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Autore: Adeia Di Elferas    06/01/2022    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Cesare Borja aveva ancora lo stomaco sottosopra e si chiedeva come mai non arrivasse, dalla galea di suo padre, l'ordine preciso di scendere finalmente a terra, malgrado il mare stesse tornando a farsi agitato.

Quel viaggio, che doveva essere breve e meno pericoloso di una cavalcata via terra, si stava dimostrando una mezza tragedia. Si erano imbarcati il primo del mese, ed era già il 5 marzo e ancora non era giunti a destinazione. Quella notte, mentre cercavano di recuperare un po', una tempesta tremenda si era abbattuta su di loro e il Valentino aveva vomitato in continuazione, così come metà equipaggio. Aveva rimpianto moltissimo di non aver portato con sé Michelotto, rimasto a Piombino come Legato Generale, perché almeno lui, con il suo volto impassibile, avrebbe saputo rassicurarlo mentre la nave rollava senza tregua dando a tutti l'impressione che si dovesse rovesciare da un momento all'altro.

Adesso che il cielo cominciava a scurirsi di nuovo e le acque a muoversi, Cesare si malediceva per essere stato tra quelli che non avevano voluto per nessun motivo tornare verso Piombino, dopo la prima mareggiata, ostinandosi a raggiungere Corneto via mare. Avevano finito per restare bloccati al largo di Porto Ercole per un giorno intero. Lì avevano trovato una nave inglese, una di quelle agili, piccole e veloci, e il Duca di Valentinois aveva già preso un mezzo accordo col Capitano, per farsi portare a Corneto con quella, invece che con le imponenti e poco maneggevoli galee volute dal papa, ma ovviamente Alessandro VI si era opposto.

Ora, dopo essere ripartiti, si trovavano ormai abbastanza lontani da Porto Ercole, ma non ancora in vista di Corneto, e il tempo instabile minacciava di farli affondare ben prima di poter arrivare a destinazione.

Per il momento, l'unico ordine arrivato dal pontefice era stato quello di fermarsi. Il figlio avrebbe voluto o tornare indietro, o poter sbarcare, ma pareva che una tattica attendista fosse quella prescelta da Rodrigo, e nessuno osava mettersi contro il volere pontificio.

Era da poco passato il mezzogiorno e se qualcuno tra i marinai più navigati iniziava a proporre di mangiare qualcosa, Cesare non doveva nemmeno pensare al cubo, se non voleva tornare a dar di stomaco. Aggrappato con entrambe le mani al parapetto, scrutava il cielo sempre più nero. Il vento gli scompigliava i capelli portati lunghi e l'odore pungente del sale si mescolava a quello più dolce, ma pericoloso, della pioggia. 'Di certo – pensava il Valentino – non lontano da qui sta già diluviando.'

“Se voi volete rimanere a bordo per paura di quello che potrebbe dire o fare mio padre – fece a un certo punto il Duca, rivolgendosi in modo generico a tutto l'equipaggio – non mi interessa. Voglio che mi prepariate una barchetta: raggiungerò subito la costa.”

Mentre qualcuno si affrettava a fare com'era stato richiesto, e qualcun altro non alzava un dito, temendo di contrariare il papa anche solo pensando di aiutare Cesare, il Valentino cominciò a fissare con intensità crescente la costa. Era vicina, ma non vicinissima: non aveva più tempo da perdere, doveva a tutti i costi scendere da quella galea prima che iniziasse la tempesta.

“E poi cosa farete?” gli chiese uno dei marinai che non aveva avuto il coraggio di prendere parte attiva alla richiesta del Valentino.

Cesare non aveva pensato alla seconda parte del suo piano, tuttavia rispose con molta prontezza, come se avesse ben chiaro un programma: “Comprerò un cavallo... Anzi, uno per me e uno per chi mi seguirà, e andrò così a Corneto via terra.”

“Chi Dio v'assista.” commentò il marinaio, sollevando un sopracciglio.

Cesare, scansandosi di malagrazia i capelli dal viso, combattendo inutilmente contro le folate di vento sempre più forti e fredde, ribatté: “Che Dio assista voi, povero sprovveduto!”

 

“Come mai sei qui?” chiese Caterina, quando si vide arrivare dinnanzi Francesco Fortunati.

Aveva sentito un po' di subbuglio al piano di sotto, ma aveva creduto che fosse colpa di Bernardino, che, ultimamente, era tornato a essere molto turbolento e più di una volta era finito ad accapigliarsi con qualche servo. Solo quando aveva sentito dei passi alle sua spalle aveva distolto l'attenzione dalla lettera che stava leggendo e aveva capito che l'oggetto di tanta confusione era il piovano.

