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Autore: Chiccagraph    08/01/2022    0 recensioni
"Perché ci vuole coraggio a lasciare andare uno dei fili che tiene insieme il complesso reticolato del tuo cuore.
Ci vuole coraggio a reciderlo sapendo che difficilmente potrai riannodarli insieme ai tuoi. È un filo sciolto che può decidere di legarsi dove vuole: allacciarsi nuovamente ai tuoi o lasciarsi trasportare via dal vento.
E lui aveva mille ragioni per farlo, per tagliare via quella rosa pericolosa e tornare a prendersi cura del parco incontaminato dei suoi sentimenti. Aveva mille motivi per andarsene. Ed uno solo per restare. Ma quell’unico motivo, cazzo, aveva degli occhi bellissimi."
O la fic Serquelicia di cui tutti abbiamo bisogno
Genere: Angst, Fluff, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, FemSlash | Personaggi: Altri, Il professore, Raquel Murillo
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Continuava a girarsi e rigirarsi nel letto, chiedendosi in quale lato la notte avesse nascosto il sonno. 
 
Come alla mamma.
 
Tre semplici parole, un mondo. Tre semplici parole in grado di farlo sognare e privarlo al tempo stesso del sonno. Magari la notte portasse consiglio. Invece lascia in dote tante domande e una sola persona come risposte a tutte. 
 
Girò la testa verso il comodino e toccando con la punta del dito lo schermo della sveglia illuminò il display che segnava le 3:10, eppure gli sembrava di essersi steso a letto da un’eternità. 
 
Raquel dormiva beatamente al suo fianco, arricciata di lato, con la schiena rivolta verso di lui e i capelli sciolti sparpagliati sul cuscino. La striminzita camicia da notte abbracciava le sue forme, a loro volta accarezzate dal lenzuolo bianco. 
In questo periodo le temperature minime, durante la notte, toccavano i 23 gradi, e sebbene la donna dormisse per lo più nuda, amava avere almeno una parte del corpo coperta dal lenzuolo. Roba da donne, le aveva risposto la prima volta che aveva provato a chiederle il motivo per cui si ostinava a dormire intrappolata nelle lenzuola con questo caldo.  
Così avvolta nelle lenzuola sembrava che indossasse un abito da sposa, pensò arricciando un angolo delle labbra. Il cuore accelerò di un passo la sua corsa. 
 
Come se fosse consapevole che l’uomo la stesse osservando si girò su sé stessa, allungò una mano passandola sotto al cuscino e appiattì l’altra accanto al viso. Il movimento del petto che si alzava e abbassava a un ritmo lento e cadenzato e i lunghi respiri indicavano che era profondamente addormentata. 
 
Almeno lei riusciva a riposare.
 
Le spostò una ciocca di capelli dal viso, accarezzandole nel processo la guancia con la punta delle dita. Era così bello guardarla dormire. Vedere le sue ciglia tremare dietro le palpebre chiuse gli dava da sempre un senso di pace. In questi due anni di vita insieme Raquel gli aveva regalato qualcosa che non aveva mai avuto in tutta la sua vita, gli aveva donato la serenità. Perché lei era la sua persona, e ovunque si trovasse, se l’aveva al suo fianco, si sentiva completo.  
 
Girò nuovamente la testa verso destra e questa volta osservò la luna, sospesa nel cielo come a una regnatela, faceva capolino tra le tende bianche. I drappi si muovevano sinuosamente, come in una danza, trasportati dal vento, e la luna, sdraiata sto in mezzo alle stelle, illuminava la stanza con i suoi filiformi ricami di luce.  
 
Facendo leva con il gomito sul materasso si tirò su in una posizione seduta, con i piedi a penzoloni dal letto. Raquel alle sue spalle aveva conquistato altro spazio, occupando quasi del tutto il suo posto, nel lato destro del letto. 
 
Sergio poggiò un piede a terra, tastando con la pianta il pavimento alla ricerca delle pantofole; infilò dapprima solo la punta e poi una volta sceso dal letto, fece scivolare completamente il piede al suo interno. 
Un ultimo sguardo alla donna addormentata e poi uscì dalla stanza, chiudendo la porta alle sue spalle.
 
