima delle guardie. Prima dei soldati schierati sul ciglio delle porte, dev’esserci una qualche protezione, un impedimento.» rispose concentrato. Cosa diamine stava succedendo?
«Il famoso “Guardiano”? »
La domanda di Jonas arrivò chiara e forte a tutti loro e come fosse stata una magia, una formula segreta in grado di portare chiarezza nelle mente ottenebrate delle anime, d’improvviso sul vociare dei presenti prevalse un suono che tutti loro conoscevano da sempre o avevano imparato a conoscere durante la Death Race: grida.
Erano urla spaventate, agonizzanti. Qualcuno implorava pietà, qualcuno cercava di scappare, altri si proclamavano sconfitti, chiedendo d’abbandonare la gara.
Alcune anime iniziarono ad indietreggiare, altre si sporsero in avanti per vedere cosa stesse succedendo e ben preso il caos iniziò a dilagare anche fra coloro che ancora non erano giunti al cospetto dei Campi Elisi.

«Non può essere Atlante.» sentenziò Nathan serio, «Non sarebbe in grado di spaventare così tanta gente e provocare tutto questo casino senza assumere la sua vera forma. E non mi pare proprio di veder nessun gigante azzurrognolo a guardia delle porte.»
«Il drago?» propose Lea stringendosi contro Jonas assieme a Cade per schermarlo da un’anima spaventata che cercava di fuggire dalla mischia.
«Non vedo nessun drago.» disse Úranus.
«Allora cosa diavolo è?» chiese Jonas, «Non si vede niente, non si capisce niente. Cosa facciamo?»
Eliza lanciò uno sguardo veloce al ragazzino, a tutti i suoi compagni, studiandone i volti tesi ed i muscoli contratti. La cosa peggiore, in tutte quelle sfide, era l’ignoto, la cosa che li destabilizzava di più, che li poneva in una posizione disvantaggio. Per prima cosa dovevano capire a cosa stavano andando incontro.
«Cade.» chiamò secca. «Che altezza puoi raggiungere?»
L’irlandese la guardò per un attimo assottigliando gli occhi come se stesse calcolando l’effettiva misura. Poi disse sicuro. «Quasi novanta piedi. È il massimo che abbia mai fatto ma non so se le condizioni atmosferiche qui mi siano favorevoli.»
«Per difetto, quanto pensi di poter fare in verticale, senza rincorsa?»
«Da fermo, così, con un buon salto posso fare quaranta piedi. Se avessi un aiutino, una spintarella diciamo, potrei arrivare a cinquanta.»
Eliza annuì, voltandosi poi verso Nathan. «Pensi che possa bastare per vedere oltre la folla?»
«Siamo ancora troppi, non so se con quaranta piedi vede la fine del tunnel.»
«Perdonatemi.» l’interruppe Cicno, «Non so a cosa corrisponda la vostra misura, ma se è più alto di un templio di medie dimensioni allora dovrebbe funzionare. Riesco a spingere il mio sguardo sino ai volti dei soldati, lui dovrebbe riuscire a vedere ciò che i corpi mi precludono, se spicca il volo.»
Nathan alzò un sopracciglio sorpreso. «Vedi fino a lì? Ma che cazzo, cos’è? Sei un falco?»
«Sono un figlio del mio dannato padre, soldatino, tutto qui.»
«Senti, vedi di smetterla con sta-»
«Cade! Cosa intendi per “aiutino”?» domandò Lea spingendo il figlio di Ares indietro con una manata.
Il rosso sorrise, «Saltando su un telo teso, o magari spinto in alto da gente forte. Se incrociate le braccia io posso salirci sopra, poi voi mi spingete e io salto. Così.»
«Penso basterà la forza di una figlia di Nike.» disse Cicno.
La mora annuì, divaricò le gambe e le piegò leggermente, per darsi più stabilità, poi intrecciò le mani davanti a sé facendo cenno al compagno. «Metti qui il piede, al tre ti lancio in alto.»
Cade annuì con vigore, avvicinandosi all’altra e posizionandosi come gli era stato detto, sorrise sghembo poggiando le mani sulle spalle della ragazza e ammiccando.
«Non siamo mai stati così vicini, Elza cara.» ghignò divertito.
«Sto per lanciarti in mezzo alla folla, invece che in aria.»
«O puoi lanciarlo talmente in alto da farlo scontrare con il soffitto.» propose Jane.
«Ricadrebbe tutto ammaccato, saresti pronta a sentirlo lamentarsi poi?» la provocò con sarcasmo Jonas.
«Non si porrebbe il problema, è più probabile che un corpo lanciato verso il soffitto vi rimanga impalato, come è già successo.» disse calmo Cicno, «Quindi consiglierei di mettere da parte le animosità e concentrarci su un giusto uso della tua forza divina.» concluse rivolto ad Eliza.
«Che vuol dire “come è già successo”.» domandò scioccato il più piccolo, prontamente ignorato dal greco come tutti gli sguardi confusi degli altri.
«Al conto di tre, quindi.»
«Aspetta! Nel senso che dici tre e poi mi tiri su, che al tre io devo issarmi su, o che al due io salgo e poi al tre mi laaaa-!»
Eliza alzò gli occhi al cielo maledicendo la lingua lunga di Cade, concentrando tutte le sue forze in quel piccolo gesto e scagliando letteralmente nella volta rocciosa il compagno.
Lo strepitio sorpreso di Cade però fu inghiottito dalla cacofonia che si concentrava davanti alle porte dei Campi Elisi, senza giungere alle orecchi dei suoi amici.
Ritrovato l’equilibrio a mezz’aria, Cade si rese conto di non aver saltato, che aveva appena superato i cinquanta piedi ma che nulla di tutto ciò era merito suo. Concentrò così la sua attenzione davanti a sé e la prima cosa che vide fu la terra bruciata davanti all’entrata, ben distante dalla linea pulita di terra battuta su cui erano schierate le guardie dell’Ade.


Ma perché è bruciato? C’è davvero un drago?
 
Assottigliò lo sguardo e si rese conto che ciò che a primo impatto sembravano cumuli di carbone, rocce bruciate, erano in realtà corpi. Lo capì nel momento in cui uno di questi si contorse su sé stesso, allungando un braccio per chiedere pietà, la sua voce inudibile nel caos che regnava attorno a lui.
Cade si ritrovò a deglutire a fatica, sospeso a mezzaria come le rondini controvento, ipnotizzato da quella scena come una falena con il fuoco.
Non c’era nessun drago, non c’era nessuna creatura soprannaturale o anche solo vagamente umana. Le guardie erano tutte immobili, non un solo granello di polvere, non una sola piega a rovinare la loro figura. Cosa aveva ridotto quelle anime in quello stato? Cos’era che teneva a distanza tutti gli altri, che impediva loro di avanzare?
Spostò lo sguardo frenetico, consapevole che a breve sarebbe tornato con i piedi per terra, ma anche che non poteva farlo a mani vuote.
La barriera di anime, le anime bruciate, la fila di soldati, le mura bianche, le porte spalancate e-
 
Una luce?
 
Alzò lo sguardo verso l’alto, più in alto che poté, lì dove le mura si scurivano delle ombre del soffitto della loro gabbia ultraterrena, scomparendo assieme alle ante della porta centrale. Lì, nell’oscurità del pavimento del mondo, un puntino rosso brillava come una fiamma, come un falò.
 

Fuoco, dannato, dannatissimo fuoco.
 
Rabbrividì Cade.

Aspetta. Fuoco?
 

Sgranò gli occhi colto da un improvviso ed immotivato panico, ben lontani dalla sua antica paura delle fiamme. Era un terrore così profondo, così radicato e sconosciuto in lui che si ritrovò ad annaspare in aria, tutto il potere divino di suo padre che s’assopiva in lui facendolo precipitare velocemente verso il basso.
Fu un soffio, una frazione di secondo che, Cade lo sapeva, era stata la differenza tra la vita e la morte.
 
Ancora.
 
Un lungo fascio di luce aranciata fendette l’aria colpendo in pieno il punto in cui poco prima si trovava lui, perdendosi nelle Praterie come fosse un raggio di potenza inaudita, capace di illuminare oltre l’orizzonte delle infinite lande dei dimenticati.
Cade chiuse gli occhi accecato, malgrado non l’avesse preso una linea bluastra gli brillava impressa sotto le palpebre, come se avesse fissato per troppo tempo il sole.
Cadde rovinosamente chiudendosi su sé stesso, pronto ad attutire come possibile l’impatto con il terreno che, per sua fortuna, non avvenne.
Più braccia lo presero al volo, catturandolo in una rete di arti incredibilmente saldi e forti, accompagnandolo lentamente al suolo.
 
«Che succede?! Stai bene? Sei precipitato d’improvviso! Un attimo prima eri lì sopra, fermo come un calabrone e poi sei caduto di colpo!» Lea gli si era subito inginocchiata vicino, era sua una delle braccia che si era stretta alle sue spalle ed ora lo sosteneva per farlo star seduto eretto.
«C’è stato un flash, come quello di un faro acceso di colpo.» continuò Jonas, apparso d’improvviso dall’altro lato.
Cade annuì piano battendo le palpebre velocemente, nel vano tentativo di togliersi il fascio blu dagli occhi.
«C’era una cosa strana. Sembrava una luce, su, in alto, verso il soffitto. Era come un fuoco e poi- credo- credo mi abbia visto? È come se mi avesse visto. Si è girata verso di me e ho avuto- ho sentito come-»
«Come se dovessi scappare, che se non ti fossi mosso, se fossi rimasto immobile, saresti stato spacciato?» Jane lo osservava con gli occhi sgranati, le occhiaie scure la facevano sembrare un fantasma più di tutti gli altri.
Non batté le palpebre, spostò solo lo sguardo su Eliza. «Ho una brutta sensazione, come se ci fosse qualcosa che mi spia, che cerca di spiarmi.»
«Dev’essere il retaggio divino di tua madre. Percepisci il pericolo, lo stesso che ha percepito Cade, pur senza averlo incontrato. Significa che qualunque esso sia, ha a che fare con i misteri della divina Ecate.»
«Hai idea di cosa possa essere?» chiese la mora, tendendo la mano verso Jane per farle cenno di farsi più vicina a tutti loro.
Cicno scosse il capo. «Quando ero in vita non c’era nulla del genere a difendere gli Elisi, ma troppe stagioni si sono susseguite e nessuno parla dei campi benedetti in quelli del supplizio. »
«Quindi non sappiamo cosa sia.» mormorò Jonas più a sé stesso che agli altri.
Cade gli strinse con gentilezza la mano. «Siamo passati per quattro prove una più assurda dell’altra, supereremo anche questo.»
«Dev’essere quella cosa il famoso Guardiano
Nathan fece schioccare la lingua sul palato. «Sì, è l’unica cosa logica. Mi ci gioco le mutande che è una macchina di Efesto.» borbottò. «Non c’è speranza che qualcuno di voi abbia mai avuto a che fare con qualche robottone suo, vero?»
«Non so cosa significhi quella parola.» disse Úranus guardandolo confuso.
«Lo sa solo lui, tranquillo.» borbottò Lea.
«Come ve lo spiego cos’è un robot ora? Immagina una macchina con forma umana o animale, qualcosa del genere.»
«Non è il momento delle spiegazioni.» affermò secca Eliza. «Molte anime si stanno muovendo, forse hanno capito come superare le guardie.»
«C’è terra bruciata intorno all’entrata, letteralmente.» sbuffò Cade alzandosi con l’aiuto dei compagni. «Credo che sia il fascio di luce.»
 
 
«Un fascio di luce che ti guarda, ti punta e ti brucia. Diamine e chi s’immaginava che Ade fosse un fan di Sauron?»
 
