Demon & Angel
15 gennaio 2021
Mi guardavo intorno, non ricordando
come fossi finita in quel quartiere a me sconosciuto.
Stavo passeggiando in
compagnia di un ragazzo, avvolto nel suo piumino verde bottiglia mentre si
strofinava le mani per riscaldarle, intozzite dal gelo invernale. Non ricordavo
nemmeno come si chiamava, avevo sempre fatto schifo nel memorizzare i nomi
nonostante la mia memoria fotografica per i volti e i luoghi.
Camminavano per quella
che sembrava piazzale Cardona, nel cuore del centro storico di Milano, un luogo
di ritrovo che non visitavo da tanto tempo, ma era strana, diversa da come la ricordavo.
Da quando avevano rimosso quell'orribile scultura ago, filo e nodo
riportanti i tre colori delle linee metropolitane che sbucava dal terreno in altrettanti
punti separati come un l’orribile screensaver tubolare di Windows95?
«Liz,
vieni! Siamo arrivati!»
Il ragazzo che ormai avevo ribattezzato Giubbino verde, mi prese per
mano per correre verso la banchina dei Taxi dove, al posto delle classiche auto
bianche con tanto di stemma del Comune di Milano ben stampato sul lato delle vetture,
c'erano dei lussuosi SUV neri con gli sportelli laterali completamente aperti.
Giubbino verde si
accostò ad uno di essi e cominciò a parlare tranquillamente con uno dei
passeggeri.
Mi avvicinai e sentii
all'improvviso le gambe divenire gelatina: cosa diavolo ci faceva Park Jimin a
Milano?
Mentre il mio anonimo
accompagnatore discuteva tranquillante con un altro uomo, quel piccolo angelo
biondo mi regalava un meraviglioso sorriso. Era bellissimo, molto più bello
rispetto alle foto ritoccate con Photoshop, video live e poster. Era meraviglioso,
etereo in quella giacca bianca neve.
«Hi!»
«H-Hi...» biascicai,
incespicando con la lingua e cancellando con un colpo di spugna i miei nove
anni di inglese.
Jimin, incuriosito,
cominciò a pormi mille domande, un buffo tentativo per mettermi a mio agio. Mi
parlava mescolando l'inglese con il coreano, tentando anche uno straordinario
italiano basilare.
Guardai le mani di Jimin
prendere le mie, tremanti dall'emozione e cominciai a piangere come una bambina,
con il cervello totalmente in tilt.
«Io, oddio scusami. Sono
tutta in disordine, non mi sono nemmeno truccata e-» mi bloccai. Guardai il mio
riflesso nel vetro dello sportello anteriore e vidi, con orrore, che ero
conciata come una scappata di casa. I capelli, coperti in parte dal cappello di
lana, erano gonfi, i ricci oscenamente crespi per l'umidità e la mia ampia
giacca invernale nera non nascondeva del tutto i pantaloni rovinati e impelati,
gli stessi che usavo per portare al parco i miei cani.
Sentii una nuova risata,
quella voce profonda che mi faceva rabbrividire ogni volta che vedevo una
diretta su Vlive o un filmato su YouTube.
«Che carina!» gli
sfuggì con quel tono basso e roco, in coreano, lingua che stavo studiando
autonomamente da un anno e che, stranamente, capii perfettamente.
Alzai lo sguardo
lentamente, oltre le spalle di Jimin, dritto in quel viso così particolare,
quel sorriso magnetico, quel ragazzo che con un solo sguardo catturato dalla telecamera
e impresso in quel video trovato per puro caso in rete, mi fece innamorare di
lui per poi essere inghiottita nel vortice del Kpop.
Namjoon mi guardava con
uno splendido sorriso tutto fossette e io smisi di respirare.
Non ricordai più nulla,
solo un profondo imbarazzo e il mio cervello ormai spento. Mi ritrovai, senza
sapere come, ospite nel lussuoso appartamento che avevano affittato nei
quartieri della Milano bene.
Era sera, dal terrazzo
si potevano vedere le luci della città e la cattedrale del Duomo, maestosa,
meravigliosa con la sua Madonna d'oro, che dalla guglia più alta, osservava e
proteggeva i suoi abitanti come una madre amorevole.
