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Autore: HellWill    09/01/2022    0 recensioni
(Ho visto questa challenge (goo.gl/XBoRTK) e non potevo non farla. L'ho iniziata nel 2015, ma era l'anno della maturità e mi sono fermato al prompt n°23.)
"Le regole erano semplici.
Le regole erano ovvie, per chi le conosceva, e soprattutto erano disadorne di eventuali cavilli.
Le regole erano secchi, netti confini che separavano il caos del mondo là fuori dall’ordine della Villa."
Genere: Fantasy, Generale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie '365 DAYS WRITING CHALLENGE'
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9 gennaio 2022
Rules
 
Le regole erano semplici.
Le regole erano ovvie, per chi le conosceva, e soprattutto erano disadorne di eventuali cavilli.
Le regole erano secchi, netti confini che separavano il caos del mondo là fuori dall’ordine della Villa.
E Aykir era contento di rispettarle: dopotutto lì alla Villa di Perses aveva tutto ciò che poteva desiderare: cibo, acqua e precettori di certo non gli mancavano.
Neanche i libri scarseggiavano: i tomi sulla magia erano i suoi preferiti, ma divorava qualunque cosa lo istruisse sul mondo, lo stesso che non poteva vedere.
Sì, perché la prima regola della sua vita alla Villa di Perses era quella: mai, mai uscire dai confini della Villa.
Aykir aveva a disposizione, all’esterno, un’arena per allenarsi a dar di spada, una con i pagliericci per il tiro con l’arco, e infine una grande area, recintata con uno steccato, dedicata all’equitazione. E poi, ovviamente, c’era la Villa stessa. Tutte quelle aree e la Villa erano racchiuse da alte cancellate dipinte di verde; se la Villa era circondata di fertile terra ricolma d’erba novella, fuori il terreno era brullo e riarso.
L’intera Villa dipendeva dal lavoro mal pagato dei servitori, e da quello niente affatto pagato dei numerosi schiavi che abitavano alla Villa; a tutti loro era proibito parlare con lui, e lui stesso non doveva porgergli parola che non fosse un ordine.
Era una regola.
Le uniche persone con le quali interagiva da tutta la vita erano i suoi maestri e precettori, e il Sacerdote di Padre Cielo che lo aveva iniziato al culto dei Tredici Dèi.
Ah, c’era stata anche Lalla, la sua nutrice.
Ma il solo parlare di lei gli era stato proibito, e il solo pensare a lei gli faceva male, dunque un’altra regola era diventata: fare finta che Lalla non fosse mai esistita.
E Aykir la rispettava, come rispettava tutte le regole che gli venivano imposte.
Aykir aveva dieci anni, quando improvvisamente le regole cambiarono: ai piccoli schiavi non venne più proibito di parlare con lui, ma anzi, venne loro ordinato di occupare il suo tempo con giochi e dileggi.
Il bimbo non capiva il perché, ma il maestro gli spiegò di non affezionarsi a nessuno di loro: i giochi servivano solamente ad accrescere le sue abilità, che fossero strategiche tramite il gioco degli sjek, o meramente fisiche come durante l’acchiapparella o il nascondino.
Aykir ingoiò l’amaro boccone, e si disse fra sé e sé che alla fin fine le regole non erano cambiate poi di molto, dato che gli schiavetti giocavano con lui solo sotto ordine diretto e lo ignoravano se cercava la loro compagnia in altri momenti della giornata.
Alla fine, quelle regole non gli stavano strette; l’unico pensiero che le infrangeva era la sua voglia di vedere il mare – ma anche quello gli era proibito – e dopotutto era solo un pensiero, nulla più che un “e se…?” nella sua mente, che vagava libera di immaginarsi come fosse il mare solo nei momenti, rari, di noia.
Le regole volevano anche che nessuno oltre a lui venisse addestrato, o potesse leggere i numerosi libri che come per magia continuavano ad andare e venire dalla biblioteca; eppure, quando Aykir vide per la prima volta Sibath, fu come colto da un colpo di fulmine.
«Ma tu chi sei?».
«Mi chiamo Sibath» rispose il folletto, posando a terra la cassa di legna che, pur essendo due volte lui, stava portando sulle spalle. Aykir lo studiò con attenzione.
«Non sei un po’ piccolino per fare questo lavoro?» chiese, sondandolo con lo sguardo in cerca del tatuaggio della schiavitù sulla sua pelle verde smeraldo. Sibath fremette, e lo guardò con il capo inclinato.