“Non sei felice di vedermi?” domandò di rimando lui, senza la traccia di un sorriso.

L'espressione greve dell'uomo confermò la primissima impressione della Tigre, ossia che fosse lì per un motivo preciso e che non si trattasse di nulla di piacevole.

Francesco sembrava indeciso su come affrontare la questione, e la donna, ancora seduta al suo posto, cominciava a trovare irritante la sua reticenza. Aveva avuto voglia di rivederlo, troppa, forse, e anche quella notte, mentre era coricata, in silenzio, da sola, aveva pensato a lui chiedendosi se mai avrebbe accettato la sua proposta, ossia di essere per lei non solo un amico e un sostegno, ma anche un amante. Capiva le sue reticenze, ma più il tempo passava, più il suo silenzio a riguardo la tormentava.

“Sei andata nel bosco?” chiese alla fine Fortunati, evitando di guardarla in modo troppo diretto.

La Leonessa, istintivamente, si sfiorò le labbra con la punta delle dita, laddove fino a un paio di giorni prima era molto visibile il piccolo taglio che si era fatta cadendo mentre correva tra gli alberi, la buio: “Che stai dicendo?” domandò, fingendosi sorpresa.

Francesco aveva aspettato qualche giorno, prima di andare a Castello, sia per capire se l'informazione suggerita da Bianca nella sua ultima lettera fosse vera, sia per far sbollire un momento la rabbia. Gli sembrava impossibile che una donna intelligente come Caterina avesse potuto fare un azzardo simile. Per cosa, poi? Una passeggiata notturna?

“Ci sei andata.” fece lui, secco, trovando finalmente il coraggio di fissarla, senza lasciarsi deconcentrare dall'abito da camera che indossava, che, nella tenue luce di quell'inizio di marzo, sembrava solo un sottilissimo velo.

“Io...” cominciò a dire la Sforza, accigliata, incapace, ormai, di negare l'evidenza.

Non sapeva dire chi avesse potuto informarlo, eppure di certo qualcuno l'aveva fatto. Forse, pensò, non era vero che la servitù dormiva, quella notte, forse qualcuno l'aveva vista e magari addirittura e lei, che un tempo se ne sarebbe accorta subito, stavolta non si era avveduta di nulla... Era davvero diventata tanto vecchia e lenta nell'accorgersi delle cose che la circondavano..?

“Ma sei impazzita?!” sbottò il piovano, facendola sobbalzare: “Ma cosa ti è saltato in mente?! Ma hai pensato a quello che poteva capitare?! Non hai minimamente pensato che qualcuno avrebbe potuto dirlo a Lorenzo o ai francesi e...”

“Qualcuno l'ha detto. A te.” lo zittì la donna, con voce bassa, ma ferma.

“E la tua fortuna è che chi ti ha vista è dalla tua parte e non ti tradirebbe mai!” la incalzò Francesco, deciso a non rivelare la sua fonte: “Ma capisci che hai preso un rischio non commisurato a ciò che hai ottenuto?”

“Io non ce la facevo più.” si difese la Tigre, deglutendo rumorosamente.

“Ma...” cominciò a dire Fortunati.

“Io ho bisogno di tante cose, Francesco.” riprese subito la milanese: “Io ho bisogno di stare all'aperto, di cacciare, di cavalcare, di correre... Ho bisogno di non pensare a quello che ho perso e a tutto quello che ho sofferto nella mia vita. Ho bisogno di stare da sola e ragionare, e allo stesso tempo ho bisogno di avere qualcuno accanto che mi distragga. Ho bisogno...”

Il piovano stava per dire qualcosa, ma la sua lingua era impaniata e non sapeva come reagire a quell'apertura della Sforza. Era come un fiume in piena e non sapeva come arginarla, anzi, non voleva arginarla...

“Ho bisogno di un uomo.” concluse Caterina, allargando un po' le braccia, il volto che prendeva colore e gli occhi verdi che di colpo sfuggivano a quelli di Fortunati, mostrando un tipo di imbarazzo che in lei era sempre stato raro: “Quella notte ero molto confusa e addolorata per... Per quello che ho letto in una lettera, ma... Ma soprattutto non sapevo come calmarmi. È... È difficile con la vita che ho fatto... Io... Non sono mai stata brava a restare da sola, dopo che è morto il mio Giacomo.”