Ma non era la Madonnina
chi dòminet Milan a interessarmi, ma quel piccolo
angelo biondo seduto alla mia destra che mi parlava in italiano, con
quell'adorabile accento coreano. Era divertente, tenero mentre confondeva la
lettera effe con la pi, la zeta
con la esse, vocali inesistenti nel loro alfabeto.
«Non credevo che tu parlassi
italiano. Sei molto bravo, complimenti.»
«Gamsahabnida.
È una lingua very difficult,
ma sto imparando in fretta.»
Mi chiese come mai io conoscessi
il coreano, una lingua non comune per noi occidentali e gli raccontai, in
inglese, che amavo da sempre l'estremo Oriente e, inoltre, avevo una sorella
che si era trasferita per lavoro a Seoul da un po' di tempo.
«Jinjja?
Hai sentito, hyung? Sua sorella fa la makeup
artist!»
Sbirciai alla mia
sinistra e vidi Namjoon, mezzo annoiato, che scriveva qualcosa sul suo
cellulare.
Aveva perso il suo
sorriso meraviglioso ed era stata tutta colpa mia.
Pochi minuti dopo aver
messo piede in quell’appartamento, mi presentarono gli altri componenti della
band, erano tutti presenti tranne Yoongi, quello che era il mio bias wrecker e me
ne rattristai. Avrei tanto voluto conoscerlo, guardarlo in quegli occhi felini
così attraenti e perdermi in quella voce profonda, graffiante che mi faceva tremare
come una foglia al vento.
Fu un incontro rapido,
veloce, così istantaneo che sembrava un sogno, istanti preziosi che qualsiasi
Army avrebbe inciso, marchiato a fuoco nel proprio cuore, completamente dimenticati,
cancellati dalla mia mente se non per un ricordo sbiadito.
Dovevo avere qualche
problema neurologico, un danno alla memoria a breve termine. Mi sentii come
Dory, il pesciolino chirurgo del film Finding
Nemo.
Dopo quella
presentazione, ero rimasta da sola con Namjoon che mi osservava curioso,
cercava di mettermi a mio agio mentre mi porgeva un bicchier d’acqua fresca.
Mi chiese come mai fossi
così particolarmente nervosa in sua presenza e vidi il suo meraviglioso viso
storcersi in una smorfia di disappunto quando risposi «Because
you're my bias.»
Ero ancora seduta sullo
sgabello, con Jimin estasiato di conoscere un'Army italiana e scusandosi di
avermi letteralmente rapito per portarmi a casa loro. Confessò di essere
rimasto colpito da "quel pulcino nero spaurito" e, una volta
in macchina, concordò insieme al leader di invitarmi ad unirmi a loro in quella
breve vacanza e far loro da guida, mostrargli quegli angoli affascinanti e
misteriosi che la città celava ai turisti, attirati dai soliti luoghi come il
Castello Sforzesco, i Navigli o la Galleria.
Erano incuriositi ed
eccitati nel conoscere a fondo la mia città, soprattutto Namjoon che in auto mi
tempestò di domande, quando gli parlai dell'ossario di San Bernardino alle
ossa, decorato con gli scheletri dei morti della peste manzoniana, di eretici e
martiri durante la Santa Inquisizione, o dei quartieri liberty in zona Porta
Venezia, dei meravigliosi cortili segretamente celati dietro anonimi portoni di
legno, o le varie leggende che aleggiavano sul Duomo come la sposa fantasma e
altri luoghi bellissimi spesso sconosciuti anche dagli stessi milanesi.
Sbirciai ancora Namjoon,
rabbuiato dopo avergli confessato di essere lui il mio bias
e non capii. Doveva esserne lusingato, rispondermi con un "grazie",
invece aveva smesso di parlarmi chiudendosi in sé stesso come un riccio.
Jimin appoggiò la sua
piccola mano sulla mia. «Non preoccuparti, noona.
Non è colpa tua, non potevi saperlo.»
«Sapere cosa?» chiesi,
sempre più confusa da quella situazione surreale.
Quella mattina mi ero
svegliata presto per fare una semplice passeggiata per il centro, avvolta dalla
morsa glaciale a causa della perturbazione siberiana e ora mi trovavo seduta in
mezzo a due degli Idol più famosi al mondo con Jimin che mi teneva per mano.
