Serie TV > Il paradiso delle signore
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Autore: InvisibleWoman    09/01/2022    1 recensioni
Questa ennesima one shot si ricollega a tutte le altre #irocco. Rocco è a Roma a lavorare come ciclista professionista, Irene lo va a trovare, ma le cose non vanno esattamente come si aspettava. Perché Rocco è strano, è scostante, ma la soluzione è molto più semplice e banale di quanto Irene immaginava.
In genere mi ispiro agli eventi della soap, ma li tratto a modo mio e ovviamente li adatto alla mia ship. Quindi Rocco è sparito come lì, ma c'è una motivazione e soprattutto non sparisce per così tanto tempo e non tratta Irene come tratta Maria.
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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“Signorina Irene” esclamò Armando entrando di tutta fretta in galleria pochi istanti prima della pausa pranzo. “Guardi qui! Sta diventando un gran campione il nostro Rocco, eh. Tra un po’ se lo contenderanno i migliori allenatori. Chi lo sa, magari persino all’estero!” continuò tutto esaltato, senza prestare minimamente attenzione alle parole che pronunciava e come queste potessero essere colte da Irene, che fissava quel foglio con aria tesa. 
Era passato un altro mese e mezzo dall’ultimo loro incontro e Irene iniziava di nuovo a sentire la frustrazione. Mancava un mese esatto a Natale e sapeva che Rocco sarebbe tornato a casa per festeggiarlo in famiglia, dunque aveva deciso di andare lei per la prima volta a Roma quel fine settimana, così da poter avere un incontro in più e dei giorni da passare insieme da soli, prima delle feste. Era però da qualche giorno che Rocco le sembrava strano al telefono. Le sue telefonate si erano fatte meno frequenti e ultimamente non faceva altro che parlare di loro due, anziché del lavoro, portandola a chiedere se non ci fosse qualcosa che non andava. 
“Non se lo contendono solo gli allenatori” sentenziò Irene priva di intonazione, sbattendo il giornale sul bancone. Fece il giro per tornare a prendere posto alla sua postazione e iniziò a ripiegare con furia i maglioncini che la signora Terenzi le aveva fatto tirare fuori, per poi comprare una banalissima camicetta rosa, come ne aveva già a decine nell’armadio. 
“Ma dai, signorina Irene! In quell’ambiente funziona così, non significa niente” cercò di rassicurarla lui  con un sorriso. 
“Cosa non significa niente?” sbucò all’improvviso Stefania, pettegola come sempre. “Cos’è questo?” chiese prendendo in mano il giornale ancora abbandonato sul bancone. 
“Che bello! Rocco ha vinto un’altra gara! Non sei contenta?” chiese Stefania con tono allegro.
“E pure una importante!” le fece eco Armando.
“Certo che sono contenta” rispose Irene continuando a piegare i maglioni. 
“Si vede, hai una faccia…” ribatté Stefania, appoggiandosi coi gomiti al bancone per poter vedere meglio in volto la sua migliore amica che teneva ancora la testa china sugli abiti. “Che cos’ha?” chiese poi a bassa voce al signor Armando, come se lei non fosse presente o non potesse sentirla.
“Ma niente, la signorina Irene l’è un po’ preoccupata per le signorine insieme a Rocco” la informò lui con leggerezza,  prendendo quasi in giro la gelosia a suo dire immotivata di Irene.
“Quali signorine?” domandò Agnese con la borsetta tra le mani. La sua pausa pranzo era già evidentemente cominciata, a differenza della loro. Ci mancava solo lei, pensò Irene, sospirando profondamente. 
“Si chiamano ombrelline, sono le ragazze che premiano i vincitori di ogni gara. Fanno così con tutti” Armando giustificò il comportamento di Rocco, lanciando uno sguardo prima alla signora Agnese e poi a Irene. 
“Anche gli uomini fanno così con tutte” ribatté quest’ultima, ancora tagliente e diretta come un coltello.
Agnese si scambiò un sorriso di intesa con Armando e roteò gli occhi al cielo. Non era lei la persona più adatta per rassicurare quella ragazza, ma come poteva esimersi quando si comportava in modo tanto drammatico come suo solito?
“Ma finiscila, Irè” le ripose anche lei con la stessa franchezza, caratteristica che entrambe avevano in comune. “Ma che vuoi che gli interessi a Rocco delle altre ragazze, amunì. Quello solo a te guarda. Purtroppo” aggiunse poi, sogghignando con Armando, mentre se lo trascinava via dal grande magazzino per portarlo in caffetteria con lei. 
“Fossi in te così sicura non sarei” spuntò Gemma alle sue spalle, strappando il giornale dalle mani di Stefania. 
“Cosa vuoi dire?” domandò lei, cascando dal pero. 
“Come che voglio dire? Non avevo mai visto questo Rocco, ma è un bel ragazzo. Tutto solo in una città nuova, senza nessuno che lo tenga d’occhio....” lasciò in aria l’allusione, stringendosi tra le spalle come se avesse detto una cosa di poco conto. “Io al mio uomo non avrei mai permesso di andarsene tanto lontano senza di me” concluse lanciando di nuovo il giornale, per poi allontanarsi ancheggiando, lasciando dietro di sé una scia di dubbi e preoccupazioni.
“E se avesse ragione?” domandò Irene d’un tratto, dopo che entrambe ebbero il tempo di metabolizzare l’uscita a effetto di Gemma. 
“Ma che dici, Irene!” rispose Stefania andandole accanto. “La signora Agnese ha ragione: Rocco non ha occhi che per te.”
“Ma se ci vediamo a stento una volta al mese!” sbottò Irene. “Durante il resto del tempo diventa cieco?” protestò contro l’amica. “Cosa ne sappiamo noi in fondo? E se avesse ragione Gemma?”
“Quando mai Gemma ha ragione?” scherzò Stefania, circondando la vita della sua amica con un braccio, dandole al contempo un colpo al fianco. “E poi quale sarebbe stata l’alternativa, scusa? Impedirgli di partire? O andartene tu lì a fare chissà che cosa? Lo sai che non c’era altra soluzione. Gemma è solo invidiosa” le schioccò un bacio su una guancia.
“Fatto sta che appena vado a Roma gli stacco la testa comunque” asserì decisa Irene, mentre la figura di Gloria si avvicinava alla loro postazione intimando alle due, con aria fintamente minacciosa, di tornare al lavoro perché la pausa non era ancora cominciata. 