 
Quella voce allegra e scanzonata l’avrebbe riconosciuta con facilità anche se non fosse stata così vicina. Mentre le anime iniziavano ad avvicinarsi all’ingresso ed il clamore di una battaglia s’alzava lentamente sopra i mormorii, le imprecazioni e le grida di pietà, Cicno si volse veloce per scorgere un ragazzino di forse diciott’anni, con una maglia arancione ed una lancia di bronzo celeste, passargli accanto ammiccando in sua direzione con fare compiaciuto.
Michael era felice di vederlo lì e se i suoi compagni non fossero stati presenti probabilmente gli avrebbe rifilato un commento scocciato, quasi infastidito dal fatto che il fratellastro avesse anche solo per un momento pensato che Cicno non sarebbe riuscito a giungere alla quinta prova con tutti i suoi semidei.
Ma il giovane non si fermò a conversare, non si sforzò neanche di guardare altri se non lui e subito dopo sparì nella mischia seguito da altri ragazzi vestiti in modo simile al suo.
Cicno lo seguì con lo sguardo finché poté, ignorando il verso di scherno di Jane ed il suo commento su come fosse controproducente avere un belloccio come lui in squadra, che attirava così facilmente l’attenzione di tutti.
Si trattenne dal ringraziarla per avergli fatto un complimento solo perché Nathan e Jonas si guardarono d’improvviso allarmati, un singulto di sorpresa che richiamò tutti all’ordine.

«Cazzo.»
«Sapete di cosa stesse parlando quel giovane?» domandò Eliza attenta.
«Dio, spero di no.» mormorò Jonas. «Sauron è il personaggio di un libro di fantasia. In effetti, del più grande libro di fantasia che fosse mai stato scritto prima della mia morte.» specificò per buona misura.
«Più della Bibbia?» chiese scettica Jane.
Cade si morse la guancia per non ridere ma dalle occhiate di rimprovero che sia Lea sia Eliza lanciarono alla figlia di Ecate capì d’aver fatto la mossa giusta.
«Fantasy vero. Con Elfi, stregoni, mostri e quant’altro.»
«Beh, la Bibbia ha sia gli stregoni che i mostri.» insistette l’altra.
«Davvero? Non l’ho mai letta.» le diede manforte Cade.
«Un tipo che trasforma l’acqua in vino e moltiplica i cibi, come lo chiami?»
«La mia Suora superiora l’avrebbe chiamata blasfemia, ecco.» l’interruppe Lea, leggermente a disagio, «Quindi è un personaggio che sta a guardia di qualcosa?»
«Quindi ci è utile saperlo?» aggiunse Eliza.
Nathan fece una smorfia. «È tipo il cattivo più cattivo dell’intera saga. Che ha fatto tutti i danni possibili immaginabili.»
«Un grande occhio di fuoco in cima ad una torre che osserva e scruta ogni angolo delle sue terre e spinge lo sguardo anche oltre di esse, individuando tutti coloro che posseggono l’anello unico.» specificò meglio Jonas. «E se il fascio di luce che hai schivato ti ha davvero “guardato” prima di mirare verso di te…»
«Ha senso chiamarlo occhio di Sauron. Ma almeno questo è un lato positivo.»
«Davvero? E come?» domandò scettico Cade.
Nathan ghignò. «Se l’ha eluso Frodo possiamo farlo anche noi.»
«Samwise Gamgee.» concluse Joans guardando l’irlandese e scompigliandogli i capelli rossi.
Nathan fu l’unico a capire la battuta e ridere, ma se la speculazione di quel giovane fosse stata vera c’era realmente un lato positivo in tutto ciò:
Il Guardiano poteva guardare solo un’anima alla volta.
 




*
 




Le loro conclusioni si erano rivelate giuste. Ben presto anche le altre anime avevano capito che lanciandosi tutti assieme verso i soldati il fascio di luce che scendeva dall’alto della volta rocciosa, come lo sguardo inquisitorio di un dio impietoso, non avrebbe potuto colpire tutti.
Nathan avrebbe voluto organizzare un piano, decidere come agire, quando farlo, scegliere una formazione, ma la verità era che mancavano troppi elementi per riuscire a organizzare qualcosa di anche solo lontanamente decente.
Non potevano buttarsi nella mischia anche per il semplice e banale fatto, come aveva giustamente notato Jonas torcendosi le mani ansioso, che non avevano la minima idea del modo o di cosa esattamente il Guardiano valutasse.
Era ovvio e scontato che la luce fosse il tanto citato Guardiano e Demetra aveva espressamente detto che bisognava scappare da lui o superare la sua prova.

Abbiamo fatto, nella nostra vita, l’unica cosa per cui essere perdonati?
Che cazzo di domanda di merda.

 
Rimaneva il fatto che nessuno di loro sapeva cosa fosse questa “unica cosa”, che poteva essere un atto di coraggio, escludendo automaticamente Jonas dalla gara, o un atto di bontà, che probabilmente eliminava sia Jane che Cicno. Se fosse stato un atto di fede sarebbe di sicuro passato solo Úranus, forse Eliza, ma dubitava che lui stesso o Lea si fossero mai affidati ciecamente agli Dei. L’unica cosa di fede che Cade poteva aver fatto in vita sua doveva esser il lancio dal pinnacolo di una cattedrale, Nathan dubitava valesse.
Cosa poteva concedere la salvezza, l’assoluzione da ogni peccato?
No, finire del raggio di luce del Guardiano era troppo pericoloso, specie se sia il roscio sia la pazza si sentivano inquieti o addirittura spaventati da questo. Dovevano aggirare il problema ed era stata Demetra stessa a dirgli come: scappare.
Nathan non era un codardo, così come sapeva per certo che almeno un quinto dei suoi compagni non lo era: non Eliza che aveva finto di essere chi non era per combattere per il suo paese, o Lea che era andata contro la sua famiglia ed il buon senso per salvare altri. Úranus aveva affrontato la morte per far fuggire i suoi cari, Cade aveva difeso la sua città fino alla morte in una battaglia che era durata una manciata di giorni e non era neanche così importante.
Si rese conto in quel momento che per tutto il tempo avrebbe potuto dire a Cade come la guerra in cui si era imbarcato non era stata che una rappresaglia per gli inglesi, che non era stato nulla di spettacolare. Eppure, era rimasto in silenzio.
Fece una smorfia spintonando un’anima che gli bloccava la strada, gettando un occhio alle sue spalle per assicurarsi che tutti i suoi compagni fossero ancora lì.
Per quanto fosse una pazza scocciata anche la figlia di Ecate doveva essere tutto fuorché una codarda per aver cercato di fare ciò che aveva fatto, ma sperava che lei, così come tutti gli altri, avrebbe concordato con lui nel dire che quella era l’unica soluzione per entrare tutti senza troppi sforzi.
 
Sempre che poi riusciamo a passare le guardie, cazzo.
 
Se erano tutte cazzute come Shilon Yu erano fottuti, ma fottuti male.

«Okay, se qualcuno ha un qualche tipo di potere offensivo, parli ora o taccia per sempre.» sbottò girandosi verso gli altri.
«Solo Jonas ed io siamo armati?» domandò Cicno aggrottando le sopracciglia.
Eliza annuì. «I guantoni sono di Cade, ma sì, nessun altro tra di noi ha la propria arma.»
«Non le avete recuperate nel Labirinto della divina Persefone? Non avete neanche preso armi che non erano vostre? Ogni corridoio ne era disseminato.»
Com’era possibile che quel branco di sciocchi non fosse stato così banalmente furbo da procurarsi delle armi?
Cicno non lo disse ad alta voce, ma la sua espressione dovette parlare per lui perché alcuni dei ragazzi distolsero lo sguardo imbarazzati, Eliza fece solo una smorfia.
«Avevamo altro da fare.»
«Come uscire dal cazzo di labirinto. Tu come hai fatto?»
«Ho seguito la scia luminosa che segue ogni anima. La luce lascia un’impronta nel mondo, anche se ultraterreno.»
«In ogni caso, io e Nathan siamo addestrati, Cade sa fare a pugni e- Úranus?» chiese dubbiosa la mora.
Il gigante si strinse nelle spalle, «So combattere con una spada, ma non sono un grande amante della lotta.»
«I poteri di tuo padre?»
«So tenerli sotto controllo, raramente riesco ad indirizzarli in una direzione precisa-»
«Tranne quando devi farlo con me.» borbottò Jane cercando di scorgere oltre le anime che si muovevano concitate attorno a loro. «Io so fare solo incantesimi piccoli, nulla di ché, nulla di utile in combattimento. Penso tu sia quello che possa fare più danni, a magie.»
Cicno scosse la testa. «Le genti della mia stirpe non fanno magie, ma posso incantare i miei coltelli con maledizioni e poi scagliarli contro i nostri nemici.»
«I pugnali da lancio non sono una buona opzione ora, già abbiamo poca roba, non possiamo permetterci di perdere altro.» sentenziò deciso Nathan, ottenendo subito appoggio da Eliza.
Cicno però gli sorrise divertito. «Non devi mai aver avuto un’arma divina di pregio allora, i miei coltelli tornano a me dopo aver colpito l’obiettivo. Per questo penso sia inutile distribuirli tra di voi, dopo alcuni minuti tornerebbero in mio possesso, rischiando di scomparire dalle vostre mani nel momento meno opportuno.»
Nathan grugnì. «Perfetto. Allora ci resta solo una cosa da fare.»
«Scappare a gambe levate dentro ai Campi cercando di non farci beccare dal raggio di luce e dalle guardie?» propose Cade ironico.
Ma il soldato non lo era ed annuì cupo. «Per quanto trovo sia disonorevole scappare invece di affrontare lo scontro, in questo momento non possiamo permettercelo.»
«Nathan ha ragione.» si intromise Lea. «Tra di noi forse solo quattro persone potrebbero uscire vincitrici da una lotta e, senza offesa Jonas, ma neanche con i guantoni di Cade tu rientreresti tra loro. Così come me, Jane ed Úranus.»
Con una smorfia infastidita ma consapevole Jonas non poté che darle ragione. «Già, non sono in grado di tener testa ad un soldato addestrato e immortale.»
«Specie se ti capita Shilon Yu!» rise Cade dandogli una pacca sulla spalla. Poi si congelò.
Si volse veloce verso Eliza, poi verso Nathan, tirandolo per la giacca per farlo girare.
«Cazzo vuoi!?»
«SHILON YU! Shilon Yu, capite?» chiese tutto eccitato, quasi saltellando dalla gioia.
«Sì, ce lo ricordiamo.»
«Anche perché è colpa sua se mi sono dovuto accolare voi due.»
«Prego?»
«Accolare lui, va bene, va bene, tu non sei un accollo, sei una risorsa, chiedo scusa.»
Lea alzò un sopracciglio. «Ti ha davvero chiesto scusa?»
«Non posso paragonarla a roscio malpelo, lei è una soldatessa, mica una testa di cazzo come lui.»
«Mi sorprende sempre quanto il tuo amore nei miei confronti si manifesti nei modi più disparati.» rispose ironico il giovane. «Rimane il fatto, che Shilon Yu ci conosce! Sa chi siamo, sa che siamo gente per bene! Se troviamo lui magari ci aiuta ad entrare.»
Eliza lo guardò pensosa, valutando l’eventualità. «Potrebbe comunque sfidarci a duello, ma se ci reputasse degni di tornare nei Campi Elisi potrebbe lasciarci passare.» convenne.
«È un uomo giusto e gentile, sono sicura che ci aiuterebbe se fosse possibile. Potrebbe persino aiutarci con voi tre.» annuì la figlia di Apollo.
«Tu lo conosci?» domandò Nathan curioso. «La guardia muso giallo dico.»
«Perché devi sempre usare questi termini così denigratori? Sì, conosco Shilon Yu, andavo da lui ogni giorno per chiedergli se fosse- se fosse arrivato qualcuno di interessante.» tagliò corto Lea cercando di cambiare subito il discorso. «Quindi dobbiamo trovare lui, giusto?»
«E pensate che farà entrare anche noi, quindi?» domandò Jane per nulla impressionata da quel discorso così speranzoso.
I quattro beati si guardarono tra di loro senza saper cosa dire, ma alla fine Cade si strinse nelle spalle scuotendo la testa. «Hai un piano migliore?»
Jane grugnì. «Suppongo di no.»
«Bene! Allora dobbiamo cercare la guardia cinese!» concluse l’irlandese battendo le mani e facendosi avanti per affiancare Nathan. «Vuoi fare tu gli onori di casa o lasciamo fare ad Elza?»
«Ma tu guarda, mi ero quasi dimenticata di quanto sciocco ed infantile potessi essere.» ringhiò la figlia di Nike affiancando comunque i suoi compagni.
«Ehi, anche il soldatino qui ha detto che un nome è solo un nome.» sorrise come se fosse una scusa valida.
«Sì, e poi si è arrabbiato perché lo hai chiamato soldatino e non Nathan.» gli ricordò ghignando anche lei alzando un sopracciglio verso l’uomo.
Nathan però fece finta di non averli sentiti, tenendo lo sguardo fisso davanti a sé, a quelle ultime file di anime che li dividevano dalle porte ormai imponenti e infinite.
«Rimanete uniti, non fatevi dividere, state dietro di noi. Jonas e Jane, al centro, Úranus, tu sei grosso anche se non combatti bene puoi assestarlo qualche colpo. Rompi palle-»
«E ti pareva.»
«- te rimani dietro loro due, presumo che un calcio nelle palle lo sappia dare anche tu.»
«Se è per questo lo so dare anche io.» protestò Jonas sarcastico.
«Tu sei piccolo, che cazzo vuoi?»
«Non sono piccolo! Ho sedici anni!»
«Wow, un uomo vissuto allora!»
«Ehi!»
«Ma non era che dovevi farne sedici?» domandò Cade voltandosi verso di lui, poi, del tutto estemporaneo, «Che me li ridai i guanti? Così se mi arriva una spadata la posso bloccare?»
Jonas balbettò qualcosa di incomprensibile sulla sua età, finendo per aggrottare le sopracciglia chiare e passare i guantoni a Cade con un broncio infantile tanto quanto diceva di non essere.
«Principessa.» riprese a chiamare Nathan. «Tu chiudi la retrovia, va bene? Tieni d’occhio attacchi a sorpresa e nel caso, urla.»
Cicno alzò gli occhi al cielo. «Mi risulta che sia io quello sopravvissuto alle pene dell’inferno, non tu. Cosa ti fa credere che nel caso mi trovassi in pericolo, invece che reagire, mi metterei ad urlare?» chiese con sguardo truce sfilando con lentezza un pugnale dalla sua cinta e portandoselo alle labbra. «Temo sarà più probabile che sarete voi a chiedere il mio d’aiuto. Se doveste essere feriti mortalmente, avvertitemi.» concluse lasciando però la frase in sospeso, come se ci fosse del resto. Mormorò qualcosa contro la lama scintillante e non appena Nathan si voltò, conscio che il greco non avesse finito, quello ghignò apertamente in modo sadico per la prima volta da ché il figlio di Ares aveva posato gli occhi su di lui.
«Sarò lieto di rendermi utile, cessando le vostre sofferenze con il colpo di grazia.» premette le labbra sul metallo freddo, depositandovi un bacio umido di saliva che brillò di sinistri riflessi verdi.
Nonostante ciò, Nathan non poté far a meno di sorridere divertito: lo stronzetto, per quanto stronzetto fosse, cominciava quasi a piacergli. Quando non gli rompeva il cazzo.
«Sarò lieto di ricambiare il favore.»
«Oh, non te ne dolere, potendo scegliere preferirei fosse Jonas. Tra le mie genti era credenza comune che morire tra le braccia di una vergine allietasse l’anima e la rendesse più pura come la loro innocenza.»
Jonas voltò di scatto la testa verso Cicno, le guance paonazze e la bocca aperta, così scioccato da esser sordo persino alle risatine mal trattenute di Cade, allo sdegno di Lea che chiedeva a Cicno di esser più delicato, il ghigno nascosto di Jane e quello palese e aperto di Nathan.
«Accordato.»
«MA COSA!?»
 