«Vedi, per noi la parola
bias è quasi un insulto» bisbigliò vicino al
mio viso al punto di sentire il suo respiro sulla mia pelle. «Praticamente gli
hai detto che lo consideri un oggetto sessuale.»
Sgranai gli occhi,
portandomi l'altra mano sulla mia bocca, aperta per l'enorme figura di merda
che avevo involontariamente fatto.
Avevo impiegato diversi
giorni per imparare tutti quei termini come bias,
wrecker, ultimate e altri di cui non avevo
memoria. Cercai di spiegare a entrambi che non conoscevo il vero significato di
quelle parole e che, da quando ero entrata nel mondo del Kpop, vedevo fan di
tutto il mondo usarli con disinvoltura.
Mi scusai per la mia
gaffe, errore che altri milioni di ignari fan non coreani commettevano quotidianamente
e mi voltai verso Namjoon, chinando più volte il capo.
Non era mia intenzione
insultarlo, né lui né gli altri membri della band. Ero seriamente dispiaciuta e
mi sentii terribilmente a disagio.
Jimin rise. Indossava un
dolcevita bianco e morbido sopra quei pantaloni grigi chiaro. La luce soffusa
della cucina, arredata sicuramente da un architetto di fama e amante del design
industriale, si rifletteva sui suoi biondi capelli creando una sorta di
bagliore. Era veramente un angelo, una bellissima creatura eterea in netto
contrasto col demone seduto alla mia sinistra, completamente vestito di nero.
Ero in compagnia di un
bellissimo angelo e di un attraente demone.
«Sai noona,
mi piacerebbe averti con noi in Corea. Potresti farmi da insegnante di italiano
e ricongiungerti con tua sorella, magari possiamo assumerla come make-up artist.»
Sgranai gli occhi e
pensai subito a lei, completamente pazza di J-Hope. La immaginai china sul suo
viso, ad accarezzargli la pelle con due dita per applicare il fondotinta per
poi ritrovarla piangere in un angolino del camerino, scioccata da quello che
lei definiva "un raggio di sole di una bellezza sconvolgente".
Sarebbe morta di infarto al momento della firma del contratto con la Hybe, ed io insieme a lei.
Jimin mi prese il
cellulare, lo vidi digitare qualcosa ed effettuare una brevissima chiamata. «Ho
salvato il mio numero di telefono, così possiamo mantenerci in contatto.»
Mi porse il cellulare, con la schermata della rubrica ancora aperta. Feci in tempo
a leggere il suo nome scritto in hangul che Namjoon
lo requisì dalle sue mani, rapido.
Sospirai. Mi voltai alla
mia sinistra sicura di trovarlo a smanettare sul mio telefono per cancellare il
contatto di Jimin, ma rimasi sorpresa quando me lo restituì mostrandomi un
nuovo contatto salvato nella rubrica: My bias
Joonie.
«Così hai anche il mio.»
Finalmente mi rivolse la parola e tremai quando udii la sua voce profonda,
roca. Mi persi in quel mezzo sorriso educato, ne ero ipnotizzata a tal punto da
non accorgermi di essere rimasta da sola con lui. Jimin si era ritirato nella
sua stanza, lasciandomi in quella cucina dalle luci fin troppo soffuse insieme
ad un diavolo tentatore.
«È da tanto che sei un’Army?»
Lo guardai in viso, era
dannatamente vicino al mio e potei sentire il leggero profumo della sua pelle.
«Da due o forse tre anni.» mormorai cercando di non svenire e cominciai a
intrecciare i miei capelli. Non li sopportavo più così in disordine.
«E con quale canzone?»
Dio mio, Namjoon! Lo vidi avvicinarsi sempre di più a me, spostandosi in
avanti con lo sgabello. Deglutii per non perdere del tutto le mie funzioni
celebrali, ero pur sempre una donna adulta di ben oltre trent’anni e non potevo
di certo comportarmi come una ragazzina in piena crisi ormonale, ma Namjoon era
il mio punto debole, il mio tallone d’Achille, quell’unico artista, insieme a
Yoongi, che mi riportava indietro negli anni fino alla mia adolescenza.
Sì, quel ragazzo di ventisette anni riusciva a rendermi debole, vulnerabile, morbida
come l’argilla pronta per essere modellata dalle sue mani.