«Forse. Ma non ci sono molte alternative, mi pare. Mi hanno accolto qui, e io li ripago in questo modo».
«Chi ti ha accolto?».
«Un uomo. Alto, capelli scuri».
«Ce ne sono parecchi così» ridacchiò il bambino, e Sibath sorrise appena.
«Sei tutto da solo?» si informò allora, e Aykir annuì. «E la tua mamma?».
Aykir lo fissò senza sapere cosa dire, e con voce tagliente ribatté:
«Non sono affari tuoi».
Sibath sussultò, poi chinò il capo.
«Mi scuso» disse piano, poi aggiunse: «Neanche io ho una madre, per quel che può valere».
Aykir inarcò un sopracciglio e poi lo studiò ancora: Sibath aveva una zazzera rossa sul capo minuscolo, ed era alto la metà di lui; in più la sua pelle era verde, e anche se era lorda di polvere e sabbia si notavano dei riflessi cangianti su di essa, come se fosse l’esoscheletro di un insetto.
«Ma cosa sei, tu?» chiese piano Aykir, complice, e Sibath gonfiò il piccolo petto.
«Sono un Fajh. Un Folletto Arboreo».
«Mai sentiti» ridacchiò il bambino.
«E qual è il tuo nome?».
«Aykir!» rispose lui, entusiasta: dunque quel folletto era nuovo, lì alla Villa… effettivamente non l’aveva mai visto prima, ma addirittura non sapere chi lui fosse?
«Oh. Mi hanno ordinato di non parlarti» specificò il folletto, e l’entusiasmo morì nell’animo di Aykir, accartocciandosi come carta in un camino. «Ma non m’importa. Sembri un tipo interessante» confessò, con un sorriso timido, e Aykir ricambiò.
«Vieni con me» gli ordinò, poi si bloccò. «Se vuoi» aggiunse, per mitigare l’imperativo. Sibath si guardò intorno, poi gli diresse un’occhiata incuriosita.
«Che vuoi fare?» gli chiese mentre lo seguiva.
«Farti un favore, spero».
E così si diressero alle aule della Villa, in cerca di qualcosa o, forse, di qualcuno in particolare.
«Oh! È lui che mi ha accolto» sussurrò Sibath, intimorito dalla stazza dell’uomo, e Aykir sorrise.
«Maestro Trevor» disse, schiarendosi poi la voce. Il maestro non si voltò: stava studiando un libro di addestramento alle armi, forse un manuale, e dava loro le spalle.
«Aykir. Non abbiamo lezione, almeno non fino a dopo pranzo» gli disse con calma, e il bambino si umettò le labbra.
«Vorrei chiedervi un favore».
Il maestro Trevor a quel punto si voltò: nel vedere che c’era qualcuno con lui, aggrottò la fronte.
«Che favore? E cosa c’entra quel servo?» chiese, senza intuire dove andasse a parare la situazione.
«Vorreicheloaddestrasteconme, per favore?» disse in un solo fiato il bambino. Il maestro Trevor brontolò.
«Scandisci bene le parole» lo rimbrottò, e Aykir si guardò i piedini nudi e abbronzati, in imbarazzo.
«Vorrei… vorrei che lo addestraste con me. Per favore» lo pregò, alzando gli occhi su di lui.
«Hai una motivazione, per questa strana richiesta?».
Aykir annuì, e Trevor gli fece cenno di esporla.
«Prima di tutto, l’hanno messo a caricare casse di legno. Lui è forte, ma non dovrebbe farlo. Guardatelo! È minuscolo, è alto la metà di me» disse con foga, e il maestro Trevor studiò il folletto che, intanto, si era fatto piccolo piccolo dopo la richiesta di Aykir: era spaventato dalle implicazioni di quella richiesta, e si vedeva che non era stata una sua idea.
«In più» continuò il bambino «essendo così piccolo ed esile evidentemente sarà molto veloce, e agile. Secondo me potrebbe essere un’ottima spia per studiare i movimenti nemici» concluse, e il maestro Trevor si grattò la barba, soprappensiero.
«Quel che dici è giusto, e dettato da nobiltà d’animo nel voler aiutare il tuo prossimo. E combattere con qualcuno della tua stazza sarebbe un ottimo allenamento» rifletté l’uomo ad alta voce. Aykir lo guardò speranzoso. «E sia» concluse l’uomo lentamente. «Ma dividerete la stessa stanza, dato che non vuoi che sia un servo».
«Per me possiamo condividere anche lo stesso letto, maestro! Grazie, grazie infinite!» disse il bimbo, entusiasta.
Quello fu l’unico strappo alle regole della Villa di Perses che Aykir riuscì ad ottenere: Sibath si sarebbe allenato con lui e, quando il suo addestramento fosse risultato completo, sarebbe andato per il mondo a raccogliere informazioni al posto suo.
 
   
 
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