Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
Segui la storia  |       
Autore: Bethan__    08/01/2022    1 recensioni
Doveva essere grata per molte cose, cercava di ricordarlo a se stessa ogni giorno. Aveva perso tanto ma qualcosa le era anche stato dato. Non erano tante le cose che rimanevano a chi faceva parte del corpo di ricerca, né particolarmente numerose erano le persone che riuscivano a rimanere vive abbastanza a lungo da costruire dei legami significativi. A lei era stato concesso molto più di quello che era stato concesso a tanti dei suoi compagni.
Genere: Azione, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Levi Ackerman, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Priorità


Far parte del corpo di ricerca significava abituarsi a strane dilatazioni del tempo. C’erano giorni in cui le ore sembravano dilungarsi all’infinito, minuti che si estendevano fino a diventare delle ore. Altri e molto più frequenti erano i giorni in cui il tempo scorreva implacabile e tutto sembrava scivolare via con una rapidità disarmante.
Quello era uno dei giorni appartenenti alla seconda categoria. Lea era seduta sul proprio letto, il dispositivo di manovra tridimensionale lucidato alla perfezione come prima di ogni spedizione esplorativa, un rituale che serviva a calmarla. Era il prima, il problema. Una volta fuori dai cancelli l’adrenalina e l’istinto di sopravvivenza prendevano il sopravvento, non sperimentava esitazione, non lasciava al suo cervello l’opportunità di elaborare quello che era costretto ad affrontare. C’era tempo per lasciare spazio all’emotività, agli incubi. Dopo.
Lo sguardo le cadde su uno dei letti dall’altra parte della stanza e la presa attorno al dispositivo di manovra si fece più salda.
Quanto mi manchi. 
“Il capitano ci vuole in sella tra dieci minuti”, una voce familiare interruppe bruscamente il flusso dei suoi pensieri, un attimo prima che gli occhi le si riempissero di lacrime.
“Sì, arrivo”, rispose senza voltarsi, sbattendo le palpebre un paio di volte. La gola le faceva un gran male.
Il ragazzo indugiò sulla soglia per qualche secondo prima di entrare nel dormitorio e lasciarsi cadere accanto a lei.
“Oggi non dovremmo spingerci troppo lontano”, disse con studiata noncuranza.
“Non è un problema”.
Lui le diede una piccola spinta con la spalla.
“Hai paura che stavolta tocchi a me?”.
Lea sollevò lo sguardo di scatto e rispose alla spinta in maniera molto meno giocosa.
“Non dirlo mai più, Klaus. I giganti non possono prenderti a calci, io sì”.
Il ragazzo sorrise, passandole un braccio attorno alle spalle e tenendola stretta contro il suo corpo. Non lo avrebbe mai ammesso ma ne aveva bisogno più di lei.
“Tu però non puoi ingerirmi”.
Lea emise un suono strozzato.
“Smettila”, mormorò, senza riuscire a impedire che la voce le si incrinasse. Lui la strinse più forte.
“Sto scherzando. Ci vedremo a cena come ogni sera, così potrò raccontarti delle mie pene d’amore e tu potrai raccontarmi delle tue”.
“Io non ho pene d’amore e neanche tu, a giudicare dai suoni che sfortunatamente ho sentito provenire dalle cucine ieri notte. E quella prima. E quella prima ancora”.
Klaus tossì, imbarazzato.
“Perché sei in giro a quell’ora?”.
“Non riesco a dormire e ogni volta spero di potermi fare un tè per conciliare il sonno ma tu lo rendi estremamente difficile”, rispose lei, il viso accartocciato in una finta smorfia di disgusto.
“Scusa. Stanotte niente cucine, giuro solennemente. Se mi racconti chi è il fortunato che ti tiene sveglia”.
Lei alzò gli occhi al cielo.
“Non ti sembra che abbiamo più che un’abbondanza di motivi per non chiudere occhio la notte?”.
Klaus si aprì in un sorriso beffardo.
“Non so di che parli”.
Poi le baciò la fronte e si alzò, allungando una mano con aria stupidamente solenne.
“Adesso andiamo o al ritorno il capitano ci farà pulire le stalle. L’ultima volta sei inciampata in un secchio di letame e non mi sembra il caso di replicare”.
La ragazza gli prese la mano, sulle labbra uno di quei sorrisi genuini che riusciva sempre a strapparle. Doveva essere grata per molte cose, cercava di ricordarlo a se stessa ogni giorno. Aveva perso tanto ma qualcosa le era anche stato dato. Klaus era una di quelle cose che non solo le erano state miracolosamente date, ma che altrettanto miracolosamente erano anche rimaste. Non erano tante le cose che rimanevano a chi faceva parte del corpo di ricerca, né particolarmente numerose erano le persone che riuscivano a rimanere vive abbastanza a lungo da costruire dei legami significativi. A lei era stato concesso molto più di quello che era stato concesso a tanti dei suoi compagni. 
Con un respiro profondo, si lasciò guidare verso il cortile.


Cavalcare fino a lasciarsi le mura alle spalle non era qualcosa a cui ci si abituava facilmente. Di solito si era troppo occupati a sentire il cuore in gola per lasciare spazio all’eccitazione, all’emozione di essere fuori dalle mura della città. Eppure Lea desiderava tenersi stretta quell’impareggiabile sensazione di libertà, di meraviglia, ogni volta che si trovava davanti immense distese verdeggianti e un cielo sconfinato. Per qualche secondo, solo per qualche secondo, si concedeva di non pensare e di essere felice per il calore del sole, per il vento che le scompigliava i corti capelli scuri e le faceva lacrimare gli occhi, per l’odore dell’erba. Per qualche secondo il mondo esterno era solo verde e azzurro, i giganti non esistevano e lei poteva cavalcare fino alla fine dell’orizzonte, fino a scoprire cosa ci fosse il più lontano possibile dalla città.