 

Quella mattina di fine novembre Irene era diretta a Roma. A nulla erano servite le lamentele di Agnese, che riteneva poco adatto che una signorina giovane e nubile come lei se andasse in giro per l’Italia da sola. 
“Quando mai s’è visto che la fimmina se ne va da sola a trovare lo zito” borbottò sull’uscio, mentre Irene teneva tra le mani la sua piccola valigia. Era stata un’impresa riuscire a farci stare dentro tutto l’occorrente, ma dato che era da sola non voleva portare con sé troppo peso. Non sapeva per quanto tempo si sarebbe portata dietro quella valigia. A dirla tutta non sapeva niente. Aveva sentito Rocco al telefono un paio di giorni prima, e dalla voce non sembrava particolarmente entusiasta del suo arrivo. 
“E se avesse qualcosa da nascondere? Continuava a dirmi che non era necessario, che tanto tra un mese sarebbe venuto lui a Milano. Sembrava come se non volesse farmi partire” aveva detto a Stefania la sera che aveva ricevuto quella telefonata. 
“Ma figurati se Rocco potrebbe mai nascondere qualcosa” la prese in giro lei, portandole al tavolo una tazza di camomilla fumante, perfetta e confortante dopo una lunga giornata di lavoro e un ritorno a casa a piedi nel freddo pungente di novembre. 
“Non lo so” si lamentò Irene, come se percepisse che qualcosa non andava. Lo conosceva ormai bene, certamente meglio di Stefania, ma forse persino pure di sua zia Agnese, che continuava a ignorare e liquidare ogni sua preoccupazione. A dirla tutta Agnese faceva sempre così con lei. La riteneva sempre poco paziente, poco accomodante. Aveva notato quell’occhiata di intesa tra lei e il signor Armando, come a voler dire “eccola qui, di nuovo con le sue inutili lamentele”. Eppure il suo sesto senso le diceva che aveva ragione. 
“Non si preoccupi, signora Agnese, che vuole che succeda? Vado dritta da qui alla stazione, e lì ci sarà Rocco a prendermi. Non faremo niente che lei non farebbe” scherzò Irene, consapevole  che di cose che la signora Agnese non avrebbe mai approvato, in realtà ne avevano già fatte parecchie. Come l’ultima volta in cui era venuto a Milano e si era addormentato sul suo letto, stretto tra le sue braccia, costringendo Stefania a rintanarsi in camera di Maria, occupando il letto vuoto che un tempo era stato di Anna. La prossima volta che Rocco sarebbe venuto a Milano, però, il problema non si sarebbe ripresentato, dato che Stefania si stava per trasferire a casa di suo padre.
Durante il tragitto in treno aveva abbandonato ogni preoccupazione, perché sapeva che di lì a poco l’avrebbe rivisto e tutto sarebbe diventato più chiaro. Che senso aveva rimuginarci su? Non aveva idea di come occupare il proprio tempo, ma la signora Agnese le aveva intimato di non addormentarsi, perché una donna da sola non poteva concedersi il lusso di abbassare la soglia dell’attenzione. Così aveva deciso di tenersi occupata con un libro che Stefania le aveva prestato, abbandonandolo dopo poco in favore di un paio delle sue riviste che segretamente si era infilata in valigia. 
Quando arrivò a Roma, si affrettò fuori dal treno e cercò Rocco sulla banchina. In quel sabato di fine novembre, così ravvicinato alle feste Natalizie, la stazione era particolarmente affollata. Per un attimo Irene si sentì spaesata e sopraffatta. Era da sola in un luogo che non le era familiare, circondata da gente che non conosceva. Le vennero alla mente i consigli della signora Agnese e tutte le possibili sventure che potevano capitarle, e per un attimo fu quasi colta dal panico. Poi inspirò profondamente, alzò la testa e si ricompose. Sei Irene Cipriani, non una Maria Puglisi qualsiasi. Sei una donna di mondo, anche se poi questa è la tua prima volta fuori dalla Lombardia. Ce la puoi fare!
“Signorina, le serve aiuto?” un giovanotto di bell’aspetto le si avvicinò, offrendosi di prenderle la valigia e accompagnarla fuori dalla stazione, fino alla sua destinazione. In un primo momento fu tentata di accettare, poi ancora una volta la voce della signora Agnese nella sua testa distrusse ogni entusiasmo. Dopotutto Rocco doveva essere lì, e in caso non ci fosse stato, sarebbe venuto a prenderla di lì a poco. 
“No, grazie, il mio fidanzato sta arrivando” bloccò immediatamente qualsiasi strano pensiero potesse aver fatto quell’uomo e lo osservò allontanarsi fuori dalla stazione con aria noncurante. Un tempo Irene avrebbe accettato con estrema gioia le attenzioni di un uomo come quello. Non sembrava particolarmente benestante, ma era distinto, un po’ come il dottor Conti. Il primo periodo dopo l’assunzione al Paradiso, Irene avrebbe fatto carte false proprio per il suo datore di lavoro. Tutte le Veneri avevano passato una fase di cotta nei suoi confronti, e chi lo negava mentiva a se stessa e alle altre. Poi però Jane aveva incontrato il suo Tarzan e Vittorio Conti aveva smesso di essere una fantasia. 
Dato che di Rocco non sembrava essercene traccia, avanzò spedita verso l’uscita, pensando che forse l’avrebbe trovato lì fuori ad aspettarla, magari in sella alla sua bici. Si immaginava già svolazzare in giro per Roma come in Vacanze Romane. E anche se nel suo caso ci sarebbe stata una bici e non Gregory Peck sulla sua vespa, a Irene andava più che bene. Si strinse il fazzoletto sul collo, proprio come lo portava Audrey Hepburn, e si incamminò all’esterno. Non c’era bisogno di chissà quanta attenzione per rendersi conto che di Rocco Amato non v’era nessuna traccia. Man mano che i minuti passavano, la gioia di trovarsi lì si tramutava lentamente e inesorabilmente in rabbia profonda. Come aveva potuto lasciarla lì da sola al freddo? Per quasi un'ora i passeggeri si erano avvicendati dentro e fuori la stazione, e qualcun altro si era nuovamente offerto di aiutarla. All’ultimo aveva quasi detto di sì, presa dalla frustrazione e dallo sconforto. Poi aveva messo mano al portafogli e aveva chiamato un taxi che l’aveva portata davanti all’ennesimo buco nell’acqua. 