Francesco, non aspettandosi di vederla affrontare quell'argomento in quel frangente, si fece scuro in volto e mormorò: “Immagino che non sia facile, ma...”

“Io ho cercato di...” iniziò a dire lei, alzandosi e avvicinandosi al piovano, scuotendo il capo: “Io ho cercato una soluzione che... Che non fosse distruttiva come quelle a cui sono ricorsa a volte quando vivevo a Ravaldino. Ho pensato che con un uomo che mi conoscesse e di cui mi fidavo...”

Il fiorentino schiuse un po' le labbra, sentendosi chiamato in causa. Sapeva benissimo di aver chiesto tempo alla Leonessa senza dire apertamente di no, e sapeva anche che ormai quell'attesa si era fatta molto lunga, ma ancora non sapeva cosa rispondere.

“Io...” provò a dire Francesco, gli occhi che scendevano verso le labbra della donna, senza riuscire a sostenerne lo sguardo: “Io ho pregato molto, in queste settimane, ho... Ho fatto un esame alla mia coscienza per capire se...”

“Tutte storie.” soffiò Caterina, prendendosi per un istante le tempie: “Se non mi vuoi, dimmelo e sia finita qui. Se solo Baccino non fosse ancora a Roma...”

“Io non so nemmeno da che parte prendere.” si espose alla fine Fortunati, spronato dal sentir nominare il cremonese, che, lo sapeva bene, era stato un amante della Leonessa a Forlì: “Io ho paura di deluderti... Non credo di essere all'altezza delle tue aspettative.”

“E allora mi stai dicendo che mi conviene davvero aspettare Baccino? Dunque scrivi a mio cugino Raffaele: non mi interessa se così il papa capirà quanto è importante Baccino per me, io voglio qualcuno che mi stia vicino, non solo come un amico e non solo con le parole.” disse in fretta la Sforza, stringendo poi i denti, con una certa aggressività.

“Raffaele gli ha trovato un lavoro presso un prelato... Vuoi davvero rischiare di metterlo nei guai chiamandolo qui?” cercò di farla ragionare il piovano.

Confusa da se stessa e dall'insoddisfazione che sentiva crescere dentro di lei, Caterina spense per un istante il cervello e, afferrando un lembo dell'abito scuro del fiorentino, lo tirò a sé e lo baciò.

Quella volta, rispetto alla prima, l'uomo si fece trovare meno rigido e meno sorpreso. La pressione delle labbra calde della Leonessa sulle sue gli parve meno estranea. Con lentezza, seguendo il movimento che faceva lei, le aprì un po', lasciando che lei lo guidasse. Proprio quando stava cominciando a capire quello strano gioco, la donna si ritrasse, quasi si fosse scottata.

“O è sì o è no.” gli disse, con una freddezza che stonava con i suoi occhi arrossati e il fremito che aveva avuto nel baciarlo: “Io di pazienza non ne ho più.”

Fortunati, imbambolato, la guardava senza dire nulla. Era un uomo di bell'aspetto, maturo, con addirittura qualche anno in più sulle spalle rispetto a lei, ma in quel momento in lui non vedeva nulla di diverso da uno di quei soldati più giovani a cui, qualche anno prima, aveva regalato i primi brividi della conquista.

“Adesso lasciami sola. Stasera, dopo cena, mi darai la tua risposta.” concluse, senza lasciar spazio a ulteriori recriminazioni: “Se ancora non saprai cosa dirmi, allora ti consiglio di tornare a Cascina e rimanerci. Possiamo continuare a essere amici, ma non voglio più averti qui, o soffrirei ancora di più, sapendo che non sarai mai mio.”

Francesco abbassò lo sguardo e poi, senza aspettare di essere congedato formalmente, andò alla porta e si allontanò senza dire nulla. Raggiunse la stanza che usava sempre quando si fermava alla villa e si sedette sul letto, in uno stato di profonda confusione.

I suoi bagagli, per quanto poco voluminosi, dovevano essere ancora all'ingresso, e temeva che qualche servo troppo solerte li portasse lì da un momento all'altro, interrompendo il filo dei suoi silenziosi ragionamenti. Lasciò quindi passare qualche minuto, prima di immergersi nei suoi tormenti privati, ma, vedendo che non arrivava nessuno, si spazientì e si alzò di scatto.

Scalciando il suo abito scuro a ogni passo, andò fino al portone, dove trovò il suo bagaglio, rimasto immoto nell'indifferenza generale. Lo afferrò, con un gesto brusco, e tornò sui suoi passi. Si accorse solo in un secondo momento della presenza, un po' nascosta in un angolo, di Bernardino.