Quel giorno il cielo era coperto da opprimenti nuvoloni grigi, l’aria era pesante e umida. Minuscole e sporadiche gocce di pioggia erano già iniziate a cadere prima che i soldati attraversassero i cancelli.
“Capitano, un cinque metri in avvicinamento!”, urlò una delle vedette.
“Gunther!”, tuonò Levi, senza voltarsi. 
Lui non se lo fece ripetere due volte e abbandonò la formazione per lanciarsi verso il gigante che avanzava verso di loro. Con una fluidità dei movimenti sorprendente, lo ferì alle gambe prima di conficcargli gli arpioni nel collo e volargli addosso con le lame pronte e la nuca come obiettivo. Fu nuovamente a cavallo in meno di un minuto.
“Esibizionista”, sorrise Petra, guadagnandosi un occhiolino.
Lea si voltò, alle loro spalle c’erano altre tre squadre che avanzavano tenendosi a distanza. Era un’idea nuova, quella di non cavalcare tutti insieme. Essere divisi in gruppi più piccoli avrebbe dovuto rendere più facile la gestione delle spedizioni e, si sperava, gli attacchi dei giganti. C’era una foresta che i loro superiori avevano insistito per esplorare, nella speranza di trovare qualcosa. Da tempo avevano dei sospetti ridicoli su alcuni esemplari, soprattutto su quelli che facevano parte della categoria anomali. Stavano prendendo in considerazione la possibilità che certi giganti fossero dotati di abbastanza intelletto da collaborare, o almeno comprendersi a vicenda in qualche assurdo modo. Per organizzarsi. Forse era quello il motivo per cui non riuscivano a prevedere alcuni dei loro attacchi.
Un altro gigante si avvicinò da sinistra ma non ci fu bisogno di alcun ordine. Klaus schizzò in avanti insieme a un altro soldato, Abel, e saltò abbastanza in alto da tranciare via il braccio che il gigante stava tendendo verso la squadra. Il sangue inzuppò entrambi ma non fecero una pi
ega. Fu Abel a metterlo fuori combattimento ma non prima di essere colpito dall’altra mano del gigante, che si era voltato con un grugnito sofferente quando Klaus lo aveva mutilato. 
Cadde per terra con un rumore sordo, il braccio sinistro piegato in una posizione troppo strana per essere normale. Klaus gli fu subito accanto.
“Tutto bene?”, domandò mentre già si strappava via un pezzo dell’uniforme per legarlo attorno al compagno e tenergli fermo il braccio fino al loro ritorno in città.
Abel aveva il viso congelato in una smorfia di dolore ma annuì.
“Dovrei riuscire a cavalcare”, rispose, facendosi dare una mano per rimontare in sella.
“Resta dietro di me”, disse Klaus, un lampo di preoccupazione nello sguardo prima di spronare nuovamente il cavallo e riprendere la propria posizione all’interno della formazione.
“Ehi, guarda avanti”.
Lea si voltò all’istante, lasciandosi però andare a un sospiro di sollievo. Ogni volta si riprometteva di non distrarsi e ogni volta falliva. Sapeva che Klaus era perfettamente in grado di cavarsela da solo ma non riusciva a controllare quell’impulso: non le restava nessun altro.
“Stavo guardando avanti”, mentì in maniera infantile, lo sguardo fisso sui cavalli dei suoi compagni davanti a lei.
Marie sorrise, divertita, ma non disse altro.
Le piaceva, Marie. Ogni tanto si sedeva accanto a lei a cena e spesso erano in coppia durante gli allenamenti. Era sempre sorridente, disponibile con tutti. Ricordava che dopo quello che era successo ad Anne era stata l’unica della camerata a non lamentarsi perché i suoi singhiozzi le impedivano di dormire. Invece di rivolgerle vuote parole di consolazione era uscita nel cuore della notte per tornare con una fumante tazza di latte caldo, poi si era seduta sul suo letto e le aveva stretto forte la mano finchè aveva smesso di piangere e il tremore alle mani le era diminuito abbastanza da permetterle di reggere la tazza.
Arrivarono alla foresta segnata sulle mappe in poco tempo e senza particolari problemi. La vegetazione era particolarmente fitta, perciò i soldati rallentarono e iniziarono ad avanzare più adagio. La pioggia veniva giù a secchiate e la visuale era estremamente compromessa, una situazione che non avrebbe reso facile il gestire eventuali problemi.
Le altre squadre erano rimaste indietro e la comunicazione era stata resa assai difficoltosa a causa della pioggia. Il poco cielo che Lea riusciva a scorgere attraverso le foglie era scuro, quasi minaccioso, mentre attraverso gli alberi la pioggia si riversava con violenza tale da coprire qualsiasi altro rumore. 
“Dodici metri!”, una voce si levò da un punto non identificabile della formazione ma fu subito coperta dal boato di un tuono che fece tremare la terra. La ragazza non riuscì a impedirsi di sobbalzare.
Sentì il panico minacciare di travolgerla quando sentì altre grida da qualche parte alle sue spalle. Non riuscì a distinguere le urla e gli ordini che venivano coperti dal rumore incessante della pioggia, perciò si voltò ancora una volta, l’angoscia resa ancora più grande da quanto poco lontano riuscisse a vedere a causa del temporale. Klaus non era lì. Era rimasto indietro. Perché non era lì?
Le urla continuavano a giungere smorzate dalla tempesta prima che l’attenzione della squadra fosse catturata da qualcosa che doveva essere mostruosamente grande, a giudicare dagli alberi che avevano preso a piegarsi fino a spezzarsi come fossero stati bastoncini di bambù. 
“Merda”, imprecò un soldato alla sua destra, intento a sostituire i cilindri del gas del proprio dispositivo. 