«Nessuna canzone. Sei stato tu a trasformarmi in una fan.» riuscii a recuperare
l’uso della parola. Mi presi un secondo per respirare, chiudere gli occhi e
trovare il coraggio di dirgli tutto ciò che pensavo di lui. «Ero su YouTube
quando la home iniziale mi consigliò un tuo video. Era uno spezzone di Burn
the Stage e ti stavano medicando la gamba con delle borse del ghiaccio.»
Lo sentì ridere. «Curioso. Come mai un infortunio ti ha conquistata?»
Finì di terminare la mia treccia e la fermai con l’elastico nero che portavo al
polso. «Mi ha conquistato il tuo sguardo. Eri sofferente, stavi davvero male,
ma c’era qualcosa nei tuoi occhi che mi ha colpito proprio qui.» Mi indicai il
cuore e sorrisi imbarazzata. Sentivo le mie guance roventi, sicuramente
arrossite da quella che sembrava una dichiarazione d’amore.
«Non sapevo della vostra esistenza, non c’erano riferimenti così ho trovato il nome
della band sotto il video. Ho effettuato delle ricerche e vi ho trovato.»
Tremai quando mi accarezzò il viso con due dita.
«Noona, tu credi al destino?»
Mi ritrovai ad annuire, non convinta. Non credevo a quelle fandonie, al filo
rosso, allo zodiaco, ma qualcosa mi spinse ad annuire. Forse per non deluderlo,
forse perché curiosa di sapere cosa voleva dirmi. Ero andata di nuovo nel
pallone.
«Oggi, quando ti ho vista parlare con Jiminie, non
riuscivo a vederti in viso. Poi sei emersa dalla tua sciarpa e ti ho vista a
disagio, spaesata. Ti preoccupavi del tuo aspetto, di essere in disordine. Mi
ha colpito il tuo sguardo, così pulito, ingenuo.» Mi prese il mento con due
dita, sollevandolo leggermente. «Credo nel destino e credo anche nei colpi di
fulmine.»
Mi baciò sulle labbra. Erano
morbide, calde e mostruosamente invitanti. Le sentii dischiudersi, assaggiare
le mie e io dimenticai completamente di respirare.
Dovevo essere sotto l’effetto
di qualche sostanza stupefacente mescolata in quel bicchiere d’acqua oppure vittima
di una candid camera. Sarebbero saltati fuori dei
cameramen, dei sosia dei BTS e il conduttore televisivo a urlare “Sorridi!
Sei su scherzi a parte!”, ma non avvenne nulla di tutto ciò.
Namjoon mi abbracciò, accarezzandomi
la schiena e infilando lentamente la mano sotto il mio maglioncino viola. Sentii
il suo respiro sul mio collo, le labbra che mi baciavano la pelle, la gola, l’orecchio.
«Vieni con me a Seoul.» sussurrò roco provocandomi un brivido lungo la schiena.
«Ti prego, vieni con me.»
Chiusi gli occhi, incredula di tutta quella situazione.
Ero tra le braccia di quel ragazzo, un giovane uomo amato da milioni di fan, quell’idol che mi stava implorando di seguirlo in Corea, un
paese che si trovava dalla parte opposta del pianeta.
Avrei mai trovato il coraggio di lasciare il mio semplice lavoro da impiegata,
i pochi amici e partire all’avventura verso una terra appartenente ad un altro
continente con una cultura, usi e costumi diversi dai nostri?
Non sarei stata da sola, mi sarei trasferita da mia sorella e cominciato una
nuova vita in una nuova città, con una nuova lingua e un nuovo lavoro.
Oh, al diavolo! Mi lasciai trasportare dal momento e strinsi a me Namjoon,
affondando le dita tra i suoi capelli.
Non ricordai nulla, se non una piacevole sensazione e un calore in mezzo al
petto.
Aprì gli occhi e vidi un
familiare soffitto blu intenso. D’istinto mi toccai le spalle, lo stomaco, i
fianchi e le mani trovarono il liscio tessuto della mia sottoveste di raso.
Mi strofinai il viso, confusa. Dove mi trovavo? Dov’era Namjoon?