 
Eliza non batté neanche le palpebre al sentire lo scambio di battute dei suoi compagni, felice in parte che la tenzione si fosse alleggerita per un momento. Peccato che non potessero rimanere ad aspettare, a ridere e legare con frasi stupide e provocatorie.
Aveva già scorto alcune anime precedentemente superate lasciarli indietro e buttarsi nella mischia. L’idea di creare abbastanza confusione per far sì che il raggio di luce potesse individuare un’anima che sarebbe stata sacrificata per permettere il passaggio a tutte le altre era giusta, e c’erano ancora tutti i morti del mondo ad affrontare la gara, ma questo non significava che se si fossero buttati nel momento sbagliato avrebbero rischiato di trovarsi in un attimo di calma, di essere ben individuabili sia dal raggio che da una delle guardie.
Dovevano muoversi, dovevano farlo adesso, ad Eliza sembrava quasi che sprecassero sempre più tempo del dovuto, rallentando e fermandosi quando non avrebbero potuto farlo. Ma non tutti erano soldati, non tutti erano abituati a camminare finché fosse stato necessario.
Doveva insegnarglielo lei.


«Prendete i vostri posti, dobbiamo andare ora.»
«Prima di beccare un momento di secca, vero?» domandò Cade strofinandosi le mani per poi battere le nocche le une contro le altre. «Vuoi un guanto? È uno solo, certo, ma può sempre aiutare.»
Eliza scosse la testa. «Tienilo, noi troveremo le armi di qualcun altro, se proprio sarà necessario.»
«Se restiamo uniti e compatti ce la faremo. Alle brutte, rosso malpelo, quanto vento puoi fare per combattere?» chiese Nathan senza guardarlo.
Cade deglutì. «Vorrei poterne fare il meno possibile, ma se sarà necessario, tutto quello che ho.»
L’altro annuì. «Golia, se senti che stai per farti prendere da un attacco di panico, fai un fischio.»
«Non so se sarei in grado di fischiare in un momento del genere.» ammise l’uomo a voce bassa.
Jane alzò gli occhi al cielo. «Scommetto fosse un’immagine figurata.»
«Fischio io nel caso!» sbottò Jonas tormentandosi i polsi e alternando il peso da un piede all’altro. «Io sto avendo un attacco di iperattività, ora.» gracchiò alla fine.
«Buono, vuol dire che correrai senza fermarti.»
«Adrenalina in vena caro, adrenalina in vena.» lo rassicurò Lea strofinandogli le mani sulle braccia.
«Principessa, tu sei pronto?»
«Se devi chiamarmi principessa, almeno dammi del voi.» sbuffò Cicno brandendo anche un secondo coltello velato di viola.
«Col cazzo. Ci sei?»
«Con il mio membro? Cosa dovrei farmene ora? Sarebbe solo d’intralcio.»
Cade si morse le labbra per non ridere, mente dietro di lui Lea stringeva le mani sulle spalle di Jonas, la cui smorfia faceva trasparire tutto il suo disagio nel sentir sempre tirar in ballo sesso e genitali vari.
«Scommetto che anche questa era un’immagine figurata.» ridacchio Jane facendo scrocchiare le mani.
«Oh, comprendo. Sì, sono pronto. Col cazzo?» aggiunse poi, perfettamente conscio di cosa avesse voluto dire il figlio di Ares e incredibilmente divertito dal poterlo infastidire con così poco.
«Porco Zeus in mutande.»
«Sono positivamente convinto che il divino Zeus non ne indossi mai, specie con la sua propensione alla copulazione e al piacere delle carni.»
«VA BENE! AL MIO VIA!» urlò Eliza al limite della sopportazione.
«Intendi tipo, uno, due, tre e poi via e al via partiamo, o uno, due, tre e il tre è il via e allora partiamo?» chiese Cade ghignando esattamente come avrebbe fatto Cicno se non avesse dovuto mantenere la sua facciata.
Eliza lo guardò con il suo peggior sguardo raggelante e Cade non poté far a meno di farsi scappare qualche versetto divertito.
«Ammettilo, ti ero mancato.»
La figlia di Nike socchiuse le palpebre. «Col cazzo.» masticò a mezza bocca, per farsi sentire solo da Cade che scoppiò a ridere.
«VIA!»
 
All’urlo della donna tutti e otto si lanciarono in avanti, seguendo la marea di anime che continuavano a riversarsi verso le porte dei Campi Elisi, schivando chi restava fermo, spintonando chi intralciava il loro cammino, fino a poggiar piede sulla terra bruciata dal raggio di luce, entrando dritti nel vivo della gara.
 
«A destra!» chiamò Nathan scorgendo una breccia tra i partecipanti e incontrando i primi combattenti.
Davanti a loro tre uomini tenevano a bada almeno dodici anime da soli. Erano vestiti con quelle che potevano sembrare abiti. Jane le avrebbe chiamate vesti da notte, lunghe tuniche chiuse in vita da una fascia di tessuto ben stretta e gli strani pantaloni gonfi che fuoriuscivano da sotto i lembi svolazzanti, ma la maggior parte dei suoi compagni li riconobbe facilmente come samurai armati di katana e di lunghe lance dalle punte piumate e le lame ricurve.
I tre combattenti volteggiavano con grazia e precisione come ballerini impegnati in una coreografia provata mille e mille volte. Si scambiavano di posto, paravano i colpi diretti ai compagni e affondavano senza pietà le loro lame nei corpi concreti ed inesistenti delle anime avversarie.
Nathan allungò un braccio dietro di sé per far cenno agli altri di proseguire in diagonale, evitare i samurai e continuare a correre.
Scene del genere iniziarono a diventare sempre più frequenti e ben presto i ragazzi si trovarono costretti ad indietreggiare, a schivare colpi e sottrarsi alla lotta pur di poter proseguire.
«Cercate di non dividervi! Se proprio necessario mai da soli!» gridò Eliza.
«E sempre vicino a uno di noi che è già stato nei Campi Elisi.» aggiunse Lea spingendosi contro Jonas per farlo allontanare da un altro scontro.
«Se dovessimo dividerci, ci vediamo davanti al gabbiotto!» urlò Nathan agli altri beati, che annuirono secchi.
«Beh, penso che il momento si arrivato! Via, VIA!»
Cade si bloccò di colpo, allargando le mani per fermare gli altri e poi spingendo tutti in direzioni diverse, disperdendo il piccolo gruppo con una folata di vento.
Poco dopo il fascio di luce colpì il terreno sbattendo violentemente un’anima mezza carbonizzata sulla terra calpestata.
Le urla dell’anima si dispersero velocemente tra quelle di tutti gli altri, ma nessuno ebbe modo di focalizzarsi sull’azione violenta e perpetua della luce. In pochi secondi furono costretti tutti a rimettersi in piedi e ricominciare a correre e correre.



Lea non aveva mai visto la porta centrale aperta, non si era mai neanche domandata come fosse, ad essere onesti, ma ora che correva a più non posso, tenendo saldamente Jonas per mano, come se ne andasse della sua stessa vita, seguendo Nathan che le correva davanti prendendo a spallate tutti quelli che provavano a sbarrargli la strada, si rese conto che quell’entrata era mastodontica, che pareva la bocca famelica di una balena, pronta ad inghiottire tutto senza neanche rendersene conto.
Spostò con ansia lo sguardo da una parte all’altra, cercando di scorgere gli altri compagni. Credette per un attimo di aver visto Cade, un lampo rosso seguito da una macchia blu, forse la sua giubba, forse quella di Eliza, e si domandò se Jane fosse con loro o se fosse rimasta indietro con Úranus e Cicno.
Úranus. Dov’era il suo amico? Stava bene? Era un ragazzone, su questo non c’era dubbio, ma non era armato e non avrebbe avuto il tempo, la concentrazione o la calma di far impazzire le anime davanti a lui come aveva fatto con il pellerossa nel labirinto. Perché ormai, dopo aver saputo chi fosse effettivamente il padre dell’uomo, Lea non aveva più dubbio alcuno sul fatto che fosse stato proprio il suo compagno a far spaventare l’indiano ed a metterle addosso quella sensazione di disagio che si era portata dietro per gran parte della prova. In ogni caso, in questa situazione, non ne avrebbe cavato un ragno dal buco, si sarebbe dovuto affidare a Cicno e Cicno soltanto.
Sempre che i coltelli avvelenati e la forza semidivina del suo fratellastro fossero servite a qualcosa.