Perché anche all’indirizzo che Rocco le aveva lasciato e a cui lei aveva spedito le sue ultime lettere, non aveva trovato l’uomo che cercava. Era sull’orlo di una crisi di nervi e se quel farabutto avesse alla fine avuto l’ardire di farsi trovare, Irene non sapeva se ne sarebbe uscito con ancora gli arti al proprio posto.
“Signorì, non so che dirle io” le disse affranto il vecchio padrone di casa di Rocco. “Giusto sei giorni fa ha preso le cose sue e se n’è annato. Dove non glielo so dire, però qua c’è l’ultima lettera che lei gli ha mandato. E’ arrivata ieri” aggiunse porgendole una missiva. 
“La ringrazio. Posso chiederle il disturbo di fare una telefonata?” domandò Irene, intenzionata a chiamare la signora Agnese per spiegarle la situazione, sfogarsi e, soprattutto, farle ammettere che aveva avuto ragione lei: c’era qualcosa che non andava con Rocco e quella ne era la dimostrazione. Anche in una situazione drammatica come quella, il suo primo pensiero era quello di averla vinta con la signora Agnese. 
Proprio mentre finiva di comporre il numero, un Rocco trafelato fece il suo ingresso, appoggiandosi allo stipite della porta per il fiatone. 
“Brutto farabutto, mascalzone, pezzo di…” Irene venne interrotta da Rocco che si avvicinò per prenderle una mano e portarla fuori dalla sua vecchia pensione prima che desse in escandescenza e pronunciasse epiteti che una brava signorina non avrebbe dovuto, specialmente davanti a tutti, pure se quel ‘tutti’ era solo il suo vecchio padrone di casa. 
“La ringrazio signor Felici, buona serata!” esclamò di tutta fretta, trascinandola fuori di lì. 
“Ma ti rendi conto di quello che hai fatto?” gli vomitò addosso tutta la sua rabbia, gettando la valigia per terra, dritta sul suo piede destro.
“Ahia! Irè, aspetta!” disse lui zoppicando. 
“Aspetta un corno. Avevo promesso che ti avrei staccato la testa, ma adesso penso che sia troppo poco” continuò furiosa, sull’orlo delle lacrime. 
“Lo so, lo so, mi dispiace! Ti prego, perdonami” avvicinò due mani in preghiera implorandola.
“Mi hai lasciata da sola in una città che non conosco per più di un’ora, ti sei dimenticato di me, hai cambiato alloggio e non me lo hai detto. Cos’altro c’è che non so, eh? Cosa stavi facendo di così tanto importante? Con chi ti stavi intrattenendo?” gli urlò dritta in faccia. Non gli avrebbe dato la soddisfazione di vederla piangere. Voleva solo fargliela pagare. Quanto si era pentita di essere andata. Avrebbe dovuto ascoltare la signora Agnese e restare lì. Lui di certo non ne valeva la pena. Non meritava i suoi sforzi. 
“Ma come intrattenendo” rispose lui spiazzato. “Pensi che c’ho un’altra? Pensi che potrei farti una cosa come questa?”
“Non lo so più, ormai. Quante cose non mi hai detto? Chi sei diventato?”
Per un attimo Rocco la guardò ferito da quelle allusioni. Deglutì a fatica il groppo che sentiva in gola, ma poi riprese a implorarla. Sapeva di essere in torto. Gli dispiaceva pensare che lei non avesse alcuna fiducia in lui, tanto da imputargli un comportamento tanto meschino, ma doveva lasciarsela scivolare addosso, perché al momento era lui in difetto e doveva farsi perdonare.
“Irè, ti prego, ti posso spiegare.”
“Spiegaglielo a chi interessa” concluse lei, riafferrando la sua valigia da terra per allontanarsi da quella zona che per fortuna non era troppo frequentata da gente che poteva assistere alla loro sceneggiata senza neppure dover pagare un biglietto. 
“Irè, ho fatto una stupidaggine” disse d’un tratto, spiazzandola. Dall’espressione che vide formarsi sul suo volto, si rese conto solo dopo di aver scelto la combinazione di parole sbagliata. 
“No, non quella che pensi tu” ammise arrestandosi di colpo, smettendo di andarle dietro, nella speranza che lei incuriosita tornasse indietro per lasciarlo parlare. Ma quando vide che lei continuava imperterrita a proseguire, la chiamò nuovamente. Irene si voltò, e lo trovò lì fermo in piedi con le braccia lungo i fianchi, sconsolato, come se non avesse le forze di litigare. Peccato che Irene ne avesse invece in abbondanza per entrambi. Avrebbe voluto prendere quella valigia e sbattergliela in testa ripetutamente fino ad aprirgliela in due  come un cocomero. In quel momento vederlo in quel modo, inerme, le procurava persino ancora più rabbia. Come poteva starsene lì impalato quando era proprio lui quello che doveva farsi perdonare. Cosa si aspettava? Che lei gli andasse dietro come un cagnolino? Aveva proprio sbagliato persona. Era talmente delusa e amareggiata, da essere pronta ad andarsene e non fare mai più ritorno. Non aveva alcuna intenzione di tornare sui propri passi, e la sua faccia da cane bastonato non sortiva in lei alcun effetto pietoso. 
“Le tue stupidaggini non sono più affar mio” si strinse nelle spalle lapidaria, tornando a voltarsi per avvicinarsi alla fine della strada. Sperava di vedere passare di lì un altro taxi per riportarla in stazione. I biglietti di ritorno erano per l’indomani pomeriggio, ma ne avrebbe pagati di nuovi, pur di andarsene di lì il prima possibile. Per quel viaggio infruttuoso ci aveva praticamente rimesso l’intero stipendio. Pensò che gli avrebbe chiesto i danni, quando avrebbe sbollito la rabbia. Magari sotto Natale, quando sarebbe tornato a Milano per stare con sua zia. Sì, lì l’avrebbe affrontato e gli avrebbe chiesto di ripagarla per quel viaggio inutile che le aveva fatto compiere. Non intendeva lasciargliela passare in alcun modo.
“Ti prego, Irè, mi ascolti? Se quello che ti devo dire non ti convince, te lo pago io il taxi per la stazione. Tu giuru” disse portandosi due dita alle labbra come faceva spesso. Vedendo che Irene non si voltava più, decise di raggiungerla lui stesso. Sapeva quanto fosse cocciuta e quanto, in quel caso, sarebbe stata determinata a tenere il punto. In fin dei conti aveva anche ragione. Doveva essere lui a colmare quella distanza che lui stesso aveva creato. 