Era abituato a girare per casa a quest’ora della notte. Gli piaceva girare al buio, con la sola luce della luna a guidare i suoi passi. Non era necessario accendere la luce, gli bastava seguire il riflesso perlaceo sulle pareti e sul pavimento per orientarsi. 
 
I suoi passi lo portarono direttamente davanti la porta della stanza di Alicia. Si ritrovò davanti la porta in legno massello ad ascoltare i suoi pensieri ingombranti. Posò la mano sulla maniglia, con il cuore che piano piano aumentava i suoi battiti rimbombandogli nelle vene. Era un desiderio infantile il suo, ma voleva vederla solo un attimo, solo per un breve momento, e poi nel caso in cui la donna fosse stata sveglia avrebbe avuto la scusa di voler controllare la bambina. 
 
Con una lieve pressione abbassò la maniglia e lentamente aprì la porta, che scricchiolando debolmente si allontanò dallo stipite. 
 
Proprio mentre stava per infilare la testa nella stanza per controllare le due rosse dalla casa, un rumore proveniente dal piano di sotto lo fermò. Si raddrizzò immediatamente lasciando la presa sulla maniglia. Si guardò le spalle, sospettoso, ascoltando attentamente i rumori della casa. 
 
Accostò nuovamente la porta e il più silenziosamente possibile raggiunse le scale. Lungo il percorso che lo portava al piano di sotto prese tra le mani una lampada, giusto per non presentarsi a mani vuote di fronte all’intruso che si aggirava indisturbato tra il salone e la cucina. 
 
Il salone era vuoto mentre la cucina era illuminata di una luce blu, fredda, non sufficientemente forte da illuminare completamente la stanza, ma abbastanza per rischiarare l’ambiente dal buio fitto della notte. 
 
Si appiattì sulla parete accanto alla porta e chiuse gli occhi inspirando lentamente, cercando con quel gesto di calmare i nervi e di trovare il coraggio per affrontare il visitatore, con una lampada in mano come arma per intimarlo ad andare via. Diede un ultimo sguardo all’oggetto che teneva tra le mani, chiedendosi se fosse il caso di usarlo come arma e poi lo alzò in aria, con il gomito sospeso nel vuoto lo teneva saldamente dietro la testa, pronto ad utilizzarlo se fosse stato necessario. 
 
Il cuore accelera i battiti e sembra che gli scavi un vuoto nello stomaco. Martella prepotentemente nel petto, talmente forte che può sentirlo rimbombare nelle orecchie, un respiro profondo, un ultimo passo e poi con un salto attraversa la porta.
 
«Joder» 
 
All’urlo seguì il rumore del vetro che si frantumava sul pavimento.
 
«Ma sei impazzito?» gridò Alicia, annaspando tra le parole mentre cercava di riprendere fiato. 
 
Sergio era fermo a pochi passi dalla porta, la lampada ancora in equilibrio dietro la testa e il braccio proteso in avanti pronto a difendersi da un possibile attacco. Non era decisamente questa la scena che si immagina di trovare quando entrò in cucina. 
 
«Oh», disse sorpreso «Io credevo, uhm, io credevo che fosse un ladro.»
 
«Un ladro?» chiese corrugando la fronte.
 
«Sì, beh… a quest’ora della notte» 
 
La donna abbassò le spalle, con una mano sul petto nel tentativo di regolarizzare il respiro, cacciando fuori l’aria che aveva trattenuto per lo spavento. Scosse la testa guardandolo sbalordita. L’uomo era nel suo pigiama a righe, indossava ai piedi un paio di pantofole estive e dietro la testa nascondeva una lampada. 
 
Una lampada? Ma che diavolo… pensò socchiudendo gli occhi per osservarlo meglio. «Perché hai una lampada dietro la testa?»
 
«Oh, ehm, questa?» abbassò il braccio, portando la lampada davanti al suo corpo. 
 
«Sì, questa» 
 
«Ah, ecco…» ridacchiò nervosamente, rendendosi conto dell’assurdità della situazione. La donna lo guardava tra lo scettico e il divertito. «P-per il ladro» borbottò a bassa voce.
 