«Nathan! Hai visto gli altri?» domandò cercando di superare il fracasso e farsi sentire.
Il figlio di Ares però era troppo impegnato a caricare un gancio da dare dritto sul naso di una guardia britannica per potergli prestare attenzione e ad osservare lui Lea si rese conto all’ultimo minuto della coppia di anime che rotolò davanti a lei.
Si fermò di colpo, girandosi verso Jonas per potergli far scudo e tenerlo al sicuro e si sorprese della stretta forte con cui il ragazzino la strinse e la spinse di lato, spostando entrambi dalla traiettoria di un altro scontro.
Rotolarono a terra in modo scomposto, cercando inutilmente di rialzarsi, spintonati, urtati, costretti a riabbassarsi per schivare compi e corpi. E più tempo impiegavano per rimettersi in piedi, più anime si frapponevano tra loro e Nathan, fino a dividerli definitivamente.
Lea imprecò mentalmente, lei era in grado di trovare il gabbiotto, ma non sapeva se sarebbe mai stata in grado di affrontare un guerriero o un soldato o dio solo sapeva cosa si sarebbe frapposto tra loro e la meta.
Guardò preoccupata Jonas e non le servì soffermarsi troppo sul suo volto per leggere la stessa ansia, la stessa angoscia riflessa nei tratti tesi.
«Forza, dobbiamo muoverci. Se rimaniamo a terra siamo morti.» disse a denti stretti, facendo forza sulle gambe lunghe e trascinando in piedi con sé il ragazzino.
«Dov’è Nathan? Abbiamo perso anche lui?» domandò con voce tramante Jonas stringendosi inconsciamente a lei.
Era in momenti come quelli, quando la tenzione ed il pericolo erano alle stelle, quando non si stava giocando ma si stava rischiando la vita – l’esistenza – che Lea si ricordava che sì, Jonas aveva solo sedici anni. O quindici, o quanti diavolo ne aveva ma che comunque la si guardasse, era solo un ragazzino piccolo ed indifeso, il cui più alto atto di ribellione era stato fuggire da una situazione difficile, al preludio di una guerra mondiale.
Ricambiò la stretta mormorando qualche canto curativo, nella speranza di infondere un po’ di coraggio e forza nel suo giovane compagno.
«Lo ritroveremo, vedrai che ora lo ritroveremo. Non si farà rinfacciare da Eliza e da Cade che ci ha persi di vista. Andiamo a cercarlo ma nel frattempo avanziamo.»
«Stava combattendo. È senza armi. Lea, è senza armi come farà a difendersi davvero?» incalzò sempre più preoccupato.
Ecco, l’unica cosa che gli ci mancava ora era un preannunciato attacco di panico.
 
Almeno non è Úranus.
 
Si ritrovò a pensare Lea cercando di infondere quanto più calore nell’altro.
«So che è praticamente impossibile, ma non devi agitarti. Se vai nel panico e ti blocchi io non potrò fare gran ché per difenderti.» ammise tesa, «E se il tuo potere funziona come quello di Úranus, allora non potrò fare proprio niente.»
Jonas deglutì. «Hai un amore perduto che potrei rievocare?»
Per la prima volta da che era iniziata quella gara, Lea rise liberamente. «Oh caro, anche io sono stata giovane. Abbiamo tutti un amore perduto, ma se proprio vuoi farmi rivedere Paolo, allora ti prego di farlo quando saremo tutti più tranquilli.» si concesse addirittura di fargli un occhiolino e Jonas, deglutendo ancora a vuoto, ricambio con un sorriso tremulo.
«Sì, capisco.» disse solo.
Lea sorrise ancora. «Lo so.»
Si strinsero la mano più che poterono, per infondere un minimo di coraggio all’altro, per fargli sapere che c’erano, che ci sarebbero stati anche in quell’inferno, in quell’altro inferno, che si capivano.
Ripresero a muoversi con attenzione, svelti come topi che scappano tra i vicoli bui, sperando di non farsi notare dai predatori. Puntarono verso la direzione in cui avevano lasciato Nathan ma Lea non aveva troppe speranze di ritrovarlo subito, anzi, in cuor suo sperava che il soldato fosse andato avanti, che non fosse stato sconfitto e che non fosse ancora impegnato a combattere.
La mente di Jonas invece, per quanto provasse a restare propositivo, a pensare a districarsi tra quella marea di corpi e solo quello, non riusciva a non sfrecciare da un’anima all’altra, da un volto all’altro. Nathan stava bene? Era riuscito a sconfiggere una guardia e ad essere così ritenuto degno di passare la porta? Era stato per caso sconfitto? Anche in quel caso però il suo sfidante avrebbe potuto giudicarlo degno e lasciarlo passare, no? O forse era stato colpito dall’occhio di Sauron o quel che cazzo era e ora stava affrontando la prova del Guardiano.
E Cade?
Si morse il labbro con forza, stringendo talmente tanto la mano di Lea da sentir la sua iniziare a formicolare, come se le mancasse l’afflusso di ossigeno. Quella libera se la strinse al petto, affondando le unghie nel tessuto liso della sua camicia.
Dio, sua madre si sarebbe arrabbiata così tanto se avesse visto in che condizioni era ridotta.
Un verso di scherno gli salì alle labbra, ma nessun suono ne uscì, mentre si domandava perché ogni volta che era in pericolo pensasse a cose così stupide, perché ogni volta che pensasse a Cade o a sua madre automaticamente pensasse anche all’altro.
A sua madre Cade non sarebbe piaciuto probabilmente. A Cade, sua madre sì.
Dov’era ora? Gli aveva detto più e più volte che non l’avrebbe mai lasciato ma continuavano a dividersi invece, ad allontanarsi proprio nel momento del bisogno.
Stava bene? Era vicino ad Eliza l’ultima volta che l’aveva visto. Erano riusciti a recuperare Jane? Era sola lei? O magari Úranus e Cicno avevano visto che era rimasta separata dagli altri due e le erano andati in soccorso? Cicno aveva già iniziato a lanciare i suoi coltelli? Aveva dovuto affrontare qualcuno?
Uno strattone lo riscosse dai suoi pensieri e subito dopo si ritrovò nuovamente a terra, schiacciato dal peso di Lea che, ancora una volta, gli si era gettata contro per proteggerlo, così come aveva fatto Cade innumerevoli volte.
Diamine, si era fatto dei genitori adottivi lì nell’Ade?
Non aveva tempo per pensare a queste cose, non era proprio il momento. Dovevano alzarsi di nuovo e riprendere a correre. Perché Lea non si muoveva?
Un brivido lo scosse d’improvviso.
 
«Lea?» domandò in un pigolio terrorizzato.
Il respiro della ragazza era lento, lentissimo e Jonas pregò che fosse trattenuto e non morente.
«Lea?» provò di nuovo, con la paura crescente che se avesse parlato più forte qualcuno si sarebbe accorto di lui e l’avrebbe finito, avrebbe ucciso anche lui.
«Lea, per favore…»
Avrebbe voluto alzare il capo e cercare il volto della compagna, ma questa lo teneva ancora stretto al suo petto e tutto ciò che Jonas riusciva a vedere erano i bottoni della camicetta, completamente sfocati per colpa della vicinanza.
 
«State bene, signorina?»
 
La voce che lo raggiunse era del tutto estranea, ma aveva al contempo un accento, un’inflessione, decisamente familiare.
 
Americano?
 
«Venite, tiratevi su. Giuro che non farò del male né a voi né al vostro fratellino.»
Era la seconda volta che qualcuno lo appellava come fratello di uno dei suoi compagni e per la seconda volta Jonas non riuscì a dispiacersene.
Solo allora s’accorse che Lea aveva tenuto una mano premuta sulla sua nuca per tutto il tempo, per impedirgli di guardare la morte in faccia probabilmente, mentre lei aveva tenuto il viso rivolto verso il pericolo senza mai distogliere lo sguardo.
Quando la figlia di Apollo si mosse, per tirarsi a sedere, lo tenne comunque vicino a lei, pronta a proteggerlo di nuovo o a spingerlo via dal pericolo.
Strinse un paio di volte la mano sul suo collo e se fosse stato uno scommettitore, Jonas avrebbe giurato che quel gesto significava allerta, attenzione, significava “scappa se ce ne sarà bisogno”. Significava protezione, ancora.
Con lentezza il ragazzino sollevò lo sguardo sull’uomo davanti a loro, che con la sua sola presenza sembrava creare una zona di vuoto tutt’attorno.
 
Una guardia.
 
Fu l’unico pensiero logico che riuscì a fare e in effetti proprio di questo si trattava.
L’uomo davanti a loro era alto e robusto, l’immagine classica di un soldato, forse un ufficiale più alto in rango a giudicare dalle medagli appuntate sulla giacca blu. Una giacca che lui conosceva, che aveva visto costantemente durante gli ultimi giorni- o forse settimane? Quella gara pareva durare da una vita.
Il ragazzino batté le palpebre accostandosi di più alla compagna, fino a premere il torace ossuto contro il suo braccio.
«Lea… ha-» mormorò cercando di non farsi sentire.
Ma lei lo fermò prima, annuendo decisa. «Lo so, l’ho riconosciuta anche io.»
L’uomo inclinò leggermente il capo, i capelli scuri striati di bianco erano leggermente nascosti sotto il cappello nero, che non si mosse d’un millimetro al gesto del suo proprietario.
«Non vi farò del male.» ripetette ancora con calma, forte della sicurezza che gli dava il suo ruolo, conscio che nessuno sano di mente si sarebbe sognato di andarlo a disturbare invece di passargli sotto il naso senza dover far lo sforzo di combatterlo. C’erano altri suoi compagni ad attenderli, in ogni caso.
«Perdonerà se non le crediamo.» rispose Lea con tutta la durezza di cui era capace.
L’uomo si toccò il cappello a mo’ di scusa, «Non sono un’aragosta, signorina, le mie spalle non sono insanguinate. Ho combattuto per la giustizia, per la libertà, non attaccherei mai nessuno in modo così vile, a terra, incapace di difendersi.»
La sua voce era pacata ma incredibilmente salda, gentile quasi, ma certa di ogni parola pronunciata.
Jonas si ritrovò a chiudere ed allargare la mano innervosito. Voleva alzarsi di lì e scappare il più velocemente possibile da quell’uomo, anche se qualcosa gli suggeriva che non gli sarebbe mai potuto ricapitare avversario migliore.
La guardia gli sorrise d’improvviso. «Non dovete temere per la sorte di vostra sorella, come ho già detto, sono un uomo d’onore, non attaccherei mai una donna o un giovinetto. Su, alzatevi, questo non è un buon posto dove riposare.» Allungò la mano verso di loro ma non si avvicinò troppo, lasciando loro spazio per poter scegliere se far da sé o accettare il suo aiuto.
Lea si mise lentamente in ginocchio, senza staccare gli occhi dall’uomo, senza lasciare la presa su Jonas.
«Di nuovo, mi perdonerà se ho qualche remora. Non sempre un uomo in divisa è portatore di giustizia ed onore.»
L’altro annuì ritirando la mano senza sembrarne offeso. «Concordo con voi, sacrificai la mia vita contro altri soldati per l’indipendenza del mio paese. Siete soli per caso? Molti figli degli Dei sono riuniti in gruppi numerosi, avete per caso perso i vostri compagni?»
Jonas tirò leggermente la maglia di Lea, alzandosi definitivamente anche lui da terra. Com’era possibile che tutti si rendessero conto che erano semidei, tranne lui?
«Avete combattuto contro gli Inglesi, giusto? La vostra Guerra di Secessione.» continuò Lea senza voler dare troppi dettagli sulla loro stramba combriccola ad un perfetto sconosciuto che, a detta di Demetra, avrebbe dovuto combatterli e sconfiggerli.
Il soldato annuì sorpreso. «Siete forse della mia amata America? Non dovete essere del mio stesso tempo, alle donne non era permesso indossare pantaloni.» notò quello con un cenno.
«Neanche al mio. In un giorno diverso sarei stata messa in gattabuia, ma quando morii eravamo occupati a combattere.»
Lea si spostò leggermente davanti all’uomo, coprendo così Jonas che si vide costretto ad alzarsi sulle punte per sbirciare oltre la spalla della giovane.
«Non siamo mai riusciti ad ottenere una pace perpetua, lo so.»
«Neanche il mio popolo. Non sono americana.»
«No, non ne avete i tratti, nessuno di voi due.» sorrise lui. «Posso sapere da dove venite?»
«Italia.»
«Germania.»
«Oh, quindi non siete fratelli.» ragionò a voce alta. «Mi sono fatto ingannare dai vostri capelli e dal modo in cui vi proteggete a vicenda. Temo non proveniate neanche dallo stesso luogo d’eterno riposo, giusto?»
A quella domanda, improvvisamente molto più importante di tutto quell’inutile chiacchierare, Lea allungò il braccio all’indietro costringendo Jonas a stringersi ancora di più a lei.
L’uomo sorrise. «Vi prego di credere definitivamente alle mie parole: non vi attaccherò, non sono un vile.»
«E noi non siamo più a terra.» gli fece notare Lea.
«Ma siete disarmati.»
«Siamo semidei, lo ha detto anche lei.» borbottò Jonas. Il pizzico che gli arrivò sul braccio se lo era meritato tutto.
Eppure l’uomo rise, il tono basso e bonario, forse persino un po’ impacciato da quella dimostrazione d’affetto così particolare.
«Vero, ma non tutti i semidei possono vantare doni divini in grado di combattere. Vieni dalle Praterie o dai Campi di Pena, ragazzo?» Chiese improvvisamente serio.
Jonas sentì un’incredibile voglia di nascondersi dietro Lea e lasciar rispondere lei, ma dentro di sé c’era un moto d’orgoglio e di testardaggine che gli sussurrava che se mai si fosse preso la responsabilità delle sue azioni, di ciò che era, non avrebbe avuto nessuna possibilità di vincere, né di sopravvivere una volta tornato in vita.
 