Si avvicinò a lei e cercò di afferrarle la mano libera per portarla alla panchina di ferro posta a pochi passi da loro. Ma quando la sfiorò, la vide ritrarsi immediatamente, come se il suo tocco lo trovasse ripugnante. Ciononostante, lei si andò a sedere accanto a lui, mettendo la piccola valigia tra loro due, come a mostrare quella netta divisione che tra di loro si era venuta a creare. Un muro che lei aveva eretto nuovamente, dopo i tanti mesi che gli ci erano voluti per abbatterlo e conquistare il suo cuore. 
Rocco non sapeva come cominciare. Si sentiva uno stupido, perché l’errore che aveva commesso era stato un errore di ingenuità e adesso aveva il terrore di essersi giocato tutto. Letteralmente tutto, se avesse perso anche lei. 
“Allora? Se non prendo il treno adesso, arrivo a Milano a notte fonda” commentò lei spazientita dal suo silenzio. 
“Io spero che alla fine tu non lo prendi quel treno” disse rabbuiato Rocco. Ottenne solo uno sbuffo contrariato da Irene, ma nessun accenno a voler mettere fine a quella guerra. Non gliene dava torto, ne aveva tutte le ragioni.
“A quanto pare, dopo l’ultima gara, mi sono strappato un muscolo” ammise a testa bassa. Era stato un vero e proprio idiota. Quando era andato a Milano da lei, e l’aveva vista così abbattuta, non se l’era sentita di dirle la verità su come si sentiva lui stesso. Le aveva solo fatto capire che anche per lui era difficile, ciò che non le aveva rivelato era quanto. Aveva legato col suo coinquilino Giacomo e aveva stretto legami anche con gli altri membri della squadra. Ma non era la stessa cosa. Rocco in genere stava molto sulle sue, non riusciva con facilità a stringere amicizie importanti e lì a Roma da solo gli mancava la terra sotto ai piedi. Aveva dovuto imparare come arrangiarsi in tutto, in ogni circostanza. Aveva dovuto provare a cucinare, anche se per fortuna in genere era Giacomo quello che si dava più da fare in quell’ambito. Avevano dovuto imparare a farsi il bucato da soli, dato che non avevano ancora abbastanza soldi per assumere qualcuno che li aiutasse. Ma non erano le parti pratiche a rendergli difficile quel trasferimento: erano le persone. Non aveva la sua famiglia, non aveva la sua Irè, non aveva il signor Armando. Si sentiva come un pesce fuor d’acqua. Lì non era il re del magazzino, lì non aveva dei piccoli Pietro da comandare a bacchetta o battere sulle piste. Lì si faceva sul serio, erano tutti estremamente competitivi e l’allenatore pretendeva tanto da lui. Aveva il timore di non essere all’altezza.
“E quindi?” ribatté Irene scettica, incrociando le braccia al petto. 
“E quindi significa che dovrò stare fermo per un poco. Non posso allenarmi, Irè” la fece semplice lui, con un velo di tristezza negli occhi. 
“E quindi?” ripeté ancora una volta, cercando di capire quale fosse realmente il punto di quella questione che a lei sembrava di poca importanza. Doveva stare fermo per qualche giorno, per qualche settimana, ma poi avrebbe ripreso e tutto sarebbe tornato alla normalità. Per quanto fosse spiacevole, non era una tragedia come la faceva sembrare lui. 
“Ma comu e quindi” esclamò lui con sorpresa e una punta di offesa. “Il mio futuro potrebbe essere a rischio e tutto quello che hai da dire è ‘e quindi’?” esclamò lui punto sul vivo.
“Ti sei strappato un muscolo, non ti sei amputato una gamba” commentò lei con una strizzata di spalle. 
“Sono qua da nemmeno cinque mesi, Irè. Dovrò stare fermo almeno tre settimane. Non mi posso allenare. E ho fatto la figura dello stupido. L’allenatore non mi pare soddisfatto e io c’ho paura che mi dice che non sono pronto per questa carriera, che ho fatto il passo più lungo della gamba. Letteralmente, tra l’altro” le rivelò. “Perché Irè… io l’ho fatto apposta. Io lo sapevo che non dovevo spingere tanto, lo sentivo.”
“E allora perché l’hai fatto?”
“Eh perché… perché volevo che eravate fieri di me” ammise abbassando la testa sulle proprie mani. 
Irene si voltò a guardarlo e se Rocco l’avesse osservata, si sarebbe reso conto che i suoi tratti si erano già addolciti davanti a quella confessione. Non le era passata, era ancora arrabbiata e c’erano ancora tante cose che avrebbe dovuto spiegarle. Ma in quel momento le sembrò tanto… piccolo. Come un cucciolo a cui non si poteva dire di no, perché quale mostro nega un po’ di compassione a un paio di occhietti adoranti? Eppure non voleva dargliela vinta. Non se lo meritava. Tuttavia, decise di compiere l’unico gesto che poteva non compromettere del tutto la propria posizione: prese la valigia e la poggiò per terra, accanto ai suoi piedi. 
Rocco lo notò e approfittando di quel gesto di apertura nei suoi confronti, cercò di allungare nuovamente la mano per cercare la sua, che stavolta lei non rifiutò.
“E’ per questo che sono stato distratto, che non volevo che venivi qua. Non volevo che scoprivi la verità. Mi dispiace, Irè. Mi dispiace tanto” disse annodando le proprie dita con le sue. 
“Ma io non capisco perché tu l’abbia fatto. Siamo tutti fieri di te, Armando non fa che parlare dei tuoi successi, tua zia racconta a tutti quelli che conosce del suo nipote ciclista. Salvo ha appeso il tuo stendardo in caffetteria sopra il jukebox. Devi vederli come sono contenti tutti” commentò Irene con voce dubbia. Non riusciva davvero a capire cosa si celasse dentro quella testa piena di ricci, che talvolta sapeva essere per lei come un libro aperto, mentre in altre occasioni sarebbe stato più semplice tradurre i geroglifici preistorici. 