«Il ladro?» ci mise un secondo di più per capire le sue parole. «Oh, capisco» questa volta non tentò nemmeno di nascondere il tono di scherno nella sua voce. «Con tutte le armi che abbiamo in casa tu decidi di prendere una lampada per difenderti da un ladro?» arricciò le labbra in un broncio carino. «Siamo in una botte di ferro!»
 
Alla vista dell’espressione buffa della donna anche lui si mise a ridere, scuotendo sconsolato la testa. Possibile che doveva essere sempre così impacciato di fronte a lei?
 
Posò nuovamente lo sguardo sulla donna, notando solo ora che Alicia era in piedi, scalza, nella sua camicia da notte. I capelli sciolti le incorniciavano il viso. Una delle spalline le scendeva sulla spalla, scivolando sulla pelle chiara. Il tessuto le stringeva leggermente sul petto, abbracciando le sue nuove forme. Illuminata dal cono di luce lunare sembrava quasi eterea. 
 
Dio com'è bella. Rimase per un attimo a fissarla, imbambolato. Non era preparato a vederla in questo modo e nonostante le sue fantasie più sfrenate, la visione gli mozzava il fiato. 
 
Ai suoi piedi i frammenti di vetro del bicchiere si sparpagliavano in ogni direzione, formando una figura scomposta; spruzzi di latte sul pavimento e sulle gambe del tavolo e delle sedie.
 
Alicia aprì la bocca per parlare, ma sotto lo sguardo invadente dell’uomo non riuscì a formulare nessuna frase. Ingoiò una, due, tre volte… non aveva più niente da mandare giù. Distolse lo sguardo fissando il pavimento, non più in grado di competere in questa gara di sguardi.
 
Sergio appoggiò la lampada sul ripiano della cucina e allungandosi in avanti raggiunse il panno nella vasca del lavandino, per raccogliere le schegge di vetro dal pavimento. Si girò verso la donna e spostò con il piede i frammenti più grandi verso la gamba del tavolo.
 
Alicia fece un passo all’indietro nel momento in cui l’uomo ne fece uno in avanti verso di lei.
 
«Ahi!»
 
«No, ferma» disse Sergio, preoccupato. «Sei scalza e il pavimento è pieno di vetri»
 
Lasciò cadere il panno a terra e si spostò verso la donna. Alicia rimase in silenzio a guardarlo, come pietrificata. Si fermò di fronte a lei e prima che potesse dire qualcosa, fermandolo come al solito con una delle sue battute, la prese in braccio, soffocando il suo urlo di sorpresa nel petto. 
 
Tenendola stretta al petto si spostò per la stanza, camminando verso il tavolo, e una volta raggiunto la lasciò appoggiare sulla superficie in legno. Era incredibilmente leggera, come una bambola.  
 
Alicia lo guardava con gli occhi sgranati e le labbra semi aperte in un’espressione di pura sorpresa.
 
«Ci sono i vetri per terra e tu sei scalza» mormorò con il volto incredibilmente vicino al suo. 
 
Alicia mosse impercettibilmente la testa annuendo.
 
Le braccia di Sergio erano ancora sulla sua vita, tenendola ferma. Il tessuto leggero del pigiama si era arricciato sotto le sue dita lasciando le gambe scoperte. Il diavolo, maledetto tentatore, lo istigava ad abbassare lo sguardo e scoprire i centimetri di pelle esposta, e chi era lui per resistere a un richiamo così forte?
Attratto come dal canto delle sirene, i suoi occhi si posarono esattamente dove il tessuto formava le sue pieghe, appoggiandosi sulle cosce, poco sotto le mutandine. La luce della finestra si infrangeva sulle sue gambe rendendo la pelle perlacea. 
Era così bella e così vicina che gli sembrava quasi impossibile resistere al desiderio di toccarla. 
Sarebbe bastato così poco, doveva solo far scorrere le mani verso il basso e avrebbe sentito il calore della sua pelle tra le dita.  
 
In balia di quel pensiero strinse il tessuto senza rendersene conto, e poi, scivolando le mani verso il basso superò la barriera della stoffa e lasciò scorrere le mani sulla pelle serafica.

Era liscia come la seta e fredda come il marmo.