Perché è questo che voglio. Una seconda possibilità.
 
Preso da quei pensieri si scostò da dietro l’amica e guardò l’americano dritto negli occhi, senza vergogna, o per lo meno, cercando di dimostrarsi più sicuro e coraggioso possibile.

«Sono un dannato.» disse riuscendo a mantenere la voce salda. Cade sarebbe stato davvero fiero di lui.
L’uomo lo fissò per un lungo istante ma non appena si mosse lo stesso fece Lea, ponendosi nuovamente davanti a lui.
«Sappiamo qual è la prova, sappiamo di dover affrontare voi guardie o superare la prova del Guardiano, ma sappia lei, invece, che se vorrà muovere un solo dito contro di lui, prima dovrà vedersela con me.»
Cade sarebbe stato estremamente orgoglioso anche della voce ferma e minacciosa di Lea. Così come Eliza lo sarebbe stata, così come Úranus e, Jonas non ne dubitava, anche Nathan. Riuscì ad immaginarsi persino Jane sogghignare farfugliando qualcosa sul bel caratterino che l’italiana era in grado di tirare fuori nei momenti più opportuni. Forse, persino Cicno sarebbe stato compiaciuto della minaccia esplicita, anche se poco minacciosa in effetti, mossa dalla sua sorellastra.
Ciò che Jonas non si aspettava di certo era come persino l'uomo davanti a loro sembrò apprezzare quel gesto, tanto da fermarsi e assumere una posa palesemente militare.
Si tolse il cappello con un gesto fluido e porse, per la seconda volta, la mano a Lea.

«E questo vi fa incredibilmente onore, signorina-»
«Lea.» rispose Jonas per lei, senza riuscire a fermarsi.
L’uomo gli sorrise bonario. «Lea. Ciò vi fa onore. Ergersi a difesa di un compagno, qualunque sia la situazione, anche quando sarebbe più fruttuoso pensare solo a sé stessi. Siete una donna altruista.»
Lea si fece scappare un verso quasi divertito, studiando con diffidenza la guardia prima di decidersi a stringergli la mano.
«Sono morta per colpa del mio altruismo, signor?» domandò di rimando.
L’uomo le strinse saldamente la mano, poi la porse anche a Jonas, che l’accettò timidamente.
«Sergente dell’esercito delle Tredici Colonie, ora degli Stati Uniti d’America, Philip Reed.»
Jonas annuì mestamente, «Jon-» Poi si bloccò.
Fece scattare la testa verso Lea, così velocemente che in vita se la sarebbe di certo staccata dal collo, e sul suo volto lesse lo stesso sgomento che doveva esserci sul suo.
«REED
 



 
*
 




Cade guardò con ansia la gente che lo circondava, troppo presa a combattere o a fuggire per prestare attenzione a lui.
I guanti di metallo pesavano come mai avevano fatto, li aveva lasciati per così tanto tempo a Jonas da essersi quasi dimenticato cosa si provava ad indossarli. Ad essere precisi, quella sarebbe stata la prima volta da che era morto che li avrebbe utilizzati di nuovo e non sapeva se la cosa gli mettesse più eccitazione addosso o più nervosismo: imbracciare un’arma significava sempre utilizzarla nel suo mondo.
Un’anima si fermò d’improvviso a fissarlo, immobile in quel caos di scontri e raggi luminosi, e Cade si preparò mentalmente a menare le mani per l’ennesima volta. Sapeva perfettamente infatti che quel morto non stava guardando davvero lui, ma chi c’era alle sue spalle.
 
Una giubba blu simile a tante altre che girano da queste parti, peccato che la nostra Elza non sia una vera guardia.
 
«Non ci provare bello, è una concorrente come te.» sibilò portando i pugni in alto, in una classica posizione da pugile.
L’uomo lo guardò per un attimo stralunato. «Lei?» chiese in un soffio, prima che un gruppo di anime lo spingesse via nella loro folle corsa.
Cade sospirò sollevato voltandosi a mala pena indietro per sincerarsi che le ragazze lo stessero seguendo.
«Devi toglierti quella cazzo di giacca, non fanno altro che scambiarti per un soldato.» gridò spingendo via una donna in quello che sembrava un pigiama intero arancione.
Jane, arrancando al fianco di Eliza, annuì concorde. «Sì, devi togliertela, ci sta procurando più guai che altro.»
«Io sono un soldato.» ringhiò quella assottigliando lo sguardo.
«E noi siamo concorrenti di una gara in cui, ora come ora, i soldati sono i cattivi.» le ricordò Jane.
«Non che sia una novità.» borbottò Cade sperando di non essersi fatto sentire. Fallendo miseramente.
«Come?»
«Oh, andiamo, non farmi ricominciare questo discorso ora, siamo nella merda, possiamo parlarne dopo? Ci siamo persi Jonas che spero, per l’incolumità delle sue palle, Nathan stia proteggendo.»
«Ci siamo persi anche Lea, il gigante inquietante e il belloccio.» continuò affannata. «Lea è con i due bambini?»
Cade annuì. «Dovrebbe. Cazzo, abbiamo lasciato tutti i più piccoli insieme.»
«Almeno sono biondi, li si trova facilmente.»
«Voi dite?» ringhiò Eliza togliendosi la giacca di malavoglia, assestando un calcio sulla schiena ad un’anima mal ridotta, probabilmente un dannato, prima di indicare con il capo la sacca di Cade.
«Mettila lì e sta attento a non rovinarmela.» disse avvicinandosi al compagno per infilare a forza la giacca nel bagaglio.
«Che c’è? Ora sono un postino?»
«Cos’è un postino?»
«Nulla di cui dobbiamo occuparci ora. Giù!»
Al grido della mora tutti e tre si buttarono a terra ed il raggio luminoso passò di nuovo sulle loro teste, colpendo in pieno un uomo vestito di verde con una specie di calzamaglia al posto dei pantaloni.
Cade guadò con orrore il verde scintillante del velluto divenire marrone ed aprirsi in fori bruciacchiati, mentre il resto della pelle assumeva un colore fin troppo simile a quello della carne arrostita.
Dio, che cazzo avevano gli Dei con il fuoco e le fiamme? Perché dovevano sempre bruciare? Per una volta non potevano decidere di farli affogare? Perché sempre il dannato fuoco?
«È una mia impressione o quel dannato faro ci sta seguendo?» domandò il rosso rialzandosi in piedi e trascinando con sé Jane.
La ragazza, innervosita, tirò via un lembo della sua veste da sotto il piede di un giovane, strappandolo malamente. «Se stai per dirci qualcosa come “sembra stia seguendo proprio me”, sappi che ti utilizzerò come vittima sacrificale e ti ci spingerò dentro alla prima occasione. Dannazione!» ringhiò fissando la gonna mezza rotta.
Cade alzò gli occhi al cielo, fece scivolare velocemente la sacca davanti a sé e vi immerse il braccio per cercare alla cieca il suo coltellino da intaglio. Lo fece scattare con un gesto consumato e poi si abbassò davanti a Jane, facendole cenno di tenere la gonna un po’ sollevata.
«Che diamine vuoi fare?» chiese Eliza guardandolo storto.
Cade rimase però concentrato sul suo lavoro, portando la lama proprio sullo strappo principale, tagliando in orizzontale un grande e logoro anello di stoffa.
Il verso sgomento di Jane si perse nel caso che li circondava, ma Cade non se ne curò, rialzandosi velocemente e mettendosi il coltellino in tasca.
«Le facilito la corsa, avremmo dovuto farlo molto prima.»
«Ha le caviglie scoperte così!» protestò Eliza.
Il rosso la guardò allibito. «Me lo sta dicendo una che porta i pantaloni? Seria? E poi che cazzo significa? Le hai anche tu le caviglie e le ho anche io, non mi sembra il momento giusto per discutere di bon ton!»
«Stai imprecando sempre di più, passi troppo tempo con Nathan.» gli rinfacciò Eliza tirando un destro in piena faccia ad un uomo in abiti moderni, spostandolo poi di lato, dritto contro un’altra anima.
«Che tu ci creda o no, cara Elza, lo facevo anche prima di conoscerlo, sono un ragazzo di porto io!» sorrise d’improvviso saltellando alla ricerca di una via libera.
«Possiamo smetterla e andare avanti?» li rimbeccò Jane, scuotendo leggermente prima un piede e poi l’altro, come per abituarsi a quella nuova, improvvisata tenuta.
«Giusto. Credi che ti segua quindi?» domandò Eliza tirandoli dalla sua parte non appena trovò una breccia tra le anime.
Cade fece una smorfia. «Le Praterie mi davano più fastidio di quanto non ne dessero a voi. Se la prova del Guardiano serve per assicurarsi che un’anima sia degna di entrare nei Campi Elisi…»
«Io e te siamo fottuti.» concluse la figlia di Ecate secca.
Eliza guardò male anche lei. «Anche tu passi troppo tempo con Nathan.»
«Bell’affare, non è che possa farne a meno!»
«Sentite, basterà non farci beccare dal raggio divino o quel che è.»
«E trovare gli altri il prima possibile.»
«Se becca Cicno e Jonas sono nei guai anche loro.»
 

«Penso che potreste esserlo anche voi, se non prestate attenzione ad ogni direzione.»


I ragazzi si fermarono di colpo, congelati da quella voce così vicina e distante al contempo.
Lentamente girarono sul posto, trovandosi faccia a faccia con una giovane di forse vent’anni, che li fissava con tranquillità, come se non si trovassero in mezzo ad un campo di battaglia pullulante di combattenti.
Anche lei doveva essere una di loro, malgrado non avesse vesti militari. Non indossava un’armatura, né una divisa, sembrava quasi… un’odalisca.
Sul corpo morbido erano drappeggiati delicati veli di un verde tenue, pastello, un colore quasi infantile che contrastava in modo stridente con le lunghe sciabole che stringeva.
Le braccia e le caviglie erano cariche di bracciali e gioielli sonanti, la gonna sembrava avere un lungo spacco sul lato, forse per aiutare chi la indossava a muoversi con più facilità, forse solo per attirare l’occhio proprio sulle gambe toniche della giovane. Il petto era fasciato con una qualche stoffa chiara, ma i veli che le avvolgevano il torace, i fianchi e le spalle, così come il capo, non lasciavano intravedere la trama o il colore originario.
Il volto gentile aveva palesi tratti arabi, il naso pronunciato era decorato con un anello d’oro scintillante, legato ad una catenella che si univa agli orecchini, in parte coperti dai capelli, in parte dal velo che li proteggeva ad occhi indiscreti.
C’era uno spesso contorno nero attorno ai suoi occhi, ma Cade avrebbe scommesso che la giovane avesse uno sguardo penetrante con o senza di quello.
La guardò di nuovo da capo a piedi, registrando solo in quel momento il fatto che fosse scalza.
Subito dopo Eliza si schierò davanti a lui e Jane, in posizione di difesa.