“Soldati, lasciate andare i cavalli!”, urlò Levi, le lame sguainate. Incrociò il suo sguardo per meno di un secondo ma Lea la percepì prima ancora di vederla, la preoccupazione. Si stava mettendo male.
Resta vivo. Ti prego.
“Stanno risalendo la formazione!”, la voce di una donna, impossibile individuarne la posizione.
“Più di uno?”, fece Petra, impallidendo.
“Che vengano”, mormorò Lea con rabbia, gli occhi socchiusi a causa della pioggia.
I soldati abbandonarono i cavalli e si lanciarono in alto, verso gli alberi dai rami più spessi, in attesa di capire quale sarebbe stata la loro prossima mossa. Lea sentì il sangue gelarsi nelle vene quando qualcuno gridò in maniera dolorosamente familiare, proprio mentre si alzava un’altra voce che poco lontano abbaiava imprecazioni.
“Ritirata!”.
“Anomali!”.
Il cuore di Lea martellava così forte da farle credere che presto le sarebbe uscito dal petto. Restare lì, in attesa, era la cosa peggiore. Voleva raggiungerli, voleva combattere, voleva aiutare.
Lanciò un’occhiata al soldato più vicino a lei, a qualche ramo di distanza. Gunther le fece segno di prendere un respiro profondo e lei obbedì. Sapeva che in realtà le stava ordinando di concentrarsi ma lei lo era, concentrata. Sentiva i muscoli delle gambe e delle braccia fremere, il sangue rimbombarle nelle orecchie.
Finalmente una delle squadre che si erano lasciati alle spalle giunse ai loro piedi, proprio mentre il bosco veniva squarciato da un lampo. Lea si lasciò sfuggire un suono strozzato quando riuscì a mettere a fuoco la scena che le si presentava davanti: la maggior parte dei cavalli non avevano nessuno in sella, era chiaro che fossero in fuga. I pochi soldati rimasti giunsero pochi secondi dopo, in una corsa disperata: erano coperti di sangue, c’era una ragazza a cui mancava un braccio, aggrappata a un compagno che cercava di scrollarsela di dosso. Urlavano cose che da quell’altezza non era possibile distinguere ma quando sollevarono lo sguardo verso gli alberi le loro voci si fusero in un’unica, straziante richiesta di aiuto. Petra si piegò sulle gambe con uno scatto istintivo e altri compagni di squadra la imitarono, pronti a saltare giù dagli alberi, ma Levi si lasciò andare a un’imprecazione furibonda e ordinò loro di restare dov’erano. Sarebbe stato più saggio evitare lo scontro ma non c’era modo di verificare che il perimetro fossero libero: erano stati inspiegabilmente colti di sorpresa.
Gli anomali comparvero subito dopo: anche se dalle cime degli alberi non era possibile stabilirne la classe con precisione, la loro andatura barcollante ma rapida, unita alle bocche macchiate di scarlatto e le espressioni vuote erano caratteristiche sufficienti a far accapponare la pelle. In uno spettacolo raccapricciante, furono addosso ai pochi superstiti della squadra in pochi attimi e Lea non riuscì a non distogliere lo sguardo, anche se non potè impedirsi di sentire le urla o quel disgustoso rumore di mandibole impegnate a masticare.
Rimasero immobili sotto la pioggia, congelati sul posto in ogni senso possibile. Levi, a denti stretti, aveva valutato la situazione ed era costretto ad ammettere che in quel momento la priorità doveva essere quella di portare la sua squadra al sicuro. Salvo imprevisti, avevano la possibilità di aspettare che i giganti sotto di loro si lasciassero la loro posizione alle spalle e scomparissero nella foresta senza notarli.
Si voltò verso i soldati più vicini al suo ramo, pronto a far loro segno di prepararsi alla ritirata, ma un boato eccezionalmente vicino e improvviso non gliene diede la possibilità. Lea riuscì a stento a scorgere i rami dietro di lei spezzarsi, poi sentì qualcosa colpirla con violenza alla schiena e venne scaraventata in avanti, lontano, attraverso gli alberi e i rami che la ferirono alle mani e al volto, con appena il tempo di intravedere altri soldati scagliati in aria con la sua stessa espressione sorpresa. Attraverso l’equipaggiamento, cercò di controllare la caduta nella speranza di non spaccarsi la testa contro un albero ma, quando azionò il gas, si rese conto di averne troppo poco a disposizione e finì con l’attutire solo in minima parte la violenza con cui finì per terra, ai piedi di un tronco particolarmente spesso contro il quale riuscì per miracolo a non sbattere.
Si prese un momento per respirare, azione che le provocò una fitta non troppo incoraggiante alla schiena. La testa le girava ma si costrinse a mettersi a sedere per valutare la situazione il più rapidamente possibile. La pioggia continuava a venire giù a secchiate ma diverse spedizioni le avevano insegnato che in una situazione di emergenza non era mai prudente rimanere nello stesso posto troppo a lungo: doveva muoversi e doveva farlo in fretta.
Maledizione.
Sostituì i cilindri del gas della propria attrezzatura per tenere le mani impegnate e cercò di pensare. Non sapeva che fine avessero fatto la sua squadra e il resto dei soldati, non sapeva quanti giganti ci fossero nelle vicinanze e non aveva idea di cosa stesse succedendo. C’era un combattimento in corso? Se sì, quanto lontano? La sua squadra era stata completamente divisa? 
Cercò di non cedere al panico, nonostante l’unica cosa che riuscisse a sentire fosse il temporale che non accennava a placarsi.
Decise di spostarsi attraverso gli alberi nella speranza di intravedere presto qualcuno ai suoi piedi. Vivo o meno, si disse, cercando di non soffermarsi troppo sul pensiero di Klaus.