Ruotò le mani verso l’interno facendo scorrere le dita sull’interno coscia, guadagnandosi un sussulto da parte della donna, e poi le spostò verso l’esterno, abbandonando la pelle, poggiando i palmi sul tavolo. 
 
Alzò lo sguardo e vide il petto di Alicia alzarsi e abbassarsi più velocemente, nella disperata ricerca di regolarizzare il respiro.

Alzarsi.

Abbassarsi.

Una danza di respiri sfalsati.

Lo fissava attentamente, seguendo ogni suo movimento. 
 
Sergio percorse con gli occhi la sua intera figura e quando arrivarono al volto si rese conto del rossore che colorava le guance della donna. 
 
Era uno spettacolo per gli occhi vedere l’ispettrice Sierra arrossire. 
 
Sorridendo compiaciuto cercò il suo sguardo e rimase piacevolmente sorpreso quando si rese conto che gli occhi della donna erano fissi sulle sue labbra. 
 
La conferma che stava aspettando.
 
Si sporse in avanti annullando la distanza che li separava. Mancava così poco per toccarsi, poco più di un dito d’aria, e non c’era niente e nessuno ad interromperli questa volta. Nessuno tranne la sua coscienza.
 
Non così.
 
Non sarebbe stato giusto né per lui né per lei. 
 
Doveva prima parlarle e poi si sarebbe preso la briga di baciarla fino a toglierle il respiro. 
 
Scorrendo il pollice sulla guancia raccolse la goccia di latte che schizzando a contatto con il pavimento era finita sulla sua pelle. Continuò a fare dei cerchi sfiorandola con la punta delle dita, liberando dalla morsa dei denti il labbro inferiore che Alicia aveva iniziato a mordere nel momento in cui l’uomo aveva posato le mani sulle sue cosce nude. E poi, chinandosi in avanti, appoggiò le labbra sulla guancia, a pochi centimetri dalla bocca. 
 
Lasciò un bacio umido sulla pelle e poi, senza staccarle della guancia, le mosse fino al suo orecchio, dove le sussurrò: «Puoi farti male. Devi stare attenta»
 
Il soffio di aria calda che accompagnò le sue parole colpì Alicia sul collo, ma il brivido che innescò corse più in basso scuotendola fin dentro ai lombi.
 
Come per magia l’incantesimo terminò e si ritirò all’indietro cercando lo sguardo della donna. I suoi gesti impacciati indicavano il timore di essersi spinto troppo avanti. Si era lasciato andare seguendo il flusso dei pensieri, senza pensare alle conseguenze delle sue azioni. E queste non tardarono ad arrivare quando i loro sguardi si incontrarono nuovamente; le pupille di Alicia erano talmente tanto dilatate che avevano quasi coperto per intero il colore celeste delle sue iridi.  
 
Fiducioso della buona riuscita delle sue azioni appoggiò la mano destra sulla sua spalla nuda, accarezzandola scese fino a raggiungere la spallina con le dita, per riportarla al suo posto. 
 
La sua mano rimase lì, sulla sua pelle.
 
Il tempo sembrava essersi fermato. Circondati dal rumore del silenzio, nessuno dei due aveva il coraggio di interrompere quel momento. 
 
«Mi dispiace di averti spaventata»
 
Alicia guardò dentro gli occhi dell’uomo e rimase colpita ancora una volta da tutta la dolcezza e l’amore che racchiudevano. Aveva imparato a conoscere nuovi lati del suo carattere di cui, fino all’ultimo giorno da negoziatrice alla rapina alla banca di Spagna, ignorava completamente l’esistenza; ed ora, in questi mesi, aveva scoperto delle nuove sfumature che si erano sommate alle precedenti, e tutte queste sfumature davano colore al quadro generale che componeva l’essenza così particolare e complessa di quest’uomo. 
 
Quella notte a Madrid, mentre si nascondevano dall’esercito, aveva conosciuto il vero Sergio. 
 
Quella notte aveva lasciato entrare uno spiraglio dell’uomo dentro di lei e con il passare del tempo quel piccolo fiotto di luce aveva illuminato il suo cuore. 
 