«Siete una guardia dell’Ade?» domandò ad alta voce.
La giovane annuì. «Il mio nome è Hadiya, serva fedele del Sultano Osman il Guerriero. È mio compito sfidarvi e combattervi. Cadrà su di me il giudizio sulla vostra nobiltà, valore e giustizia. Saranno le mie spade a decretarvi degni o meno dei Campi Elisi.»
Cade deglutì guardando le sciabole con apprensione. «Non è il momento giusto per chiedere perché una donna araba sia finita nell’inferno greco, vero?» domandò sottovoce.
«Se è per questo, molti cristiani sono finiti in questo inferno, te lo stai domandando solo ora perché?»
«Combatterò io contro di lei, voi scappate.»
Il commento secco della figlia di Nike fece irrigidire i due compagni. Jane guardò prima l’una e poi l’altro.
«Ci sta prendendo in giro?» chiese con una punta di acidità nella voce.
Cade annuì, una smorfia infastidita a piegargli le labbra. «Non ci prende in giro, ci sta prendendo direttamente per il culo.» affermò sistemandosi i guanti e mettendosi anche lui in posizione. «Ha due spade, io le blocco e tu l’attacchi, ci stai?»
Eliza storse appena il naso. «Non combatterà contro entrambi.»
«Posso combattere contro tutti e tre. Non siete dannati, posso vederlo chiaramente, perciò a voi concederò un combattimento equo e dignitoso, non vi ucciderò senza pietà, così come le anime dannate meritano. Se nel vostro spirito siete consci che solo combattendo tutti e tre contro di me potreste avere speranza allora così sia.»
Non lasciò loro tempo di risponderle.
La guerriera scattò in avanti, le sciabole posizionate di taglio davanti a lei, pronte ad infliggere il maggior danno con il minor sforzo.
Jane afferrò Eliza per la camicia e la tirò indietro con tutta la forza che aveva, lasciando spazio a Cade che le si schierò davanti cercando di parare i colpi.
Riuscì a deflettere la lama più alta ma veloce Hadiya girò su sé stessa menando un affondo con l’altra, ferendo di striscio Cade al fianco.
Con un sibilo dolorante Cade indietreggiò di un passo ma non si tolse dalla traiettoria, conscio che così facendo avrebbe lasciato scoperte le sue compagne.
Eliza ringhiò a denti stretti, ci sarebbe stato tempo in futuro per sgridare entrambi per non aver eseguito i suoi ordini e per averla addirittura sottratta al primo scontro, ma ora doveva occuparsi della guerriera araba.
Si rialzò scivolando sulla cenere e sulla terra brulla, caricando a testa bassa la giovane e placcandola alla vita.
La lanciò al suolo ma quella doveva essere evidentemente ben addestrata perché si liberò con un movimento sinuoso e le menò un colpo tra spalla e collo con l’elsa della sciabola. 
Doveva muoversi da lì più velocemente possibile, nella foga della sua mente iperattiva sapeva perfettamente che anche un secondo d’esitazione le sarebbe costato la vita e che in quella posizione aveva più di un punto debole scoperto. Si mise in ginocchio, afferrando il polso della guerriera, decisa a farle perdere almeno una delle sue armi, anche a costo di ritrovarsi l’altra infilzata nel fianco, ma la lama si scontrò contro qualcos’altro, dal rumore metallico e l’imprecazione che seguì subito dopo, probabilmente Cade. Che, malgrado fosse riuscito a stringere la lama tra le mani guantate, si ritrovò subito dopo ad indietreggiare lasciando la presa. La guerriera si era mossa con precisione marziale, colpendolo con un calcio in piena faccia e facendolo barcollare all’indietro.
«Cazzo!» sibilò tra i denti, portando istintivamente le mani al naso. Anche sotto lo strato rigido del bronzo celeste il naso sembrava molliccio, sicuramente rotto. Il sangue vischioso che gli scivolò sulle labbra sapeva di ferro e terra.
Cade ondeggiò serrando gli occhi per un secondo, un’azione stupida ma inevitabile, e fu felice di sentire subito dopo un paio di mani, piccole ma dalla stretta serrata, afferrarlo per i fianchi e spostarlo di peso.
Così come aveva fatto per Eliza, Jane lo manovrò sul campo, aiutandolo a stare in piedi e schivare altre anime mentre la figlia di Nike cercava di mantenere lo scontro con la guerriera un serrato corpo a corpo. Darle troppo spazio le avrebbe permesso di maneggiare al meglio le sue lame e dalla precisione e la sicurezza con cui si muoveva Eliza non dubitò neanche per un momento che sarebbe stata capace di decapitarla con un unico fluido gesto.
Jane guardò le due combattere e si domandò se, nel caso ci fosse stato Jonas con loro, l’araba non si sarebbe fatta problemi a giocare sporco come, evidentemente, non stava facendo in quel momento.
«Qualunque cosa succeda, non dobbiamo farla arrivare da Jonas, o lo ammazza di sicuro. » ringhiò Cade soffiando forte dal naso e sputando sangue a terra. Sentiva gli occhi gonfiarsi, così come gli zigomi, doveva avergli fatto un bel danno.
«Non è un problema ora. Guardami.» rispose svelta Jane facendolo voltare verso di lei e asciugandogli il naso con la manica del vestito, cercando di togliergli dalla faccia anche quello che gli colava dal sopracciglio. Quando parve soddisfatta gli diede una spinta verso Eliza, intimandogli di correre ad aiutarla prima che fosse troppo tardi.
Cade non se lo fece ripetere due volte e con un balzo atterò alle spalle della guerriera, cercando di bloccarle le braccia ma ottenendo così solo di farle da appoggio per poter colpire di nuovo in pieno petto Eliza, mandandola a gambe all’aria, prima di scrollarsi Cade di dosso e farlo rovinare a terra, costringendolo a rotolare via per non essere infilzato dalle sciabole.
Jane osservava con ansia i due cercare quanto meno di arginare la donna, una furia personificata, un angelo vendicatore di quelli che il prete raccontava sarebbero scesi sulla terra nel giorno del giudizio.
Da sola lei non sarebbe riuscita a fare nulla, non sarebbe riuscita neanche a parare un colpo, sarebbe morta all’istante. Eliza e Cade no, malgrado non avessero davvero mai combattuto assieme ora si alternavano cercando di collaborare come una squadra, guardandosi le spalle a vicenda, trovando un ritmo quanto meno per poter parare ogni colpo di lama. Ma Cade era ferito, al fianco, al volto, ed Eliza aveva tagli sanguinanti sulle braccia, la camicia squarciata lasciava intravedere la stretta fasciatura che le legava il busto, forse la stessa che le copriva il seno.
Jane si ritrovò d’improvviso a guardarsi attorno con foga, sperando, pregando, di poter scorgere Nathan o Úranus, entrambi abbastanza addestrati o grossi per poter aiutare gli altri due. O magari Cicno o Lea, che avrebbero potuto curare le ferite degli altri. Sperava solo che Jonas fosse con loro, che non si fosse perso in mezzo a quel caos o sarebbe stata dura ritrovarlo, sarebbe stata dura ritrovarlo intero, per lo meno.
Prese a martoriarsi il labbro fino a farselo sanguinare, ma anche così era troppo intenta a cercare gli altri, cercare aiuto, e nel frattempo non perdere di vista Eliza e Cade, correndo da loro ogni volta che li vedeva rovinare a terra, allungando le braccia per prenderli ogni volta che li vedeva barcollare.
Per quanto la sua mente lo urlasse a gran voce, Jane non capì di essere effettivamente preoccupata per loro, di aver paura per la loro salvezza, finché non si ritrovò a ripetere tutti gli incantesimi che conosceva, tutte le formule e formulette, tutti quegli stupidi trucchi da prestigiatore che forse non avrebbero sconfitto la guerriera araba ma almeno avrebbero potuto dare un attimo di respiro ai suoi amici.
Dio, si sentiva così impotente in quel momento.
Non aveva incantesimi d’attacco, offensivi. Poteva fare la sua bella bussola, creare qualche piccola illusione e-
Jane si spostò di scatto evitando alcune anime. Non poteva credere di non averci pensato fino ad ora. Non poteva credere d’esser stata così stupida.
Si trovava all’inferno, nelle Praterie degli Asfodeli, vicino ai Campi Elisi dove poco prima – o forse ore ormai? – era appena crollato un gigantesco muro di Foschia.
 
Non devo crearne, non devo raggrupparla, ce n’è in abbondanza già qui.
 
Doveva solo riuscire a manipolarla, solo questo. E ve ne era così tanta tutt’attorno a lei che forse avrebbe anche potuto aver successo.
Si avvicinò ai suoi compagni, cercando di mantenere abbastanza distanza per non essere coinvolta direttamente nello scontro ma d’esser anche abbastanza vicina per far sì che la Foschia si muovesse esattamente dove voleva lei.
Le serviva concentrazione, qualcosa che non aveva più da molto, dall’ultimo incantesimo provato prima di quella sciocca ma preziosa gara. Non poteva chiudere gli occhi, non poteva smettere di prestare attenzione a tutto ciò che la circondava però, o si sarebbe firmata una seconda condanna a morte.


Peccato che fare le cose sotto pressione non è mai stato il mio forte.
 
Si maledisse da sola, sfregando i denti con forza senza curarsi del sinistro scricchiolio che produssero. Doveva concentrare una parte della sua attenzione sulla guerriera ed una parte sulle altre anime, senza mai smettere di spostarsi, senza mai perdere il filo dei suoi pensieri.
Doveva visualizzare, doveva immaginare la sua magia prendere vita sotto i suoi occhi, muoversi e agire come poi avrebbe davvero fatto.
Glielo aveva detto anni addietro anche quell’essere a cui aveva chiesto aiuto, che le aveva consegnato ciò che avrebbe dovuto aiutarla nella sua vendetta ma che finì solo per ucciderla. Le aveva detto che il potere della sua signora, di sua madre, era immenso e che ciò che i mortali, specie gli uomini, non riuscivano a capire era che la magia non aveva bisogno solo di riti, sacrifici e formule esoteriche per poter agire, non aveva bisogno di patti di sangue e vergini pugnalate la notte sotto la luna piena. La magia era un potere infido, così potente ed incontrollabile dagli esseri inferiori perché la loro mente non riusciva a vedere, non riusciva ad immaginare ciò che poi la magia avrebbe fatto.
La magia era fede cieca ad occhi aperti, inesistente e concreta, silenziosa e scrosciante e in quel momento Jane era circondata da quell’invisibile forza che lentamente si disperdeva a briglie sciolte.
Così come Cicno aveva detto loro di poter vedere i Fuochi Fatui, così Jane si rese conto di dover voler vedere la magia, per poterla vedere davvero.
Si costrinse a vedere, a credere, ad aver fede, mentre un formicolio sconosciuto le solleticava le mani, intorpidendo le punte delle dita. Doveva toccare, aveva bisogno di un contatto, ma se si fosse avvicinata così tanto la guerriera l’avrebbe colpita e Jane era certa di non aver dei riflessi abbastanza sviluppati.
O forse no. Forse poteva farcela se gli altri l’avrebbero tenuta impegnata. Doveva solo arrivarle alle spalle, doveva solo cercare di non farsi vedere.
 
Come quando andai da Tituba e malgrado la confusione crescente nel villaggio nessuno mi fermò, nessuno mi impedì di andare da una sedicente strega.
 