Si spostò il più velocemente possibile, saltando da un ramo all’altro, fino a scorgere una radura al cui centro troneggiava il cadavere di un gigante, sommerso dal vapore che ne ostruiva la vista. Intorno, i corpi erano sparpagliati in maniera disordinata, come bambole rotte. Inorridita, si fermò: uno di loro era Abel, lo riconobbe con una fitta particolarmente dolorosa al petto.
Oh, no. No. 
Avrebbe voluto fare qualcosa, strappare pezzi del suo mantello per coprirne almeno i volti, chiudere loro gli occhi. Sapeva che non c’era tempo ma scese lo stesso dall’albero con un balzo, incapace di trattenersi.
Un urlo straziante la congelò sul posto solo per un istante, poi si mise a correre nella direzione da cui proveniva, rimpiangendo di aver lasciato andare il proprio cavallo. Si ritrovò in una radura costellata di cadaveri sui quali non ebbe il tempo di soffermarsi perché, non troppo lontano da lei, un viso noto stava fronteggiando da sola un sette metri.
“Marie!”.
Lei non non diede segno di essersi accorta di lei, era ferita e sanguinava dalla testa. Il gigante si piegò di lei, cercando di afferrarla, e Lea non perse altro tempo. Non aveva altri appigli, perciò conficcò gli arpioni della propria attrezzatura nelle spalle del mostro e lo colpì agli occhi per poi, con uno slancio disperato e le lame pronte, tranciargli la nuca con un taglio netto.
Il gigante crollò a terra con un rumore sordo e lei atterrò poco lontano, sbilanciata: il capogiro non le era ancora passato del tutto.
“Come stai? Dove sono gli altri?”, si precipitò dalla compagna, che era sporca di sangue e aveva il fiatone.
Ma prima che potesse rispondere, dovette afferrarla e spingerla per terra per evitare che un’altra mano si chiudesse su entrambe. Caddero sul terreno fradicio, ormai divenuto poltiglia marrone, e Lea ebbe un solo secondo per agitare una lama che ferì il gigante al polso, facendolo ululare dal dolore. Marie tossì ma riuscì a rimettersi in piedi, barcollando. Fece per avanzare ma Lea, spinta da una disperata determinazione, la spinse indietro e, cercando di non perdere l’equilibrio e scivolare nel fango, conficcò gli arpioni nelle gambe del gigante per poi lanciarsi verso di lui e ferirlo dietro alle ginocchia, sperando fosse abbastanza per farlo cadere.
Riuscì a sbilanciarlo ma lui allungò comunque una mano verso di lei. Imprecando, Lea gli tranciò due dita e si lanciò di lato, voltandosi in tempo per lanciarsi nuovamente su di lui, girandogli attorno. Usò al massimo il gas che le restava e riuscì a tagliargli la nuca di netto.
Quando tornò a terra, sentiva di non avere più fiato.
“Dobbiamo andarcene! Svelta, dobbiamo…”.
Si voltò quando Marie urlò, stretta nella morsa di una mano gigantesca che la teneva sollevata da terra. Anche Lea gridò, corse verso l’amica il più rapidamente possibile, conscia di aver praticamene finito il gas e non avere più niente per sostituirlo. Ricacciò indietro le lacrime e si passò una mano sul viso, la pioggia le impediva di vedere come avrebbe voluto e sentiva gli arti intorpiditi dall’acqua e dal freddo. 
“Lasciami! Lasciami andare! Lea!”, Marie continuava ad agitarsi, il viso deformato dalla paura.
“Marie, sta’ calma!”.
Lea raggiunse l’amica giusto in tempo per vedere il gigante aprire la bocca e portare la mano con cui la teneva ancora più in alto. 
No!”, urlò e, conficcati gli arpioni nelle spalle del gigante utilizzando l’ultima parte di gas che le rimaneva, prese ad arrampicarsi su di lui con l’obiettivo di tenergli la bocca aperta abbastanza a lungo da permettere all’amica di liberarsi: le lame si erano consumate troppo perché potesse sperare di falciargli via la mano di netto, e in quella posizione non aveva tempo per sbloccare quelle di ricambio. Era un’impresa disperata e sapeva che non sarebbe riuscita a resistere a lungo ma doveva provare. Era già successo che non fosse riuscita a salvare qualcuno, avevano già perso troppi compagni, non avrebbe permesso che altri le fossero portati via.
Non lei. Non di nuovo.
“Lea, grazie. Salutami quel tuo amico”, Marie le sorrise coraggiosamente, la voce tremante e le lacrime che le bagnavano le guance. Aveva tentato di incastrare le sue lame nella bocca del gigante ma non aveva saputo indovinare la posizione giusta e se le era fatte scivolare dalle mani.
“No! Ci sono quasi, dammi la mano!”.
Il sorriso di Marie, scossa dai singhiozzi, tremò.
“Grazie”, ripetè in un sussurro.
Lea, accecata dalla pioggia e dalle lacrime, tentò angosciosamente di sollevarsi più in alto, il braccio teso e i palmi macchiati di sangue. 
Che diavolo stai facendo?”, una voce parecchi metri più in basso la distrasse per un secondo, solo per un secondo, ma fu abbastanza. Il gigante, infastidito, la afferrò con l’altra mano e la strinse come se fosse stata un pupazzo, per poi scaraventarla di lato, mandandola a sbattere contro un albero. Lea battè la testa e sentì un suono allarmante provenire dal braccio sinistro prima che il dolore esplodesse al punto di toglierle il respiro. Poi fu a terra e, un istante dopo, vide crollare anche il gigante in una nube di vapore. 
Levi le fu accanto in un secondo, gli stivali solitamente lucidi erano macchiati e anche lui era sporco di sangue da capo a piedi. Si chinò su di lei, l’espressione a metà tra l’incredulo e l’arrabbiato.