Troppo desideroso di restare solo con i suoi pensieri, nel notare come il ragazzino stesse facendo un mezzo passo verso di lui, forse per chiedergli qualcosa o indurlo a far due parole, il piovano sollevò una mano, per frenarlo, e disse, lapidario: “Messer Carlo, non vi pare che a quest'ora dovreste essere sui libri a studiare o, al massimo, con vostro fratello Galeazzo a fare esercizio?”

Quel tono, ruvido, severo e allo stesso tempo molto sbrigativo, lasciò interdetto il piccolo Feo, che, per altro, non era avvezzo a sentirsi chiamare 'Carlo' anche da Fortunati che, di norma, oltre a sua madre e ai suoi fratelli, era l'unico a usare ancora il suo primo nome, ossia Bernardino, nel rivolgersi a lui.

Così, mentre Francesco tornava verso la sua stanza a passo di marcia, al Feo non restò che fissarlo per qualche istante ancora, chiedendosi il perché di una simile freddezza, e poi fare spallucce e tornare alla proprie occupazioni.

Il piovano, invece, stava raggiungendo la sua destinazione con una crescente sensazione di panico, che gli offuscava la vista e gli chiudeva le orecchie. Com'era possibile che fosse tornato a Castello per rimproverare Caterina, su imboccata di Bianca, e avesse finito per trovarsi in quello stato di prostrazione davanti a un ultimatum che non si era atteso di sentirsi fare? O meglio, un ultimatum che aveva creduto di poter posticipare ancora...

Finalmente di nuovo solo, gettò il suo bagaglio in terra e tornò a sedersi sul letto. Aveva le mani sudate e la bocca secca. Cercò di essere il più possibile razionale. Ammise con se stesso, innanzitutto, un fatto molto semplice: quello della Tigre non era amore nei suoi confronti, ma solo desiderio. E, volle precisare con se stesso, non era nemmeno un desiderio cocente nei suoi confronti, ma il desiderio, generico, per quanto bruciante, per un uomo in generale. Era solo un caso fortuito che lui incarnasse determinate caratteristiche che la Sforza riteneva, in quel frangente, utili e necessarie in un amante.

Tanto per cominciare, per lei Francesco aveva un bell'aspetto, questo glielo aveva detto molto chiaramente in più di un'occasione. Era un uomo affabile e non aggressivo, anzi 'inoffensivo' era il termine più corretto, e dunque faceva al suo caso, volendosi lei dimenticare della violenza e dell'arroganza del Valentino.

In più, era inesperto, e questo faceva di lui una preda gradevole, per lei, il piovano lo sapeva. Si ricordava bene il modo in cui, in certe confessioni, anni prima, Caterina si era persa a dire quanto fosse stato importante per lei il fatto di essere stata la prima e unica donna di Giacomo Feo, per esempio. E Fortunati sapeva anche, per via dei pettegolezzi e anche di qualche testimonianza diretta, che la Leonessa nei periodi di peregrina vedovanza, ci avesse preso gusto, a iniziare i soldati più giovani ai piaceri della carne.

La sola idea fece scuotere il capo a Francesco che, non sentendosi più un ragazzino, e non potendo ambire a essere messo su un piedistallo com'era accaduto al Feo, si sentiva tremendamente inadeguato.

Chiuse gli occhi, giungendo le mani con forza, come se stesse pregando. Lasciò la sua mente libera di immaginare e si spinse in territori che aveva sempre cercato di evitare. Si sentiva in colpa per l'attrazione feroce che provava nei confronti della Tigre e si sentiva anche peggio sapendo che lei non avrebbe mai ricambiato appieno l'amore che lui nutriva nei suoi confronti ormai da anni.

Eppure, la sola idea di trovarsi stretto a lei sotto le lenzuola, o ovunque lei volesse, di poterla baciare, di imparare tutto quello che lei avrebbe voluto insegnargli, di legarsi a lei in modo indissolubile, di vivere il tempo che Dio gli avrebbe ancora concesso nella devozione assoluta per lei, non più solo donna da stimare e proteggere, ma anche da amare, ecco, tutto ciò lo rendeva cieco davanti al resto. Non c'era remora morale, non c'era sacro voto o solenne giuramento che potesse frapporsi tra lui e quello che voleva.