Con la morte di Germán aveva dimenticato quanta luce c’era nel mondo, fino a quando non gliel’aveva donata di nuovo.
 
«Uhm…» si morse il labbro nervosamente. Le parole si rincorrevano nella sua mente. 
 
In tutti questi mesi di solitudine in cui aveva pensato solo e soltanto a inseguire il professore e la sua banda aveva dimenticato cosa si provasse ad essere circondata dal calore umano. Nella sua folle corsa aveva sepolto ogni sentimento, dalla tristezza all’amore, aveva sepolto ogni emozione sotto una folta coltre di polvere, lasciandole languire al buio. Ma ora, nonostante sia passato tanto tempo dall’ultima volta che era stata toccata in questo modo, poteva riconoscere benissimo la venatura di desiderio che illuminava gli occhi dell’uomo. 
 
Con la morte di Germán credeva che non sarebbe più stata in grado di provare determinate emozioni e invece ora si ritrovava seduta su questo tavolo, fremendo dalla voglia di essere accarezzata nuovamente da quelle mani di cui sentiva ancora la calda impronta sulla pelle. Era da tanto, troppo tempo, che non sentiva quel sentimento svolazzarle nel petto e poi affondare nello stomaco.
 
Questo era un altro regalo del professore, o forse no… questo era un regalo di Sergio, l’uomo che non solo l’aveva salvata dal carcere, le aveva regalato una nuova vita, le aveva costruito una casa in un’isola paradisiaca e si prendeva cura di sua figlia. 
 
Alicia mosse le sue mani e le posò su quelle di Sergio, abbassando lo sguardo. Rimase a fissare le loro mani che si cercavano ed esploravano lentamente. Le dita scorrevano una sull’altra in questo movimento lento e cadenzato. Come se avessero tutto il tempo del mondo per avvicinarsi e scoprirsi.
 
Come la donna, anche Sergio si ritrovò a guardare le loro mani unite insieme. La mano nuda di Alicia aveva un pallido cerchio bianco intorno all’anulare, il professore ci passò sopra con il dito percorrendo i bordi come se ci fosse ancora un anello ad abbellire le dita affusolate.
 
La cicatrice che aveva lasciato bruciava ancora come un metallo ardente. 
 
Il professore fece un passo avanti appoggiando i fianchi al bordo del tavolo, tra le gambe della donna. Sentiva le cosce intorno a lui tremare impercettibilmente. 
 
«Sergio»
 
L’uomo si tese al suono di quelle parole, pronunciate così debolmente. Un sussurro talmente flebile che se non avesse teso bene le orecchie non avrebbe nemmeno sentito. 
Una semplice parola che nascondeva al suo interno una miriade di domande. 
 
Cosa stiamo facendo? Chiuse gli occhi cercando di cancellare dalla mente la folle idea di piegarla all’indietro sul tavolo e infilarsi tra le sue gambe dischiuse.
 
I pantaloni tiravano verso quel desiderio e il fatto che la donna continuava a guardarlo con quelli occhi enormi e adoranti non era certo d’aiuto. 
 
Con un lungo sospiro lasciò andare le mani della donna, che ora riposavano immobili sul piano. 
 
Aveva bisogno di trovare una certa distanza fisica, visto che non poteva allontanarsi emotivamente da lei. 
 
Si allontanò facendo due passi indietro, recuperando l’aria che la sola essenza della donna sembrava avergli rubato dal petto. 
 
Con un gesto istintivo si sistemò gli occhiali, spingendoli verso l’alto. 
 
«Buona notte, Alica» allungò le labbra in un sorriso tenero, cercando in questo modo di tranquillizzare la donna.
 
 Non era successo niente, erano ancora loro e nulla era cambiato. 
 
O quasi. 
 
Dopo che l’uomo lasciò la stanza Alicia rimase seduta sul tavolo chiedendosi cosa fosse successo e cosa significasse quella puntura di rimorso che sentiva camminarle nella pelle.

Era forse il rimpianto di averlo fermato?

Avrebbe dovuto vergognarsi per le sensazioni che aveva provato nel momento in cui la loro pelle era entrata in contatto, eppure l’unica cosa a cui riusciva a pensare era al calore ancora persistente tra le gambe.
   
 
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