“Lea, resta sveglia. Parlami. Che cazzo, guardami!”, sbottò, una mano allungata che non sapeva bene dove posare. Non sapeva quanto fosse ferita e dove, era impossibile da capire attraverso quel sangue. Tutto quel sangue. La macchia scura che le si stava allargando sotto la testa catturò la sua attenzione con allarmante rapidità.
“Marie”, mormorò lei, le guance bagnate di lacrime, gli occhi fissi sui resti del gigante a pochi metri di distanza. Pensò che per il dolore il petto le sarebbe esploso, eppure non riuscì a impedire che fosse squassato da piccoli singhiozzi silenziosi. Forse sarebbe morta così, piangendo fino a smettere di respirare. Si augurò che la fine arrivasse il prima possibile.
Levi strappò una striscia di tessuto dalla sua uniforme e le sollevò delicatamente la testa per legargliela attorno.
“Dobbiamo andare, dimmi dove sei ferita. Ce la fai ad alzarti?”.
La ragazza non rispose e chiuse gli occhi per un secondo, faticando a riaprirli. Lui imprecò.
Si chinò nuovamente su di lei e fece per prenderla in braccio ma quando le toccò la parte sinistra del corpo, Lea urlò così forte da congelarlo sul posto, anche se solo per un attimo. In ultimo riuscì a sollevarla, cercando di toccare il meno possibile le parti che sembravano dolerle di più, e raggiunse il suo cavallo, che aveva lasciato al limitare della radura, il più rapidamente possibile. 
A labbra serrate, dovette farle nuovamente male per issarla in sella con lui. La stoffa che le aveva avvolto attorno alla testa era già fradicia.
“Non chiudere gli occhi. Parla con me. Dimmi che cazzo pensavi di fare”.
Non voleva avere un tono così arrabbiato, non mentre trasportava un membro della sua squadra che sembrava a un passo dal morire. Ma lo era, arrabbiato. Si erano lasciati cogliere di sorpresa, avevano perso chissà quanti uomini e senza ottenere assolutamente niente che potesse giustificare un tale fallimento.
Lea riaprì gli occhi e riuscì a metterlo a fuoco. 
“Sei vivo”, esalò, la testa che le scoppiava ma il cuore più leggero. Lui incontrò il suo sguardo per un secondo. Il sollievo nella sua voce lo irritò.
“Non vedo perché non dovrei esserlo. Hai intenzione di dirmi perché tu eri invece impegnata a cercare di suicidarti?”.
“Non sono stata abbastanza brava. Non sono riuscita a salvarla”, mormorò lei, gli occhi nuovamente pieni di lacrime.
“Stavi per farti ammazzare!”. 
Va bene, forse quella spedizione fallimentare non era esattamente l’unico motivo per il quale era furente. Forse non era solo rabbia, quella che stava provando. Forse lo disturbava l’idea di avere tra le braccia proprio lei, in quello stato. E sapere che in quel momento la sua salvezza non dipendeva da lui perché non c’era niente che potesse fare. Solo avanzare il più velocemente possibile e sperare che fosse ancora viva quando sarebbero tornati in città.
“Ne sarebbe valsa la pena”, scandì lentamente la ragazza, come se pronunciare ogni parola le costasse uno sforzo disumano. Levi abbassò lo sguardo sul suo viso e sentì una fitta di apprensione alla vista di quanto rapidamente stesse perdendo colore. 
“Resta sveglia. Mi senti?”.
“Quante perdite?”, chiese Lea a fatica.
“Troppe. Perciò resisti, è chiaro?”.
“Ma tu stai bene”.
“Piantala di pensare a come sto io, piantala di pensare agli altri. Non è così che arriverai viva alla prossima spedizione”.
Lei accennò un debole sorriso.
“Sei sempre arrabbiato. Non importa, stai bene”.
Se le rispose o meno, in seguito la ragazza non sarebbe stata in grado di dirlo. Ricordava solo di aver provato a stringere la sua uniforme bagnata tra le dita ma nessuna parte del suo corpo sembrava avere più l’energia per obbedirle. Quando chiuse gli occhi, vinta dalla stanchezza, l’ultima cosa a cui pensò fu che si sentiva fortunata. A prescindere da quello che provava, dal suo orgoglio ferito, a prescindere da quello che lui non voleva, era felice di essere riuscita a vederlo un’ultima volta.


Quando riaprì gli occhi, la gola le bruciava per la sete.
Era in un letto, in quella che era una stanza vuota adibita a infermeria. Provò a mettersi a sedere ma una fitta di dolore alle costole la costrinse a rinunciare. Un paio di mani furono sulle sue spalle all’istante e la spinsero delicatamente verso il cuscino.
“Stai giù, brutta stupida altruista incosciente!”, sbottò il ragazzo, il volto esangue e gli occhi cerchiati da segni scuri. L’uniforme slacciata lasciava intravedere una fasciatura che gli percorreva il petto, meno visibile era invece quella alla gamba destra.
“Klaus!”, esclamò lei, cercando nuovamente di mettersi a sedere e allungando il braccio che non era appeso al collo verso di lui.
“Ti ho detto di non muoverti!”, fece lui, chinandosi su di lei per abbracciarla. Si strinsero così forte da farsi male ma nessuno dei due accennò a lasciar andare l’altro.
“Oh, Dio. Sei vivo. Sei vivo”, mormorò lei, iniziando a piangere senza neanche rendersene conto. Almeno tu. Stai bene.
“Sì, e tu mi hai quasi mollato qui. La prossima volta che decidi di farti ammazzare gradirei essere avvisato, così mi risparmio l’infarto che mi è venuto quando ti ho vista in quello stato”.