Il formicolio si intensificò e Jane si mosse prima ancora d’averne coscienza.
Scivolò veloce vicino a Cade, che cercava di parare tutti i colpi delle lame, soprattutto quelli indirizzati ad Eliza, rimanendo così scoperto dai calci veloci che la guerriera gli scagliava. Era ovvio che la donna mirasse alla figlia di Nike per far perdere la posizione di difesa al compagno ed era altrettanto ovvio che quello non fosse il suo primo combattimento due-contro-uno.
Malgrado Eliza cercasse di mettere a segno più colpi possibili doveva sempre spostarsi o cedere il passo per evitare le sciabole affilate. Malgrado l’attenzione e la concentrazione che i due stavano faticosamente mantenendo, sempre più ferite si aprivano sulle loro braccia, sui fianchi e sulle spalle. Jane giurò che il pantalone scuro di Cade fosse diventato ancora più cupo, pesante, forse inzuppato di sangue, probabilmente la donna era riuscita ad infilzarlo in qualche modo, ma non abbastanza da non permettergli di reggersi in piedi.
Jane rimase un attimo immobile, aspettando il momento giusto, il formicolio le si insinuò sotto pelle, avvolgendola in una sensazione fumosa, qualcosa che non provava da troppo tempo, qualcosa che le ricordò gli istanti che avevano preceduto la sua morte.
 
La magia. È la magia.
 
La Foschia l’avvolse come un mantello, come una veste cucita su misura, una seconda pelle che le fece da corazza non proteggendola dagli attacchi, dalle anime che la circondavano, ma rendendola semplicemente invisibile.
Per pochi, brevi secondi il suo corpo si fuse con la Foschia che ancora aleggiava per il campo di battaglia, il rumore dei suoi passi, delle sue vesti, ingoiati dal frastuono delle lotte.
Jane avanzò con la stessa sicurezza con cui ci si muoveva nei sogni, senza sapere dove si stesse effettivamente andando ma sapendo per certo che fosse la cosa giusta da fare, la giusta direzione.
Si avvicinò alla guerriera proprio quando questa riuscì ad allontanare i suoi compagni, ruotando su sé stessa a lame sguainate, un tornado letale che si fermò con grazia e decisione in una posa d’attacco che Jane non aveva mai visto.
Ma poco importava, non i volti affaticati dei suoi amici, non i loro corpi sfregiati, non le anime tumultuose che li circondavano o il leggero respiro ritmico della donna, della guardia dell’Ade. In quella pausa, dettata forse dalla gentilezza della guerriera che aveva promesso loro uno scontro rispettoso, Jane vide l’opportunità che stava cercando.
Fu un momento, qualcosa di così veloce che lei stessa dubitò d’aver fatto. Jane si spinse verso la loro rivale e senza indulgi strinse le mani sulle sciabole.
Hadiya rispose immediatamente, si voltò dando le spalle a Cade ed Eliza, pronta a menare un fendente alla figlia di Ecate, i cui contorni fumosi iniziavano a ricondensarsi nella sua figura, ma quando mosse le armi non poté non notare come queste fossero prive delle loro lame.
Con un verso sorpreso la donna lasciò cadere le else vuote e sferrò un pungo in pancia a Jane, facendola piegare su sé stessa, per poi infliggerle un altro colpo in piena faccia.
La giovane cadde a terra ferita e stordita, le sembrava quasi che i suoni si stessero facendo sempre più bassi, più flebili.
Giurò d’aver sentito entrambi i suoi amici chiamarla a gran voce, un fulmine rosso si era abbattuto sulla guerriera mentre il volto sfocato di un giovane,  di una giovane, entrò nel suo campo visivo chiedendole qualcosa che non riusciva a comprendere.

«Le spade- le lame… sono ancora lì. Prendi-» con un gesto vago della mano Jane cercò di indicare le else abbandonate dalla guerriera, che ora combatteva a mani nude contro Cade, svantaggiata dalla durezza e dalla violenza che i guanti di bronzo celeste concedevano all’irlandese, mentre questo saltellava come una scheggia impazzita, ora libero di muoversi in ogni direzione senza la paura di lasciare la compagna scoperta.
Eliza la guardò come se non capisse, gettando occhiate rapide dalla ragazza tra le sue braccia, al compagno, alla guerriera.
«Sei stata tu? Le hai fatte sparire tu?» domandò concitata.
Jane storse il naso, la guancia le bruciava come mai aveva fatto prima, un dolore del tutto diverso da quello del fuoco vero, ed era sicura che se avesse avuto ancora dei denti ora li avrebbe già sputati tutti. Dio, era come mettere la testa sotto la campana mentre questa suonava. Aveva voglia di vomitare e se provava anche solo ad alzarsi dalla sua posizione accucciata, il mondo iniziava a girare senza pietà.
«Le spade.» ripeté tossendo. «Prendi quelle dannate spade!»
Eliza si ritrasse come se si fosse scottata, osservando con più attenzione gli oggetti abbandonati, malgrado la sua attenzione scivolasse sempre verso Cade, ora caduto a terra ma subito balzato di nuovo in piedi.
Non erano ancora in grado di combattere assieme, si intralciavano a vicenda, probabilmente se avesse lasciato solo lui a combattere in questo caso sarebbe stato meglio.
La figlia di Nike si maledì da sola, quello non era il momento per flagellarsi e rimproverarsi errori di cui non poteva venir a capo, non quando aveva una compagna ferita incapace di difendersi e un altro impegnato a tener testa ad un demonio in veli.
La sua mente valutò centinaia di scelte ad una velocità disarmante ed era già in piedi quando giunse alla conclusione che per poter soccorrere Jane ed aiutare Cade l’unica soluzione era fermare la guerriera.
Corse verso le impugnature delle sciabole, quasi gettandosi a terra nella foga di raccoglierle. Non sapeva perché Jane le avesse urlato di prenderle ma in quel momento riponeva una fiducia quasi cieca nella compagna e non esitò a fare ciò che le era stato detto. Non appena le ebbe tra le mani però, si rese conto che qualcosa non andava, che forse le lame erano sparite, forse Jane era riuscita a scioglierle o a farle scomparire e basta, ma le due else erano troppo pesanti per essere solo… else.
Le strinse comunque con forza e nel momento in cui si volse per tornare alla carica, per andare ad aiutare finalmente Cade, la luce crepuscolare che la seguiva come un’ombra proiettò sul terreno l’intero profilo del suo corpo che brandiva due lunghe ed arcuate lame.
Una scintilla, come lo scoppio di un moschetto, le sfavillò davanti agli occhi, la realizzazione che no, Jane non aveva fatto sparire le lame, le aveva solo fatte diventare invisibili.
 
Come la Foschia rende invisibili i mostri agli occhi umani.
 
Una rinnovata sicurezza crebbe nel petto della donna, il peso familiare di un’arma da taglio, come le sue vecchie spade gemelle, come le sue ali perse durante la prima prova, le diede nuova energia, nuova forza. Poté giurare che il sangue divino di sua madre stesse pompando a pieno ritmo nelle vene, che ne avesse ancora o meno, la sensazione era la stessa che aveva provato prima di ogni carica, prima di ogni combattimento, anche prima della sua morte: l’euforia dello scontro, la voglia, il bisogno, ruggente di battersi, di attaccare, di schiacciare l’avversario, di vincere.
Come aveva fatto centinaia di volte in vita, migliaia nella morte durante gli allenamenti bonari con suo padre, Eliza spostò le lame invisibili davanti a sé, chiudendole a forbice prima di urlare a Cade di spostarsi e piombare sulla guerriera disarmata.
La donna dovette capire che qualcosa non quadrava, che doveva esser stata ingannata perché quell’anima brandiva le sue spade ridotte ormai solo ad else come se fossero ancora pienamente funzionanti. Si mosse pronta a difendersi, a colpirla, quando Eliza saltò e l’ombra di una croce coprì per un attimo il volto dell’altra.
La guerriera poté solo che abbassarsi, spostandosi per evitare i fendenti incrociati, ma lì ad attenderla c’era Cade che, con un colpo da maestro, si tolse la sacca di spalla e la lanciò con forza verso i suoi piedi.
Hadiya cercò di schivare anche quella, conscia che così facendo avrebbe sicuramente perso l’equilibrio e così fu. Tra il tentativo di togliersi dalla traiettoria di Eliza e quello di saltare la sacca, la donna cadde all’indietro, rotolando su un fianco.
Eliza infilzò con forza una delle sciabole davanti al volto della guerriera, costringendola a fermarsi e non appena questa provò a voltarsi dal lato opposto le piombò addosso, bloccandole le gambe con le sue e puntandole l’altra spada alla gola.
La guerriera araba si fermò, lo sguardo serio e fiero fisso in quello di Eliza, senza batter ciglio, senza perdere un colpo. Il suo respiro era regolare, un braccio bloccato sotto il suo stesso corpo, l’altro inutile da solo contro un’avversaria con ben due sciabole di cui una posizionata in modo tale che, qualunque movimento avrebbe provato a fare, l’avrebbe sicuramente ferita a morte.
Se solo fosse stato possibile.
Con lentezza fece un cenno affermativo con il capo, alzando la mano libera in segno di sconfitta.

«Ebbene, pare abbiate avuto ingegno nel volermi affrontare assieme. A voi il mio rispetto.» disse con voce sicura.
Eliza la fissò ansimando, l’adrenalina che ancora correva rapida il corpo, le labbra seccate dai respiri che prendeva affannosamente a bocca aperta.
Annuì anche lei, tenendo lo sguardo fisso nel suo ed alzandosi lentamente le tolse la lama dalla gola. Rimessasi in piedi sfilò anche l’altra dal terrendo e la lanciò ai piedi di Cade, che la prese al volo avvicinandosi con circospezione alla guerriera.
Questa alzò un sopracciglio ma non perse quel gioco di resistenza che stava tenendo con la semidea.
«Avete il mio rispetto, ciò significa che avete vinto la mia fiducia. Il mio giudizio è positivo.»
Eliza strinse per un attimo la spada e poi la portò leggermente dietro di sé. Solo allora la donna distolse lo sguardo e si alzò, spolverandosi le vesti.
«Siete stati dei buoni avversari, ma sappiate che soli non sareste riusciti ad atterrarmi.» disse comunque per buona misura.
La figlia di Nike annuì, conscia di quanta verità ci fosse in quelle parole, e le porse la sua arma come segno di pace.
Cade invece non perse la presa mentre passava veloce dietro le spalle della compagna per arrivare dall’altra, ancora inginocchiata a terra, che aveva osservato con attenzione ed ansia tutto il combattimento.
«Stai bene ragazza pazza?» domandò chinandosi vicino a lei.
Jane lo guardò assottigliando lo sguardo. «Ora sono la ragazza pazza? Non ero quella delle Praterie?» rispose con leggero astio. Un astio che Cade sembro però non percepire, sorridendo sollevato quando la sentì parlare con il suo solito tono seccato.
Sospirò di sollievo mettendosi una mano sul cuore con fare drammatico. «Oh, ma allora ti sei affezionata al soprannome che ti ha dato il fratello Cade!»
Jane grugnì. «Eliza, toglimi questo deficiente da davanti prima che dica altre sciocchezze e che faccia sparire anche lui!»
«Dovremmo dirlo al soldatino sai? Che hai fatto scomparire le lame, beh, che le hai rese invisibili dico. Così smetterà di romperti le palle con la storia che non sai fare un cazzo. A proposito di questo, ma tu non eri quella che, effettivamente, non sapeva fare un cazzo?» chiese inclinando la testa, porgendole comunque il braccio per aiutarla a rialzarsi.
Jane grugnì una seconda volta, in modo decisamente più sonoro. «Per l’ultima volta, non è che non so fare nulla, è che nessuno mi ha insegnato nulla. Questo vuol dire che tutto quello che so l’ho imparato da autodidatta e che quindi non so fare cose sempre utili.»
«Non l’hai mai detta così.» puntualizzò Cade mettendo il broncio, il sangue secco sul suo labbro si crepò cadendo in piccoli granelli. «Non l’ha mai detta così, vero?» domandò a voce alta voltandosi verso Eliza.
La giovane li aveva guardati con un mezzo sorriso, quasi incredula che quei due potessero passare dall’essere supportivi e attenti l’uno con l’altra, dal preoccuparsi per la loro salvezza, al discutere come mocciosi.
Un leggero colpetto sulla mano la fece girare verso la guerriera che, con espressione illeggibile, le offriva la sacca che Cade le aveva lanciato contro.
«Grazie.»
«Mi domando come abbiate fatto a giungere fino a qui. Nel mio paese una conversazione del genere avrebbe fatto cadere delle teste. Insultare una donna così giovane può esser causa di un processo per preservare l’onore della sua famiglia.»
Eliza annuì mesta. «Anche ai miei tempi un padre avrebbe avuto molto da ridire, ma i miei compagni sono- speciali, a modo loro. E soprattutto, non siamo solo noi tre.»
Hadiya sembrò valutare per un momento le sue parole, poi fece un gesto secco con la testa.
«Avete la mia benedizione per passare, questo vuol dire che nessuno dei miei fratelli vi combatterà, ma ciò non varrà anche per gli altri vostri compagni, loro dovranno guadagnarsi da soli il favore di uno dei guerrieri dell’Ade.»
Così facendo la donna alzò una mano per porre il palmo sulla fronte di Eliza.
La semidea non pensò neanche di spostarsi, sicura delle parole dell’altra, che non avrebbe fatto loro del male.
Un leggero tepore le scaldò la fronte e qualcosa luccicò sopra il suo campo visivo.
 