Con il respiro affannoso, confuso e perso, dopo quarant'anni passati seguendo una via ben definita, fatta di rinunce, castighi e mortificazioni dei propri bisogni, Francesco si alzò dal letto e andò all'inginocchiatoio. Cominciò a pregare, a voce bassa, alzandola appena ogni volta in cui gli sembrava di perdere il filo della preghiera e riprendere quello dell'immaginazione, che lo voleva già felice amante della sua Tigre.

Più sciorinava invocazioni sacre, più vedeva il suo volto, più stringeva le mani l'una nell'altra, più immaginava di stringerle il seno e i fianchi, più sussurrava le sue richieste di perdono a Dio, più poteva sentire lei sussurragli all'orecchio parole complici e colme di passione.

Sciogliendosi in un pianto dirotto, manifestazione del caos infernale che regnava nella sua anima, Fortunati si accartocciò su se stesso, le mani ancora giunte, e si impose di non alzarsi dall'inginocchiatoio finché non avesse preso una decisione, e, quale che fosse, l'avrebbe seguita senza più tormentarsi sulle conseguenze, sia che si trattasse della dannazione eterna e dell'infangare i voti presi da ragazzino, sia che si trattasse di perdere per sempre l'unica donna che avesse mai amato.

 

“Ma che sta...” le parole uscirono dalle labbra strette del papa come un sussurro appena udibile.

Le sue grosse mani erano strette a pugno e i suoi occhi, per quanto non più acuti come un tempo, puntavano dritti verso la barchetta che stava portando suo figlio Cesare – impossibile non riconoscerlo, con il suo ridicolo cappello pieno di piume che quasi prendeva il volo, col vento che c'era – e uno sparuto gruppo di accompagnatori verso la costa.

“Forse dovremmo attraccare tutti...” provò a consigliare il timoniere, avvicinandosi di soppiatto al papa.

“Forse avete sbagliato a imbarcarvi su questa galea, se vi spaventano due gocce di pioggia e qualche ondina!” sbottò il Santo Padre, riversando la rabbia che provava verso il figlio sul marinaio.

Il timoniere non osò dire altro, tornando al suo posto e così Alessandro VI fu libero di provare a sbollire in solitudine. Era vero, il cielo era nero e prometteva una guerra simile a quella che avevano già affrontato nella notte. Cesare, però, doveva dare il buon esempio e restare a bordo. Quelle navi erano robuste e di comprovata sicurezza: non sarebbero affondate per un temporale!

L'occhio del pontefice continuava a correre al Valentino, sempre più vicino alla salvezza. Il modo in cui la barchetta con cui suo figlio stava raggiungendo la costa oscillava a ogni onda, però, cominciava a metterlo in allarme.

Quella notte, mentre tutti stavano male per la tempesta, lui aveva riso e bestemmiato a gran voce, prendendosi gioco degli altri al solo scopo di esorcizzare la sua stessa paura. Adesso, che era giorno e che il pericolo era davvero visibile e imminente, tutta la sua tracotanza rischiava di venir meno.

Aveva forse visto giusto Cesare? Forse non era un eccesso di prudenza o vigliaccheria, la sua, forse aveva davvero avuto l'intuizione giusta...

Il vento continuava a soffiare e il cielo aveva perso le poche striature bianche e azzurre che mitigavano la minacciosità dei nuvoloni neri. Il vento soffiava impetuoso e ormai la galea iniziava a muoversi sempre di più, dando una leggera nausea al Borja.

Quando Rodrigo sentì le prime gocce di pioggia colpirgli il viso e intravide un paio di marinai farsi il segno della croce, un brivido lo percorse da capo a piedi e lo portò a muoversi veloce verso il timoniere.

Cercando di non suonare troppo spaventato, il pontefice sbuffò, a voce bassa, quasi che fare quella proposta gli paresse ridicolo, ma, da buon padre, la stesse facendo a beneficio del figlio: “Forse non dovrei lasciare che il Duca di Valentinois vada da solo a terra... Che dite, si potrebbe organizzare una barchetta per me e qualche mio accompagnatore..?”

Il timoniere, gli occhi fissi al cielo e il viso cotto dal sole contratto in un'espressione ansiosa, scosse subito il capo e ribatté, secco: “Ormai è tardi. Se prenderete una barca adesso, dovranno indire un conclave già domani!”

Rodrigo si fece platealmente il segno della croce e, mostrandosi indignato, sbottò: “Ma come vi permettete!”

“Da quello che so, nemmeno i papi sanno respirare sott'acqua!” insistette il timoniere, con tono di sfida: “Vostro figlio ha colto l'ultimo momento utile. Adesso possiamo solo pregare.”