Lei si allontanò appena e gli fece segno di aiutarla a sedersi, chiedendogli di sistemarle il cuscino dietro la schiena.
“Mi dispiace”, fu l’unica cosa che riuscì a dire.
“Ti dispiace? Tutto qua? Hai sentito la parte in cui dico che mi è quasi venuto un colpo quando il capitano ti ha portata fuori dalla foresta?”.
“Tu avresti fatto lo stesso. Non ho intenzione di lasciar morire nessun altro senza neanche provare a fare qualcosa ma fossi in te starei tranquilla, ho fallito ancora e che io ci provi o meno è irrilevante perché le persone continuano a morirmi davanti e quindi forse sono nel posto sbagliato, forse non dovrei essere un soldato. Forse sono inutile”.
Klaus tacque, amareggiato. Detestava vederla piangere e detestava l’idea che non avesse smesso di incolparsi neanche per un giorno da quando aveva perso Anne. Invece continuava a punirsi, a ritenersi responsabile.
“Sei uno dei soldati migliori della nostra squadra, smettila di dire sciocchezze”.
Lei gli rivolse uno sguardo sarcastico.
“Davvero? Vogliamo fare una rapida conta delle persone che sono riuscita a mettere in salvo negli ultimi tempi?”.
“Lea, non puoi essere responsabile delle vite degli altri. Non siamo qui per questo”.
“Perciò dobbiamo lasciarci morire a vicenda per cosa, il futuro dell’umanità? Perché l’importante è portare a termine le missioni? Beh, non è solo per questo che io sono qui. Non sono solo un soldato, sono un essere umano. E mi rifiuto di dimenticarmene”.
Klaus si allungò verso di lei per accarezzarle una guancia, facendo attenzione a evitare i graffi che non erano ancora guariti. Aveva sempre amato quel lato di lei, il modo in cui a dispetto di tutte le cose orribili a cui aveva dovuto assistere nella sua vita fosse riuscita  mantenere saldi l’altruismo e l’empatia che la contraddistinguevano. Non era scontato, non nel mondo in cui erano costretti a vivere o nella realtà che erano costretti ad affrontare. Eppure non poteva sopportare l’idea che le succedesse qualcosa, il solo pensiero gli toglieva il fiato.
“Allora puoi ricordarti anche un’altra cosa?”, domandò, scrutandola.
La ragazza aggrottò le sopracciglia, interrogativa.
“Anne non è morta per colpa tua. Nessuno è morto per colpa tua, neanche Marie. Non è colpa tua, Lea”.
Lei sospirò e si sporse in avanti per poggiare delicatamente la fronte sulla sua. Chiuse gli occhi per un attimo.
“Klaus, gli allenamenti stanno per iniziare”, una voce impassibile li fece sussultare e il ragazzo si alzò dalla sedia di legno su cui era seduto con uno scatto meccanico.
“Sì, capitano”. Poi si voltò a guardare la sua amica e le sorrise. “Torno a trovarti presto. Riposati”.
“Grazie”, rispose lei, ricambiando il sorriso con dolcezza.
Lo seguì con lo sguardo fino a quando uscì dalla stanza e poi si concentrò con ferrea attenzione sulle proprie mani, intrecciate sulle lenzuola. Il suono della porta che veniva chiusa servì solo a renderla più nervosa.
“Sei sveglia”, osservò Levi, avvicinandosi al suo letto e lasciandosi cadere sulla stessa sedia di legno che aveva occupato Klaus.
“Contro ogni aspettativa”, rispose la ragazza, pentendosene subito. Non era la persona adatta con cui usare il senso dell’umorismo e neanche il momento era dei migliori.
“Sei stata una stupida. Ti ho insegnato meglio di così”.
Ecco, appunto.
Finalmente sollevò lo sguardo e non fu sorpresa dal trovarsi davanti degli occhi di ghiaccio. Eppure non riuscì a non pensare, stupidamente, a quanto le fossero mancati. Doveva aver battuto la testa veramente troppo forte.
“Mi dispiace”, si costrinse a dire.
Lui si sporse verso di lei, i gomiti poggiati sulle ginocchia.
“No che non ti dispiace. Rifaresti la stessa cosa alla prima occasione”.
“Sei qui per farmi la predica?”.
Levi socchiuse gli occhi, imponendosi di stare calmo. Aveva passato tutta la notte ad aspettare che si svegliasse, litigare non era esattamente la prima cosa che volesse fare.
“Dovrei essere qui per buttarti fuori dalla mia squadra”.
Lea non riuscì a trattenere una risata incredula.
“Cos’è, una nuova regola della tua squadra, capitano? Bisogna lasciar morire i propri compagni?”.
“I miei soldati sono tra i migliori dell’intero corpo di ricerca, devono esserlo. Non posso portare con me quelli che trasformerebbero ogni spedizione in una missione suicida”.
La ragazza tacque per qualche secondo, troppo stravolta per sapere cosa dire. Non riusciva a credere alle proprie orecchie.
“Questo è un reclamo ufficiale. Fallo un’altra volta e sei fuori”.
“Lo farò sempre, capitano. Ogni volta che avrò l’occasione di salvare qualcuno, io proverò a farlo”, rispose lei con decisione, sostenendo il suo sguardo con la medesima freddezza.
Levi si alzò dalla sedia.
“Bene, magari alla fine otterrai quello che vuoi e finirai nella bocca di un gigante. Forse allora sarai soddisfatta”.
Detto questo, si voltò e si diresse verso la porta con passo misurato. Non voleva dare a vedere quanto fosse realmente irritato con lei.
La ragazza fissò lo sguardo sulla sua schiena, mordendosi il labbro inferiore per trovare il coraggio necessario. Non avrebbe avuto un’altra occasione per congedarsi da lui in modo migliore, più giusto. Per dirgli quello che si era tenuto dentro dal primo giorno in cui le aveva rivolto la parola.