Mi guardai attorno e vidi a terra, al fianco del letto, la mia cagnolina che
dormiva beatamente avvolta dal suo pigiamino protettivo e acciambellata nella
sua morbida cuccia. Ero a casa, nella mia stanza e mi chiesi come fossi
arrivata lì, nel mio letto.
«Oddio, ma l’ho portato veramente
qui?» mi chiesi per un istante per realizzare che il dolce peso che sentivo al
mio fianco sinistro era dell’altra mia cagnolina, distesa per il lungo che mi
guardava con due occhioni da cerbiatto, pronta a darmi il buongiorno con una leccatina
sul naso.
Non poteva essere vero,
era così realistico, mostruosamente realistico. Allungai la mano verso il mio
comodino e presi il cellulare sfogliando subito la rubrica telefonica. Non c’era
alcun contatto salvato sotto il nome di Jiminie
o My bias Joonie, solo aperta in background la
chat su Telegram e un file documenti del mio Google Drive.
Scoppiai a ridere fino
alle lacrime. La sera precedente avevo chiacchierato via chat con Sapai, scambiandoci opinioni e suggerimenti vari. Avevo
espresso l’idea di creare un nuovo titolo, magari una storia breve o una oneshot e di notte, poco prima di addormentarmi, avevo
cercato qualche idea, invano, per poi aprire il file salvato in Documents Google e ripassare, correggere e appuntare qualche
elemento per la storia in corso d’opera che stavo componendo.
«Non ci posso credere!»
mi asciugai le lacrime e guardai l’orario. Erano le nove e mezza di mattina, a
Seoul le diciassette e mezza.
Aprii WhatsApp,
selezionando subito la chat “Sister”, quella piccola
finestrella digitale verde che azzerava una distanza lunga novemila chilometri.
Le raccontai del sogno,
di come avevo incontrato per caso Jimin e Namjoon in giro per la città e dell’offerta
di lavoro che avevano proposto ad entrambe.
La risposta non tardò ad
arrivare. «Ma magari! Bello questo sogno!» scherzò e io risi con lei.
Chiusi l’applicazione e
guardai l’immagine blocco schermo impostato sul mio cellulare. Era un edit che avevo creato unendo due fotografie di Namjoon e
Yoongi, immagini realizzate in seguito al video di My Universe.
I due rapper, i miei due
bias, erano affiancati l’uno vicino all’altro,
entrambi con lo sguardo puntato verso l’utente.
Guardai intensamente il
viso di Namjoon, rilassato, con quel taglio corto di capelli che gli donava e
pensai alla chiacchierata su Telegram insieme a Sapai.
Risi divertita e pensai
al famoso detto storpiato dalla frase originale “Se Maometto non va alla
montagna, la montagna va da Maometto”, e fu così che Namjoon, insieme a
Jimin, si erano intrufolati nel mio mondo onirico.
Nei vari cartoni
animati, spesso vedevo i personaggi ospitare sulle proprie spalle due piccole
creaturine, sulla destra un tenero angioletto, sulla sinistra un perfido
diavoletto.
Jimin e Namjoon.
Bianco e nero.
Angelo e demone.
Accarezzai dietro la
nuca la mia gatta che era saltata sulle mie gambe, frullando in cerca di
coccole e strusciatine. Gettai un ultimo sguardo sul blocco schermo del mio
cellulare prima di alzarmi e dare le dovute attenzioni alle mie creature
pelose.
«Grazie, ragazzi.» Risi tra me.
Sì, mi avevano regalato
la giusta storia e ispirazione del sabato mattina.
Angolo Autrice
Non mi nasconderò dietro un dito, quello che ho
descritto è ciò che ho realmente sognato stanotte. Era realistico, fin troppo e
quando mi sono svegliata mi sono sentita intontita per un po'.
Ho subito preso il telefono e scritto a mia sorella, sperando di non
disturbarla causa fuso orario, e successivamente a Sapai,
anche lei scrittrice qui su EFP.
E nulla, volevo scrivere qualcosa e alla fine
la notte mi ha portato consigli.
So che in alcune parti sembra carente di trama,
ma il sogno era confusionario, ovattato e ho trascritto ciò che ricordavo senza
nemmeno revisionare per paura di dimenticarlo.
Spero vi strappi una risata perché,
sinceramente, ho riso come una cretina.
@ S a p a i : non potevo non citarti
Borahae 💜