“Certo, perché vinco” le fece notare con una piccola smorfia. “Erano ancora contenti se io non vincevo niente? Se stavo qua cinque mesi e non c’erano progressi, non stavano tutti a chiedersi se forse avevo preso la decisione sbagliata? Non pensavano che ci stavo a fare a Roma da solo?” abbassò la testa. Sentiva addosso la pressione delle aspettative, e questa cosa Rocco non era mai stato bravo ad accettarla, ma lo mandava ancora più in confusione, perché lo riportava sempre a quel senso di inadeguatezza che si era insinuato nelle sue vene sin dalla nascita a causa di suo padre.
“Roma non è stata costruita in un giorno” gli ricordò Irene.
“Chi c’entra uora Roma?” chiese lui con confusione.
“Significa che i progressi non avvengono nel giro di una notte. Se non avessi vinto niente, non significava che stavi perdendo tempo. Significava che ti stavi impegnando per migliorare con una squadra e un allenatore più importante e capace di quanto potesse essere il signor Armando, con tutto il rispetto per lui. E poi sei sempre stato il più forte a Milano, sono sicura che avresti dato del filo da torcere pure qua, senza bisogno di strafare.” Ed era convinta delle sue parole. Non aveva dubitato un momento delle capacità di Rocco. Era sempre stata la sua più grande tifosa, lo aveva spinto a perseguire su quella strada e, insieme alle altre ragazze, aveva persino fondato una sorta di tifoseria.
“Non è vero, Irè. A Milano mi sfidavo cu Pietro e Nino, avà. Qua è un’altra cosa” protestò lui con quel tono lamentoso che lo contraddistingueva. 
“Eppure un allenatore ti ha notato e ha visto in te del potenziale” si strinse nelle spalle lei, come per sottolineare quanto fossero inutili le preoccupazioni di Rocco.
“Lo so che ho sbagliato” ammise lui arricciando le labbra. “Su tante cose.”
“Questa storia non può funzionare se non siamo disposti a parlare apertamente l’uno con l’altra” Irene a un certo punto gli confessò. Vivevano già a sei ore di treno di distanza, si sentivano poco, si vedevano ancora meno. Se avessero pure smesso di raccontare della propria vita e di ciò che li impensieriva, sarebbero lentamente diventati degli estranei, e non era affatto quello che Irene voleva. “Io sono la tua fidanzata, dovrei sapere cosa ti passa per la testa. Dovresti confidarti con me se stai male, non tenermi a distanza e fingere che stia andando tutto bene.”
“Te lo giuro che non succederà più, Irè” le promise. “E’ che è diverso al telefono” si giustificò. In genere Irene era sempre stata una delle prime persone a cui si rivolgeva quando aveva qualche dubbio, perché sapeva sempre come portarlo a ragionare e prendere la decisione che fosse più giusta per se stesso. Ma adesso che era lontana, non era più altrettanto semplice. Sentiva come se lei gli stesse scivolando via dalle dita a poco a poco. Era una sensazione strana che non sopportava.
“Non è che hai cambiato idea?” gli domandò col cuore in gola. 
“Su cosa?” ricambiò lui perplesso. 
“Su di me. Su di noi. Magari hai troppe cose in ballo e gestire anche questa cosa è diventato troppo complicato. Magari hai…”
Rocco la interruppe tirandole la mano che teneva ancora stretta nella sua. “Au ma che dici? Su tante cose ho dei dubbi, Irè. Ma su di te mai” le disse con una tale solennità che Irene non poté fare a meno di sorridere. Tutta la rabbia di pochi istanti prima sembrava essersi dissolta nel giro di un attimo. Bastava davvero così poco per farsi perdonare? O lei si era addolcita troppo? Non andava bene, non poteva perdere anche la propria proverbiale verve. 
“Sarà. Chissà con chi ti consoli quando non ci sono io” si strinse nelle spalle con diffidenza.
“Ma con chi mi devo consolare, avà! Finiti gli allenamenti torno a casa e me ne vado a dormire, che sono più stanco di quando sollevavo scatole tutto il giorno, amunì” protestò Rocco. “Ma poi scusa, pensi veramente che potrei farti una cosa così?”
“Non lo so. Se ti fai sbaciucchiare come in quella foto di giornale è possibile…” commentò Irene.
“Che fai sei gelosa?” ridacchiò Rocco, prendendoci gusto. 
“Ma va, era così per dire” si giustificò lei, senza successo. 
“Irè, a me non mi interessa di nessuna. Perché dovrei guardare le altre quando qua c’ho la più bella fimmina di Milano, ah? Dove la trovo mai un’altra come a te” disse avvicinandosi a lei per stamparle un bacio su una guancia.
“Appunto. Ricordatelo” si tirò su lei con fare convinto. Poi si rimise in piedi, prese la valigia e iniziò a fare qualche passo.
“Au, dove vai?” esclamò di colpo.
“Non mi porti a casa tua?” chiese.
“Cettu” rispose raggiungendola e circondandole le spalle con un braccio. 
“Non pensare di cavartela tanto facilmente” gli fece notare lei allontanandosi dalla sua presa per cercare di mantenere almeno un minimo di credibilità. 
 

Durante il tragitto le aveva spiegato che si era trasferito in quell’appartamento da poco più di una settimana e visti i tanti pensieri che gli affollavano la mente in quel periodo, si era dimenticato di avvisarla. Irene lo osservava scettica, e anche un po’ offesa, ma cercò di non darci peso per non guastarsi anche il resto della giornata. Avrebbe tastato il terreno con Giacomo, per capire se Rocco diceva effettivamente la verità. 
L’appartamento era piccolo, com’era normale che fosse dato che vi abitavano due uomini. Come il suo, aveva una stanza dedita alla sfera sociale, e due camere da letto ai lati opposti di quell’unica stanzona dove si trovava la cucina, un tavolo al centro e un divano e una poltrona sotto una finestra di medie dimensioni, dalla quale però c’era una bella vista su Roma. Era spoglia e questo combaciava con l’ipotesi del trasferimento repentino.
“Qual è la tua?” domandò a Rocco, abbandonando il cappotto sopra una delle sedie da pranzo. 
“Quella a destra” rispose lui, iniziando a farle strada. Anche la camera da letto era semplice: solo un letto matrimoniale con dei comodini, una cassettiera e una sedia. L’unica differenza dalla camera di Giacomo, le spiegò lui, era quel piccolo scrittoio posto sotto una finestra a lato del letto. 
“Tanto Giacomo non ha nessuno a cui scrivere” disse, giustificando così la scelta della camera più adatta a lui. “E in casa non c’è mai” continuò con una strizzata di spalle. In effetti, quando erano arrivati, il suo nuovo amico non era presente. Irene ci teneva davvero a conoscerlo, a prescindere dai suoi sospetti. 