“Te la meriti, sai?”, riuscì a dire, incapace di trattenersi. 
Lui si fermò e si voltò a guardarla.
Lea sorrise. Dopo quella notte non si erano praticamente più parlati, neanche guardati, tutto era tornato esattamente come prima. Come se non ci fosse mai stato niente, con buona pace di entrambi. Lei stava bene, aveva ricominciato a concentrare la sua attenzione su questioni più urgenti di un uomo, se n’era fatta una ragione. Perciò forse si sarebbe pentita di quello che stava per dirgli ma aveva davvero importanza? Era stata spiaccicata contro un albero, non poteva andare peggio di così.
“Una persona che tenga a te, qualcuno a cui importi. Nessuno è troppo al di sopra dell’essere amato e tu, anche se te lo dimentichi, sei una persona. Eccezionalmente dotata, certo, forse il soldato più forte attualmente a disposizione del genere umano, ma sei una persona. E io spero davvero tanto che un giorno tu permetta a qualcuno di tenere a te. Quel qualcuno chiaramente non sono io, probabilmente è un bene dato che comunque non credo vivrò abbastanza a lungo, ma tu dovresti davvero concederti una dinamica da evolvere, ecco”.
Levi restò fermo a guardarla senza rispondere. Anche se avesse voluto, non avrebbe saputo cosa dire.
Lei si schiarì la voce e scivolò nuovamente sotto le lenzuola, a fatica e con una smorfia di dolore. La testa le pulsava e non riusciva a respirare troppo profondamente senza che delle fitte le esplodessero nel petto.
“Quanto sono messa male? Posso tornare alla mia camerata, allenarmi?”, domandò, sperando di alleggerire quel silenzio imbarazzante.
“Sei messa abbastanza male da dover passare un paio di notti qui, dovresti rimetterti completamente tra qualche settimana. Gli allenamenti sono sconsigliati ma farai quello che potrai, ci sono altri feriti e abbiamo pensato a come non tenervi a letto tutto il giorno. Se sarai troppo stanca, darai una mano in ufficio con inventari e rapporti”.
La ragazza annuì con lentezza. Certo che si sarebbe allenata, avrebbe fatto tutto il necessario. Tutto quello che ci si aspettava da un soldato, ferito o meno.
“Ricevuto, capitano”, rispose con un altro sorriso stanco, abbandonando la testa sul cuscino. La fasciatura era stretta e le dava fastidio ma si trattenne dall’allentarla.
Levi si diresse verso la porta e la aprì ma, prima di uscire dalla stanza, si voltò a guardarla un’ultima volta.
“Lo sei stata, abbastanza brava. E il tuo amico ha ragione, non sei responsabile delle vite altrui”.


Tre settimane dopo, Lea era felice di attraversare il cortile alla luce arancione del tramonto, le braccia indolenzite e le gambe nuovamente piene di lividi a causa degli allenamenti. Stava avendo qualche difficoltà ad adattarsi ai ritmi notoriamente faticosi dopo il periodo passato a cercare di ristabilirsi, ma le era mancato arrivare a fine giornata dolorante per i motivi giusti.
Continuava a chiedere ai suoi superiori quando le sarebbe stato concesso di partecipare nuovamente alle spedizioni esplorative ma tutti le rispondevano la stessa cosa: è presto. Cominciava a pensare, con grande imbarazzo e umiliazione, che non la ritenessero più un elemento abbastanza valido da portarsi dietro nelle missioni esplorative. Forse ormai pensavano che fosse troppo emotivamente instabile, impulsiva, o qualcosa del genere. Levi doveva aver fatto presente l’episodio che l’aveva coinvolta con Marie, forse aveva riportato anche le parole ostinate che gli aveva rivolto l’unica volta che era venuto a farle visita in infermeria. Forse anche Klaus era stato avvicinato, invitato a confermare quanto fosse più saggio tenerla dentro le mura, possibilmente ad allenarsi tutto il giorno e a compilare documenti rinchiusa in uno degli uffici.
Tutto ciò la faceva sentire frustrata oltre l’inverosimile ma non aveva alcuna intenzione di ritrattare la sua posizione. Non sarebbe andata a implorare di poter essere riammessa tra le fila della sua squadra, promettendo che si sarebbe limitata a fare il suo dovere di soldato senza lasciarsi coinvolgere a livello emotivo. Non voleva che il mondo le togliesse anche quello, non voleva che la sua identità venisse ulteriormente stravolta.
Calciò una pietra, indispettita. Aveva sempre fatto quello che le era stato ordinato, era stata disciplinata, si era impegnata, non aveva messo in discussione il modo di agire dei suoi superiori. Ma ne aveva abbastanza dell’essere punita o dell’essere giudicata inaffidabile per aver tentato di aiutare un’amica. Non poteva accettarlo. Perciò decise, con risoluzione febbrile, che l’indomani avrebbe insistito con maggiore decisione. Se necessario, avrebbe fatto l’ultima cosa che avrebbe voluto fare: avrebbe parlato con Levi, lo avrebbe pregato di darle fiducia, si sarebbe resa ridicola fino al punto di supplicare, se fosse servito a qualcosa.
Passò dalla sua camerata per mettersi una camicia pulita e fece una smorfia quando vide il livido che le si stava allargando sull’avambraccio destro. Si era lasciata distrarre ed Elfiede l’aveva afferrata e atterrata con violenza, cogliendo l’occasione al volo. Klaus si era lasciato scappare uno sbuffo divertito dal naso e lei aveva altezzosamente rifiutato la mano che Elfiede le aveva offerto per aiutarla a rialzarsi.