Alessandro VI divenne d'alabastro. La pappagorgia era l'unica cosa di lui, oltre ai pochi capelli scompigliati dal vento, a tremolare appena. Sulla sua fronte si andavano a mescolare in egual misura le gocce di pioggia e quelle di sudore freddo. Le sue grosse mani erano come addormentate e, quando la galea diede uno scossone più forte degli altri, fecero fatica ad aprirsi e afferrare il parapetto per impedirgli di cadere.

Come se stesse rispondendo a un ordine silenzioso di una qualche antica divinità, il mare si fece impetuoso, sollevando onde che biancheggiavano e scrosciavano, alzandosi repentinamente e dando l'impressione di voler travolgere e risucchiare il papa e tutte le sue navi.

Sotto lo sguardo attonito di Rodrigo, tutto l'equipaggio si coricò sul ponte, usando una tecnica che gli uomini di mare rispolveravano solo in caso di concreto pericolo. Mentre li osservava, il Borja si sentì perduto e cominciò a interrogarsi su quanto stesse accadendo. Era stato forse troppo arrogante, a voler farsi beffa delle intemperanze di Nettuno? Il potente Dio degli Abissi l'avrebbe perdonato, per la sua vanagloria?

Un altro rollio della galea lo fece quasi cadere in terra, ma l'uomo rimase impassibile. Se sfidato, fosse anche da Nettuno in persona, non riusciva a sottrarsi e doveva primeggiare, a ogni costo.

Così, incurante del panico crescente dell'equipaggio, raggiunse la sua residenza di poppa e si sedette sullo scranno che gli pareva più solido. Rimase a quel modo per oltre un'ora, ascoltando il frastuono della tempesta e sussultando a ogni movimento brusco dell'imbarcazione.

Dato che la situazione non migliorava, il pontefice decise di osare ancora di più. Voleva essere visto, voleva che tutti potessero raccontare di come lui, alla veneranda età di settantun anni, fosse ancora il più forte e coraggioso tra gli uomini.

Raggiunse di nuovo il ponte, alzando la voce, facendo come se la pioggia non lo stesse infradiciando, gridò: “Jesus!” e si fece il segno della croce, arrischiandosi a non reggersi a nessun sostegno per qualche secondo.

Molti dei marinai lo stavano fissando, sconvolti nel vederlo tanto calmo in un momento del genere.

“Mezzogiorno è passato da tempo!” constatò, fingendosi molto irritato: “E io non ho ancora pranzato! Pretendo che mi si prepari qualcosa immediatamente!”

Il silenzio sbigottito dei presenti era reso ancor più plateale dal fracasso della tempesta. Alessandro VI sapeva di aver colpito nel segno e così decise di insistere.

“Ho detto che ho fame! Dove sono i cucinieri? Cosa vi pago a fare, se non siete nemmeno in grado di servirmi un pranzo come si deve all'ora giusta?!” gridò.

“Ma Vostra Santità – intervenne uno degli uomini del suo seguito personale, steso in terra poco lontano da lui – queste onde e questo vento...”

“Quali onde? Quale vento?!” poi, facendo come se si accorgesse solo in quel momento dell'infuriare della natura, rise, forte, in modo volgare, ed esclamò: “Queste onde? Questo vento? O non sapete di cosa parlate, o sono tutte scuse per non cucinare! Da giovane ho affrontato delle vere tempeste in mare e questa è poco più di un po' di maretta!”

“Vostra Santità – riprovò allora l'altro, cercando una scusa che non prestasse il fianco ad altre battute da parte del papa – stavo dicendo che con queste onde e questo vento non possiamo accendere i fuochi per farvi da mangiare... Si spegnerebbero.”

Con un cenno benevolo della mano, Rodrigo abbozzò un sorriso e concesse, ben felice di non dover davvero mangiare, data la nausea crescente che lo stava prendendo: “Sia come dite voi, ma appena questo vento e queste onde cesseranno, desidero mangiare un'abbondante frittura di pesce. E ora lasciatemi andare nei miei alloggi, voglio far sì che questo tempo che perdo per causa vostra sia produttivo.” e, detto ciò, tornò nei suoi appartamenti di poppa e, lontano da occhi indiscreti, lasciò da parte l'orgoglio di poco prima: tenendosi la pancia, in cui si stava scatenando una tempesta simile a quella marittima, si mise a pregare con tutto se stesso, un po' verso Dio e un po' verso quel Nettuno che fino a poco prima aveva deriso e sfidato come un ragazzino.