«Hai una macchia sulla fronte, come se avessi sbattuto la testa contro uno sportello.» ci tenne a precisare Cade riprendendosi la sacca. «A me può fare una stella? No, no, una spada. No! Una foglia! Ma che dico! Un uccello! A me può fare la forma di un uccello?» chiese ammiccando conscio di quanto fosse irritante.
Jane gli rifilò uno schiaffo sulla spalla. «Puoi farglici un buco invece? Magari così il cervello gli prende aria. Sempre che ne abbia uno.» aggiunse ironica.
«Certo che non ce l’ho, sono morto!» trillò invece lui allegro
La guerriera non prestò loro molta attenzione e, prima Cade e poi Jane, pose la mano sulla loro fronte e li “marchiò” come aveva fatto con Eliza.
«Andate ora, trovate i vostri compagni e poi la via per la vittoria.»
Con quelle ultime parole la donna si riprese anche l’altra sciabola, voltò loro le spalle e si incamminò con passo sicuro verso il suo prossimo obiettivo.
In un attimo Jane si ritrovò travolta dalle attenzioni degli altri due, che le domandavano se stesse bene, se fosse ferita, come avesse fatto a rendere le lame invisibili, quanto fossero rimasti sorpresi, quanto fossero fieri del suo coraggio.

«Sei riuscita ad avvicinarti a lei senza farti vedere e l’hai pure toccata!» ripeté eccitato Cade. «Cazzo, dobbiamo trovare Nathan! Non ci crederà mai!»
«Sei stata molto coraggiosa ed abile, se riuscirai più spesso a manipolare la Foschia come hai fatto ora sarai una nuova freccia al nostro arco.»
«Sì, sì, smettetela ora. Dobbiamo trovare gli altri, non perderci in chiacchiere inutili. Sono sicura che Cicno ed Úranus fossero dietro di noi quando ci siamo divisi e che Lea, Jonas e Nathan siano insieme.» tagliò corto Jane, uno strano calore le stava salendo alle guance e dopo aver visto il bambino arrossire di continuo non voleva entrare anche lei a far parte di quel gruppo.
Eliza annuì subito, sistemandosi con gesti secchi la camicia squarciata. «Dobbiamo andare avanti, l’accordo era trovarsi al gabbiotto.»
«Sì, ma Nathan è l’unico che sa combattere e ha due persone da proteggere, dovremmo cercare loro e dargli una mano piuttosto.»
«Puoi saltare sopra tutti, senza farti prendere dal raggio di luce, e individuarli? Credi sia possibile? Perché in caso contrario non abbiamo nessun modo per identificarli tra tutte queste genti.» gli fece notare Eliza, osservando con attenzione chi le stava attorno e come altri guerrieri sembravano quasi non vederli ora che avevano ricevuto la benedizione della guerriera araba.
«Jane, tu non puoi fare nulla?» domandò Cade ridestandola dai suoi pensieri.
La figlia di Ecate fece una smorfia. «Posso provare, ma non so se funzionerà e non so se lo farà come si deve. »
«Tu invece?» chiese Eliza guardando il compagno. «Potresti provare ad individuare gli altri come hai fatto per i tuoi oggetti nel labirinto?»
Cade ci pensò su e scosse piano le spalle. «Come la ragazza delle Praterie, posso provare ma non so se funzionerà e se lo farà bene. Se, Dio non voglia, hanno già incrociato qualcuno ed il loro odore è rimasto attaccato a questa persona, magari perché c’hanno combattuto, c’è rischio che vi porti da lui.»
«E di certo quell’idiota di un soldato si sarà buttato a capofitto nella prima rissa capitatagli, specie visto che non ha un’arma.» borbottò Jane. Poi, prima che Eliza potesse dire qualcosa a difesa del compagno, l’altra espirò con forza e si voltò verso Cade. «Non che ci siano molte altre possibilità, comunque. Proviamo così: io cercherò di trovare almeno la direzione in cui si trovano e tu, con il tuo fiuto da segugio o qualunque altra cosa sia, proverai ad individuarli i mezzo a tutte le anime. Cosa ne pensi?» chiese con serietà.
Cade la fissò pensieroso e lentamente un ghigno ampio gli si aprì sul volto.
«Suona come un piano.»
«Suona come un buon piano.» aggiunse Eliza con tono cupo. «Pensi di riuscirci? Per la prova di Ermes non sei riuscita ad individuare nessuno di noi. Allora avevi anche molta più tranquillità, il potere di mia madre-» domandò con un filo d’ansia, ricordando fin troppo bene i tentativi fallimentari di ritrovare proprio Cade.
«Perché c’erano anche i vostri ricordi, c’erano troppi voi. Non ho mai fatto una cosa del genere, non ho mai cercato qualcuno per le Praterie ma ora… c’è così tanta Foschia che impregna ancora questo luogo… e la Foschia fa parte del potere di mia madre e poi-»
 
Sono in pericolo. Sono tutti in pericolo. Lo era anche Cade ma era diverso, ora è diverso, è come se-
 
Non lo sapeva, non sapeva cosa ci fosse di diverso, cosa la spingesse a voler provare, a volerlo fare a tutti i costi. Forse era stato il combattimento appena vissuto, l’aver visto i suoi amici lottare contro qualcuno palesemente più forte e meglio addestrato di loro. Averli visti cadere a terra sanguinanti, feriti, doloranti senza che lei potesse far nulla.
 
Impotenza.
 
Jane non voleva più sentirsi impotente, non quando tanti dei suoi compagni erano dispersi, quando non erano in molti a cercare un singolo, ma poi a cercare la maggioranza.
Ecco, forse era proprio questo: quando era scomparso Cade c’erano tutti gli altri, c’era Úranus con il suo potere inquietante in grado di captare i dolori altrui, Lea pronta a curare ogni ferita, ogni mancamento, c’erano Eliza e Nathan pronti a pianificare, a prendere in mano la situazione e Jonas che cercava di trovar soluzioni lì dove non c’erano perché aveva paura di non rivedere più l’irlandese. Erano stati in tanti a condividere il peso della scomparsa di uno, a farlo assieme, in una situazione in cui Jane non si era sentita responsabile, in cui Jane sapeva di non aver colpe.
Anche se non ne avevano e non ne avrebbero mai avuto la conferma, in un qualche modo Jane era stata convinta, sicura come poche cose in vita sua, che Cade sarebbe tornato da loro, o che l’avrebbero ritrovato, anche solo per il semplice fatto che avevano  la sua sfera, come se un’anima dispersa e svanita non potesse aver una sfera dei ricordi ancora integra e funzionante, come se la scomparsa di uno fosse legata a doppio filo a quella dell’altra.
Jane lo sapeva che non c’erano pericoli se non i venti fantasma delle Praterie, ma lei era sopravvissuta per secoli in quelle lande, perché Cade non avrebbe dovuto fare lo stesso? Perché sarebbe dovuto sparire per sempre?
Non le era importato minimamente perché aveva la certezza assoluta che Cade sarebbe comunque tornato.
Ora, di quella certezza, non v’era più traccia alcuna.
Non era sicura che sarebbero arrivati tutti al traguardo sani e salvi, non era sicura che Nathan sarebbe stato in grado di proteggere contemporaneamente sia Lea che Jonas, non era minimamente convinta che Úranus non sarebbe andato nel panico mettendo in pericolo anche Cicno.
Dannazione, si stava preoccupando persino per lui e l’aveva incontrato da così poco!
Jane strinse le mani, conficcandosi le unghie scheggiate nei palmi e avvertendo il pizzicorio della pelle tirata.
Questa volta era diverso, anche se non sapeva spiegarsene il perché. Sapeva solo che i suoi compagni erano dispersi in quel marasma di anime e combattimenti e che loro, se si fossero impegnati al massimo, se avessero unito le forze, avrebbero potuto trovarli, aiutarli, portarli in salvo.
Fu con la stessa lentezza con cui la resina colava lungo gli alberi che Jane si rese conto di cosa avesse ripetuto più e più volte nella sua mente.

Protezione.
Certezza.
Aiuto.
Ritorno.
Compagni.
 
 
Amici.
 
 
Jane digrignò i denti e aprì a forza le mani.
Si sarebbe data della stupida dopo, ora doveva solo impegnarsi come non aveva mai fatto, come sua madre le aveva sempre detto esser certa potesse fare, unire le forze con Cade e ritrovare i loro compagni perduti.
 
«Questa volta non ho altra scelta che farcela.» disse con tono risoluto.
Eliza continuò a fissarla con quello che poteva essere scetticismo o solo inquietudine dettata dalla paura per gli altri, ma mentre la giovane donna le scrutava il volto per scorgere un qualunque segno di insicurezza una mano forte e callosa le si strinse sulla spalla.
Jane si voltò a guardare Cade che, a sua volta, la guardava con occhi scintillanti, questa volta la ragazza ne era sicura, d’entusiasmo e quasi orgoglio.
 
«Andiamo a riprenderci i pulcini e poi a cercare Golia e l’angioletto. Al tuo via, io sono pronto.»
 

Jane si ritrovò suo malgrado a rispondere al ghigno del compagno.
 


Quella fiducia incondizionata era tutto ciò di cui aveva bisogno.




 



 






 
 





 
 
 
 


 
Salve,
più di una persona mi ha fatto notare come questa storia sia arrivata a tre anni, una bella data, se me lo permettete, ma per quanto mi sorprenda dove e quanto lontano siamo arrivati, non posso far a meno di considerare il contorno che gira attorno a questa interattiva.
In tre anni molte cose capitano, molte cose cambiano, ci si interessa a qualcosa o si smette di provare interesse, perciò vorrei specificare qualcosa che, mi auguro, ognuno di voi già dia per scontato:
se doveste aver perso interesse per questa storia, se non vi piace dove stia andando a parare o come stia continuando, spero vivamente che non vi sentiate obbligati a continuare a seguirla.
Ve lo dico in tutta tranquillità e senza rancore: regà, so tre anni, ce sta che ve sete rotti il cazzo.
Personalmente, sono quel genere di persona che riesce ad emozionarsi per una cosa per poi annoiarsi nei successivi due minuti, perciò scialla.
Se siete preoccupati per la fine dei vostri oc, potete prendere per esempio Úranus e Cicno, loro hanno perso l’autrice letteralmente anni fa, fanno poco, la maggior parte della loro storia la sapete già e li uso come mi pare, ma posso tranquillamente farli uscire dalla storia senza “ucciderli”, basta dirlo.
Mi auguro non suoni in alcun modo accusatorio gente, perché non vuole esserlo. Efp è un sito dove passare bei momenti, intrattenersi e staccare la spina, non fatelo diventare un’agonia solo perché vi sentite in dovere di fare qualcosa.
Con ciò, ci vediamo alla prossima bella gente, e auguri in ritardo.
   
 
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