Si fermò qualche secondo per massaggiarsi una spalla a occhi chiusi, poi uscì dalla stanza vuota per dirigersi in mensa. Le fu servita una densa zuppa di patate con del pane raffermo e un boccale d’acqua fredda, bottino che portò al tavolo dove Klaus e altri loro compagni erano seduti, impegnati in un allegro chiacchiericcio.
Lui le fece subito spazio e lasciò a metà la frase che stava rivolgendo a Petra.
“Ehi, come va? Sembri stanca”, osservò, il tono preoccupato.
Lea, che stava morendo di fame e aveva subito cominciato a mangiare, scosse la testa.
“Sto bene, sono solo passata a cambiarmi. Di che parlavate?”.
“Della spedizione di stamattina! Klaus ha eliminato due dieci metri con un unico attacco, Gunther era furioso”, sorrise Petra, divertita.
Il diretto interessato, seduto all’altro estremo del tavolo, le puntò contro un dito.
“Mi ha scavalcato”.
“Vuoi sempre l’esclusiva”, rise Klaus.
“Me la sono guadagnata con la mia illustre reputazione”.
Lea accennò un sorriso.
“Scoperto qualcosa di interessante?”, domandò.
Petra si strinse nelle spalle.
“Non ancora ma il comandante sta pensando di costruire una base militare all’interno della foresta. Dobbiamo tornare a esplorare la zona per capire come farlo in sicurezza”.
“Lo faremo lavorando di notte, immagino. Mi sembra l’opzione migliore”.
Klaus le lanciò un’occhiata e si schiarì la voce.
“Nel senso che vuoi unirti anche tu?”.
La ragazza aggrottò le sopracciglia.
“L’ultima volta che ho controllato, eravamo nella stessa squadra”.
“Sì ma, ecco, credevo… insomma, non è molto meglio restare dentro le mura? È più sicuro e non dovresti, sai, sentirti in ansia o responsabile o qualcosa del genere”.
Lea tacque per qualche secondo, passando in rassegna i volti dei suoi compagni seduti al tavolo. Sembravano tutti distratti da qualcosa, nessuno ricambiò il suo sguardo o diede segno di aver sentito quello scambio di battute. Anche Petra sembrava improvvisamente concentrata sulla sua zuppa.
“Klaus, perché non parli chiaramente?”.
Lui sospirò, abbandonandosi contro lo schienale della sedia.
“Mi piace non vederti in pericolo e preferisco di gran lunga quando non rischi di farti ammazzare in nome dell’altruismo”.
“Hai detto che mi ritieni uno dei soldati migliori della nostra squadra”.
Gunther sbuffò una risata ma lei, anche se a fatica, lo ignorò. Petra gli pestò un piede.
“Ed è così, lo sei. Sai che lo penso”.
“Perciò stai suggerendo che uno dei soldati migliori della squadra non partecipi più alle spedizioni esplorative”.
Sophia tamburellò le dita sul tavolo, impaziente.
“Sta suggerendo che sei troppo sensibile per fare questa vita e che forse il tuo posto non è tra noi”.
“Sophia!”, sbottò Petra, indignata.
“No, io non sto affatto dicendo questo”, puntualizzò Klaus con tono piccato.
“Anche i nostri superiori devono pensarla allo stesso modo, dopotutto è con te che il capitano ha parlato”, continuò la ragazza seduta accanto a Gunther.
Klaus la incenerì con lo sguardo.
“Incredibile quanto la mia reputazione sia stata compromessa”, riflettè Lea, il tono inespressivo. 
“Ascolta, stai fraintendendo quello che…”.
“Sophia, sbaglio o Marie era anche amica tua? Mi pare passaste molto tempo insieme”.
La ragazza le rivolse un sorriso sprezzante.
“Non provarci”.
“Devo essermi persa il momento in cui abbiamo collettivamente deciso che provare ad aiutare un’amica significhi essere un cattivo soldato”.
“Nelle giuste circostanze, non un cattivo soldato, solo una stupida”.
“Sophia, piantala!”, sbottò Klaus, guadagnandosi una risata come risposta.
“Lea, non ascoltarla, nessuno di noi lo pensa”, mormorò Petra, allungandosi sul tavolo per toccarle un braccio.
“Potete pensare quello che volete ma niente vi da il diritto di mettere bocca sulla mia posizione all’interno del corpo di ricerca”. Si voltò verso Klaus, il viso teso in un’espressione dura. “Hai parlato con il capitano?”.
“Lea, ti prego, gli ho solo detto che sono preoccupato per te. Non…”.
“Sono un soldato”.
“Lo so!”.
“Ho seguito lo stesso addestramento di tutti quelli seduti a questo tavolo”.
Lo so. Se solo mi lasciassi…”
“Se finirò nello stomaco di un gigante per aver tentato di salvare la vita a qualcuno, sarà una mia scelta. Tu non hai nessun diritto di mettere in discussione il mio ruolo, men che meno con il nostro capitano”.
Il ragazzo sospirò, passandosi una mano sul viso.
“Mi dispiace, d’accordo? Non avrei dovuto farlo. Volevo solo tenerti al sicuro”.
“Quindi se io provo a fare qualcosa di buono sono una pazza troppo emotiva che non merita di uscire più dalle mura ma tu saresti cosa? Un ottimo amico?”.
L’espressione di Klaus rese evidente quanto quelle parole lo avessero ferito ma non disse niente, limitandosi ad abbassare la testa. Improvvisamente disgustata dall’odore della zuppa, Lea spinse via il vassoio e si alzò, scatenando ancora una volta l’ilarità di Sophia.
“Lea, non andartene”, Petra le parlò con tono gentile, gli occhi colmi di una sincera preoccupazione. La ragazza si sforzò di sorriderle.
“Non ho più fame. Ci vediamo più tardi”.

  
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti / Vai alla pagina dell'autore: Bethan__