“Perché non c’è mai?” domandò lei spostandosi nuovamente nella stanza più grande, sedendosi con le ginocchia sul divano per poter osservare meglio la città dalla finestra. 
“Picchì è fimminaru com’era Salvo. Quello sta sempre con una diversa ogni settimana.”
“Beato lui che si diverte” rispose lei con una smorfia.
“Quindi pure tu vorresti trovarti un altro con cui divertirti a Milano, ah?” aggrottò le sopracciglia.
“Tu hai le tue ombrelline e a me cosa resta?” commentò Irene. 
“Ma quali ombrelline e ombrelline. L’umbrellu in testa tu rugnu a tia (ti do a te)” esclamò lui indignato.
“Non sai quanti uomini mi facciano la corte nell’ultimo periodo” si vantò Irene con sufficienza. 
“E allora l’ombrello ce lo do in testa pure a quelli” disse lui sedendosi sul divano. Non aveva bisogno di osservare la città dalla finestra come stava facendo Irene, lui la vista migliore ce l’aveva già lì davanti agli occhi. Passò lo sguardo sulla sua gonna sollevata per potersi poggiare sulle ginocchia senza strapparla. Le scarpe che erano scivolate sul pavimento. La forma del suo corpo sinuoso mentre si sporgeva in avanti. E tutto quello che avrebbe voluto fare era toccarla, stringerla a sé e non lasciarla più andare. Altro che corteggiatori e  corteggiatori, lei era sua e lui era stato uno stupido ad allontanarla per timore di non essere abbastanza. Ancora.
Irene, come se potesse sentire gli occhi di Rocco sul proprio corpo arderle la pelle, si voltò e lo guardò con l’aria di chi aveva in mente solo brutte intenzioni. Aveva detto alla signora Agnese che non avrebbe fatto nulla che non avrebbe fatto lei stessa, ma sapeva già in partenza che sarebbe stata una bugia. Perché nel vedere la testa di Rocco appoggiata allo schienale del divano, gli occhi che la guardavano come se stessero vedendo la cosa più bella dell’intero universo, quella promessa sarebbe stata impossibile da mantenere. Si sollevò ancora un po’ di più la gonna e si mise cavalcioni su di lui. Le mani di Rocco istintivamente si portarono dietro la sua schiena, poco più in giù dei suoi fianchi. 
“Che fai, Irè?” esclamò a tratti eccitato, a tratti spaventato. Non potevano fare quello che stavano facendo, era sbagliato
“Recupero il tempo perso col mio fidanzato, non si può?” rispose lei chinandosi sul suo collo per posargli una scia di baci.
“Amunì, Irè” cercò di ribellarsi lui, senza successo. Non aveva idea di quanto fosse complicato resisterle. Lui che non aveva mai avuto pensieri strani o impuri su Maria, da quando stava con Irene gli sembrava impossibile resistere all’impulso di toccarla ogni volta che la vedeva. 
“Non stiamo facendo niente di male” gli sussurrò lei a un orecchio, provocandogli un brivido che avvertì fino alla punta dei piedi. Santo cielo, perché doveva fare così? Perché doveva rendergli le cose così difficili? Perché era così bella?
“Ce lo dici tu a mia zia e alla chiesa che non stiamo facendo niente di male?” replicò Rocco con voce roca. Sapeva di dover resistere, e non avrebbe permesso di superare un certo limite, però quanto era difficile. Quanto.
“Ma tu pure in momenti come questi pensi a tua zia?” esclamò lei quasi offesa. 
“Ma non è che penso a mia zia, Irè, è che…” balbettò Rocco confuso, mentre Irene tornava a chinarsi su di lui per riprendere da dove si era interrotta. Cominciò a muoversi dal collo fino alla mandibola, per poi avanzare lentamente fino alle sue labbra. Le mani di Rocco, dapprima titubanti, si fecero più salde sui suoi fianchi e affondarono nella sua schiena. Una parte della camicetta di Irene era fuoriuscita dalla sua gonna, e mentre le mani di Rocco si muovevano, dando retta solo all’istinto e non alla ragione, sfiorarono la sua pelle nuda e sentì quasi andare in fiamme i polpastrelli, mentre lei sussultò per quel contatto inaspettato, ma gradito. 
“Irè” provò ancora a protestare tra un bacio e l’altro, mentre una mano di Rocco trovava la sua coscia scoperta dalla gonna. “Non…” ci riprovò lui.
Ma Irene non aveva alcuna intenzione di spingersi oltre il punto di non ritorno. Non adesso, se non altro. Irene parlava e parlava, ma in realtà non si discostava poi molto dalle altre ragazze della sua epoca. Nei fatti, c’era ben poco da raccontare. Tuttavia, la Chiesa non diceva che fosse sbagliato pure volersi bene, ed era esattamente quello che lei e Rocco stavano facendo in quel momento: si volevano bene, a modo loro. E Dio solo sapeva quanto le fosse mancato l’odore della pelle di Rocco, che profumava di sapone di Marsiglia. Il gusto dei suoi baci e la consistenza dei suoi capelli tra le dita. I suoi occhi scuri e penetranti, capaci di leggerle dentro come nessuno prima. Aveva ragione, al telefono non era la stessa cosa, non lo sarebbe stato mai. Non poteva vedere le sue espressioni, il tono della sua voce risultava falsato, i suoi occhi non potevano parlarle. 
“Quanto mi sei mancato” gli sussurrò tra un bacio e l’altro, con la bocca che sapeva ancora di lui. 
“Pure tu, Irè” replicò Rocco, stringendola a sé come se non volesse più lasciarla andare. E Irene si lasciò abbracciare, abbandonandosi contro il suo corpo, e adagiando la testa sull’incavo del suo collo, mentre lui le carezzava la schiena. Poi all’improvviso il suono delle chiavi dentro la toppa e la porta che si apriva di scatto, senza dare loro il tempo di ricomporsi. 
“Ah, ci diamo alla pazza gioia qua, appostu” esordì Giacomo con una risata. Irene, imbarazzata, si spostò sul divano accanto a Rocco, mentre lui avvicinò il busto a lei per coprirla da occhiate indiscrete, mentre lei si sistemava la gonna. “Ma allora questa fidanzata esiste sul serio” disse avvicinandosi ai due per porgere una mano a Irene. 