 

Caterina aveva passato il pomeriggio in ansia. Anche se aveva cercato di non pensare troppo a Fortunati, che si era chiuso in stanza e non ne era ancora uscito, in realtà aveva finito per tormentarsi continuamente ragionando su come le avrebbe risposto.

C'era, ovviamente, la possibilità che prendesse ancora tempo, senza risponderle. Anche se lei gli aveva lanciato un preciso ultimatum, di fatto sapeva di non avere armi per costringere davvero Francesco a dirle subito se avesse o meno accettato di diventare il suo amante. Se solo fosse stata ancora la signora di Forlì, si diceva, avrebbe avuto più potere. Anche in quel caso, però, non sapeva dire come si sarebbe mossa, in caso di bisogno.

C'era, poi, la possibilità, che lei temeva essere molto concreta, che il piovano alla fine le opponesse un netto rifiuto. Negli anni aveva potuto conoscerlo abbastanza bene e sapeva quanto valesse per lui il suo ruolo religioso e quanto credesse nei voti che aveva preso da giovane. Anzi, quella consapevolezza la faceva sentire in colpa per avergli anche solo chiesto di pensarci. Si sentiva come un diavolo tentatore arrivato nella vita di Francesco al solo scopo di indurlo in tentazione e condannarlo alla dannazione eterna.

Infine c'era la possibilità che le dicesse di sì.

Verso sera, prima di ritirarsi per cambiarsi in vista della cena, la Tigre aveva passato un po' di tempo con Bianca. Sua figlia sembrava avere bisogno della sua presenza e così lei non le si negava, tuttavia quella volta, malgrado la Riario volesse fare conversazione, la Sforza non riusciva a seguire nessun discorso e aveva finito per far scena muta per buona parte del tempo.

Mentre Bianca si interrogava sul figlio che portava sicuramente in grembo, Caterina si chiedeva cosa sarebbe successo esattamente se Fortunati avesse detto di sì.

Mentre la giovane si domandava a voce alta quando Astorre sarebbe morto, lasciandola libera di sposare il suo Troilo, la madre si lasciava prendere dai dubbi, figurandosi un forte imbarazzo, tra lei e il piovano, tanto forte da impedire a entrambi di dare forma al loro desiderio.

Mentre la Riario sospirava per la nausea di quel mattino e borbottava qualcosa su quanto le mancasse l'emiliano, la Leonessa si immaginava che, invece dell'imbarazzo, tra lei e Francesco si accendesse subito la passione, facendole scoprire un uomo diverso da quello che aveva sempre conosciuto, arrivando perfino a spaventarla...

Alla fine era stata Bianca a rendersi conto che la milanese non aveva voglia di ascoltarla e così, con gentilezza, aveva detto di dover andare in camera sua per sistemarsi, e l'aveva così liberata dalla sua presenza. Caterina ne era stata sollevata, da un lato, ma dall'altro il restare sola l'aveva gettata ancor più nell'agitazione.

Era arrivata così all'ora di cena tesa come la corda di un arco, indecisa su cosa volesse davvero: da un lato voleva a tutti i costi che Fortunati cedesse e si lasciasse sedurre da lei, dall'altro voleva visceralmente che la respingesse, lasciando intatta l'aura di santità che lo circondava.

Mentre si recava nel salone, con un largo anticipo, riportava l'immagine dell'uomo alla sua mente e a tratti lo vedeva illuminato da una luce calma, il viso pio e i due occhi buoni colmi di affetto puro e senza malizia, mentre a tratti lo vedeva fatto di carne e sangue, virile come un soldato, malgrado i modi ingentiliti dalla sua professione, gli occhi vivi e accesi di desiderio.

Arrivata alla tavola, già pronta, Caterina diede un paio di disposizione alla cameriera che era di servizio, affinché portasse il vino migliore che avevano in cantina. Quale che fosse stato l'epilogo di quella serata, la Tigre era convinta che qualche buon calice non avrebbe fatto altro che giovarle.

Quando sentì dei passi alle sue spalle, la donna si voltò subito, riconoscendo il passo leggero del piovano.

Francesco temeva le mani strette l'una nell'altra e si mordeva il labbro. Quell'atteggiamento fece capire subito alla Leonessa che, nel bene o nel male, l'uomo aveva preso la sua decisione.

Infatti, quasi a voler confermare subito la sua intuizione, il piovano, assicuratosi che non vi fosse nessuno, sussurrò: “Posso darti la mia risposta.”

Con il cuore che batteva veloce, la Sforza soffiò: “Va bene, ti ascolto.”

“Sì.” ribatté lui, appena udibile.

Senza riuscire a trattenersi, agitata e felice allo stesso tempo, la Tigre chiese: “Davvero? Ne sei sicuro?”

“Sì.” ripeté lui, con più convinzione.

“Quando?” quella domanda era scivolata fuori dalle labbra di Caterina prima che potesse fermarla.

Calcolando tutto il contesto, le sembrava troppo indelicato chiedere così apertamente quando il piovano avesse intenzione, finalmente, di dividere il letto con lei, ma, contro ogni aspettativa, Francesco non parve troppo turbato da quella fretta.

“Anche stanotte, se vuoi.” le disse, allargando appena le spalle, ma guardandola incerto, come se ancora non si capacitasse del fatto di essere degno del suo interesse.

“Stanotte? Veramente?” la Sforza avrebbe voluto mostrarsi meno euforica, più misurata, ma quella prospettiva la stava accedendo come una torcia e non riusciva a dominarsi.

Fortunati annuì, senza più parlare. Era giunto a quella conclusione dopo un pomeriggio soffertissimo di preghiere e incertezze e adesso gli sembrava stupido frapporre altri indugi. Se solo avesse lasciato passare un'altra notte, forse, avrebbe perso quella determinazione e avrebbe cambiato idea, e ormai non voleva più cambiare idea, per nessun motivo.

Senza riuscire a trattenersi, Caterina gli diede un leggero baciò sulle labbra e, sentendolo ancora molto titubante, gli sussurrò all'orecchio: “Stai tranquillo, ci penso io a te.”

La dolcezza con cui disse quelle poche parole ebbe il potere di calmare davvero Francesco che, quando la donna lo baciò di nuovo, si lasciò guidare per qualche istante, incurante del rischio che qualcuno potesse arrivare e vederli a quel modo.

Si erano appena separati, quando sulla porta del salone si profilò Bianca. Era distratta e non era certa di quello che aveva visto. Le era parso di scorgere la madre e il piovano abbracciati, forse perfino intenti a baciarsi, ma la sola idea le risultava ridicola, anzi, proprio impossibile. Se al posto di Fortunati ci fosse stato uno qualsiasi di tutti gli uomini che la Tigre aveva bazzicato, la Riario non avrebbe dubitato un istante della veridicità dell'impressione avuta... Ma Francesco era per lei al di là di ogni sospetto.

“Buonasera Madonna Bianca...” la salutò subito il piovano: “Stavo giusto dicendo a vostra madre che Luigi Ciocca, uomo di fiducia della Marchesa di Mantova, mi ha fatto sapere di essere appieno dalla sua parte e che come lui molti altri, vedendo come sia sopravvissuta al Valentino, la stiano prendendo come punto di riferimento...”

La Riario, un po' perplessa dall'allegria con cui l'uomo le stava parlando, fece un paio di domande di cortesia, continuando a studiare la madre e il piovano, cercando di capire se, forse, si fosse sbagliata sull'incrollabile e ben nota castità di Fortunati.

Alla fine si trovò a pensare che, quale che fosse la realtà dei fatti, non stava a lei giudicare, soprattutto calcolando che la Tigre non aveva giudicato lei e, anzi, l'aveva aiutata nel vivere quel poco tempo che, per ora, le era stato concesso di passare con il suo Troilo.

La giovane si stava per perdere in altre valutazioni su Francesco come amante, in fondo, molto desiderabile per sua madre – era equilibrato, pacato e gentile, molto più solido di tanti altri uomini che le erano piaciuti in passato – quando il piovano citò per caso Filippo De Rossi, cugino di Troilo.

Caterina fu lieta di vedere come la figlia venisse catturata dal dialogo con Fortunati, che, raccontandole delle mire di Filippo De Rossi su San Secondo, aveva spostato definitivamente la sua attenzione altrove. Non aveva voglia, infatti, di fare conversazione e, con quell'improvviso virare sulle vicende degli emiliani, lei si sentiva in diritto di estraniarsi per un po'.

Sedendosi a tavola, la Leonessa attese che arrivasse anche il resto della famiglia e, quando furono tutti riuniti, accettò di buon grado tutto quello che le veniva messo nel piatto. Assaporò come non le capitava da anni il vino che le venne versato nel calice e, per la prima volta da tantissimo tempo, si trovò a guardare soprappensiero il volto di un uomo, Francesco, in attesa trepidante che la cena finisse e che finalmente arrivasse la notte.

 

   
 
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