“Sa, pensavo se la fosse inventata e in realtà volesse tipo farsi prete o che ne so” aggiunse con un tono più basso di voce, come se le stesse rivelando una confidenza che Rocco non poteva ascoltare. Impossibile dato che si trovava proprio accanto a lei. 
“Piacere, Giacomo” si presentò infine, rivelando una personalità che Irene nemmeno immaginava. Si era fatta un’idea completamente diversa di quel Giacomo. Lo credeva uno poco attraente, che però si dava da fare convinto di essere il miglior latin lover di Roma. Uno che lei e Rocco si sarebbero divertiti a prendere in giro per le assurde pretese che millantava. Si rese presto conto che invece Giacomo non era esattamente bello, a dirla tutta Irene non lo trovava particolarmente attraente, ma era interessante ed evidentemente ci sapeva fare se, come diceva Rocco, usciva con una ragazza diversa alla settimana. I baffetti erano forse la cosa che Irene trovava meno appetibile in un uomo, ma pensò che forse, se li avesse rasati, avrebbe acquisito punti in più. 
“Piacere, Irene” rispose lei porgendogli la mano, che lui avvicinò alle labbra da vero gentiluomo, anziché stringerla come facevano ormai tutti quelli della loro età. Irene gli sorrise quasi ammaliata, le attenzioni la portavano sempre a perdere la lucidità. Rocco allora le tirò una leggera gomitata, mentre Giacomo iniziò a sorridere.
“Rocco non fa che parlare di lei ogni singolo giorno. Finalmente ora che l’ha vista si metterà un poco l’anima in pace, vero?” si rivolse a lui alla fine con un tono che sembrava più una velata minaccia, mentre Rocco nel frattempo avrebbe voluto solo sprofondare dall’imbarazzo. 
“Diamoci pure del tu, Giacomo. Rocco parla talmente tanto anche di te, che mi sembra ormai di conoscerti” rispose Irene rimettendosi in piedi.
Lui si avvicinò a lei e iniziò a parlottare piano, portandola ad allontanarsi da Rocco che ancora sedeva sul divano, passando dall’imbarazzo al fastidio nel giro di pochi istanti. Era stato tanto geloso di Lorenzo mesi prima, ma da quel momento non aveva mai più avuto occasione di vedere Irene interagire con qualcun altro che non fosse lui, suo cugino o Marcello. Adesso, invece, si sentiva il sangue ribollire nelle vene. 
“Ma… spiegami un po’: come fai a sopportare questo zuccone?” chiese Giacomo. In realtà era quasi invidioso del rapporto che c’era tra quei due. Lui non aveva mai parlato con tanto affetto di una ragazza. Non aveva mai perso ore per scrivere delle lettere a qualcuna. Nella sua mente nessuna donna era mai rimasta per più di qualche giorno e vedendoli insieme, un po’ iniziò a mancargli quella complicità, quella sintonia che solo tra due persone che si amavano e si conoscevano davvero poteva crearsi, al contrario delle tante felicità effimere che si regalava a intervalli regolari. 
Irene percepì lo scherno, ma soprattutto l’affetto che arrivava dalle parole di Giacomo, e non si sentì in dovere di difendere Rocco, sapeva che non ce ne sarebbe stato bisogno. 
“Ogni tanto ha le sue giornate buone, in fondo” replicò prendendolo in giro a sua volta, mentre Rocco imbronciato si avvicinava a loro per allontanarli ed evitare che si coalizzassero entrambi contro di lui. Nonostante l’istinto lo avesse portato a vedere minacce dove non c’erano, in fondo sapeva che Giacomo non avrebbe mai fatto nulla per rovinare il rapporto con Irene. Lo conosceva abbastanza da sapere quando scherzava e quando faceva sul serio. 
“Mi ha fatto molto piacere conoscerti e sapere che esisti” disse con un sorriso. “E mi scuso anche a nome suo per il disordine, ma come ben saprai ci siamo appena trasferiti” sottolineò, supportando la tesi di Rocco e Irene si tranquillizzò. “Ma io ero venuto perché mi ero dimenticato il portafogli. Quindi adesso lo prendo ed esco e vi auguro una buona serata” disse facendo un occhiolino a entrambi, prima di sgattaiolare nella sua camera, prendere ciò che gli serviva e scomparire con la stessa velocità con cui era arrivato.
 

“Però Giacomo non è male” disse Irene mentre camminava mano nella mano con Rocco. Si era cambiata per andare a cena fuori con lui quella sera. Adesso che erano da soli, non aveva alcuna intenzione di rimanere a casa come facevano spesso a Milano. C’erano tante cose che voleva vedere e Rocco doveva ancora farsi perdonare del tutto. 
Alla fine non aveva avuto modo di chiedere nulla a Giacomo, ma ormai aveva messo da parte i propri sospetti. Quello che aveva detto Giacomo le era bastato. E in realtà non aveva bisogno di altre conferme, Rocco le era sembrato sincero e Irene aveva deciso di fidarsi. Doveva farlo, se no che senso aveva stare insieme?
Rocco le rivolse un’occhiataccia accigliata, con le labbra serrate come un bambino che metteva il broncio davanti a un’offesa o qualche mancanza. 
“Sta’ iucannu co’ focu (stai giocando col fuoco)” le rispose stringendole la mano più forte. Irene sorrise. Si divertiva a prenderlo in giro. “Non sei contento che mi piaccia il tuo coinquilino?” 
“Irè” fermò all’istante quel gioco. 
Era stato bello girare per Roma con Rocco, mano nella mano, come le altre coppie, come raramente avevano avuto modo di fare a Milano, troppo presi dalla sua famiglia, dagli scrupoli nei confronti di Maria, e dai preparativi per la partenza per Roma. Lì Irene si sentiva libera, nessuno la conosceva, nessuno la aspettava a casa per chiederle cosa aveva fatto. Non c’era la signora Agnese a lamentarsi perché Rocco aveva dormito in casa sua, o a fare la ramanzina sull’uscio di casa al ritorno da qualche loro sporadica uscita, perché avevano fatto troppo tardi o perché li aveva visti troppo vicini. Lì erano solo Rocco e Irene, ed erano una coppia come tante altre. Si avvicinò al suo braccio e lo strinse con la mano libera, prima di portarselo attorno alle spalle. 
“Che c’hai freddo, Irè?” 
“Un po’” rispose lei. E Rocco la strinse a sé, passando ritmicamente una mano lungo la sua spalla per riscaldarla. 
“Vieni qua, talia 'sta funtana” disse poi, portandola verso la fontana di Trevi. Gli era sempre piaciuto quel posto. Spesso si fermava a guardare i turisti che si divertivano a lanciarci dentro le monete. Li osservava, chiedendosi quali potessero essere i loro desideri. Gli sembrava un luogo magico, e lui in fondo ci credeva. O forse voleva credere che i desideri di tutte quelle persone, compreso il suo, un giorno potessero effettivamente diventare realtà.
“Ma è la fontana de La dolce vita” esclamò Irene con entusiasmo. “Vuoi essere il mio Marcello?” aggiunse con un sorriso, appoggiandosi con i gomiti alla ringhiera di ferro che la ricopriva. Era bellissima, maestosa, da togliere il fiato. 
“Ma quali Marcellu” rispose lui. “Qua ci si buttano dentro i picciuli e si esprime un desiderio” le spiegò.
“Davvero? E tu l'hai fatto?” chiese Irene curiosa.
“Sì, quando sono arrivato qua.” 
“E si è avverato?”
“Non ancora” rispose criptico.
“E non mi vuoi dire cos'era?” gli si avvicinò lei, come un diavolo tentatore.
“Se te lo dico non si avvera, Irè” la corresse. “Tieni” aggiunse poi mettendosi una mano in tasca per tirare fuori una moneta.
“Va bene, fammici pensare.” Irene chiuse gli occhi e soppesò il proprio desiderio per qualche secondo. Rocco le mise le mani sulle spalle e la fece mettere di schiena, istruendola sul rituale corretto per effettuare il lancio.
Rocco la guardò, illuminata dalla luce della luna e dei lampioni, con quell’abito lilla a fiori che le stava divinamente e pensò che in fondo non aveva nient’altro da chiedere alla fontana. Anche se il suo percorso come ciclista non avesse funzionato, tutto il suo mondo era lì davanti ai suoi occhi.
Irene lo sorprese a guardarla e gli sorrise, leggendo in quei profondi occhi scuri le stesse domande e gli stessi dubbi che occupavano anche la sua mente. 
“Lo sai che non hai bisogno di dimostrarmi niente, vero?” gli chiese d’un tratto, avvicinando una mano al suo viso. 
Dato che lui non rispondeva, Irene continuò. “Se ho scelto di stare con te non è perché mi aspettavo che diventassi un famoso ciclista. Non devi dimostrare niente né a me né alla tua famiglia. Poi, egoisticamente parlando, lo sai che se dovessi tornare a Milano non mi lamenterei mica” aggiunse lei. Sebbene avrebbe fatto carte false per riaverlo accanto a sé, sapeva che non poteva desiderarlo, se questo significava accantonare il suo sogno e renderlo infelice. 
Rocco annuì, mettendo la mano sopra quella che Irene teneva ancora sulla sua guancia, e si sentì uno stupido per non essersi sentito ancora all’altezza. In quei mesi a Roma era cambiato, era cresciuto e in parte aveva preso una maggiore consapevolezza di se stesso. Adesso era più indipendente e faceva cose che non avrebbe mai pensato di fare solo qualche anno prima. Ma vivere da solo, lontano da tutti, era anche destabilizzante e lui aveva ceduto alla paranoia, anziché fidarsi di chi gli voleva bene. Lo sapeva che Irene lo amava e che non si aspettava di vivere nel lusso. Sapeva chi era quando ha scelto di stare con lui. Eppure Rocco voleva dimostrare di meritarla, migliorandosi in ogni modo possibile. Per lei, ma anche per se stesso.
“Mi sa che torno a casa con te, Irè” rispose lui dopo qualche istante.
“Cosa? Ma che dici” lo guardò perplessa. 
“Non mi posso allenare, amunì. Fermo qua o fermo là, meglio che sto a Milano con te, no?” disse piegando dietro la schiena il braccio che teneva ancora la mano di lei, così da avvicinarla a sé. 
“Non devi avvisare e chiedere il permesso?” 
“Ci chiamo domani mattina all’allenatore, ma non mi dirà di no. Lo sa che non ha senso che sto qua, soprattutto sotto le feste” le fece notare. Non vedeva l’ora di poter tornare a casa e passare un po’ di tempo con lei senza avere i minuti contati e la paura di non poterla rivedere per un po’. Natale era una delle sue feste preferite e quello sarebbe stato il loro primo insieme.
Irene annuì, contenta di poter passare le feste con lui, senza doversi domandare quando e se avrebbe avuto l’opportunità di tornare a Milano. 
“Comunque sappi che io non ho prenotato una pensione per stasera” lei gli disse con quel sorriso furbo che la rendeva irresistibile agli occhi di Rocco. Sembrava una bambina pestifera che stava per fare una delle sue marachelle.
“E tu ora me lo dici, Irè?”
“Non ho prenotato perché non ho alcuna intenzione di andare a dormire da sola” scrollò le spalle con sicurezza. In fondo lì a Roma non la conosceva nessuno. Pure se qualcuno l’avesse vista e si fosse fatto qualche domanda, a lei cosa importava? Non avrebbe fatto niente di male, di questo era sicura. Le bastava solo poter dormire abbracciata a Rocco, come avevano fatto un mese prima a Milano. 
“E Giacomo?” chiese Rocco. Anche se in realtà non si preoccupava del suo giudizio. Era uno dalla mentalità molto aperta che non si sarebbe fatto alcun problema, anzi probabilmente, se l’avesse saputo, l’avrebbe persino incentivato dormendo lui stesso fuori per lasciargli la casa libera.
“Hai detto che starà fuori fino a tardi, magari anche tutta la notte. Che problema c’è?” lo guardò con aria innocente.
“Tu si tutta foddi” rispose lui baciandole il collo.
“Comunque, visto che il mio desiderio si è già avverato, me ne tocca un altro?” infilò una mano dentro la tasca dei suoi pantaloni in cerca di qualche moneta.
“Ma come avverato? Che avevi chiesto?” sgranò gli occhi.
“E’ un segreto” rispose con un sorriso, prendendo l’ampia mano di Rocco con le sue per trascinarlo via. Roma era bella, ed era stato piacevole vedere coi suoi occhi la nuova vita di Rocco, nonostante l’inizio burrascoso. Ma lui lo era un po’ di più. E Irene non vedeva l’ora di riprendere da dove Giacomo aveva interrotto. 

 
  
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