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Autore: FreDrachen    16/01/2022    1 recensioni
Luca aveva davvero tutto nella vita. Era una promessa del calcio, popolare tra i suoi coetanei tanto da essere invitato a ogni festa, ed era oggetto di attenzione di ogni ragazza e non.
Insomma cosa si poteva volere dalla vita quando si aveva tutto?
Basta, però un semplice attimo, un incidente lo costringerà a una sedia a rotelle, e per questo sarà abbandonato dalle persone che un tempo lo frequentavano e veneravano quasi come un Dio.
Con la vita stravolta si chiude in se stesso e si rifiuterà di frequentare la scuola. Sua madre, esasperata da questa situazione, riesce a ottenere la possibilità, dalla scuola che Luca frequenta, di lezioni pomeridiane con un tutor che avrà lo scopo di fargli recuperare il programma perso.
E chi meglio di uno dell'ultimo anno come lui può riuscire nell'impresa?
Peccato che Luca sia insofferente agli intelligentoni e non sembra affatto intenzionato a cedere.
Peccato che Akira non sia affatto intenzionato ad arrendersi di fronte al suo carattere difficile.
Due ragazzi diversi ma destinati ad essere trascinati dall'effetto farfalla che avrà il potere di cambiare per sempre le loro vite.
[Storia presente anche su Wattpad, nickname FreDrachen]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai, Slash
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Scolastico
Capitoli:
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Capitolo 19


Capii subito che qualcosa non quadrava.

Avevo questa strana sensazione già il giorno prima, quando avevo scritto ad Akira, in pratica più un monologo lamentoso che una chiacchiera vera e propria.

Mia madre mi aveva trascinato in chiesa, due giorni prima, per la festa dell'Immacolata, ed era stato uno dei momenti più noiosi che mi potessero capitare.

Avevo provato a darmela a gambe ma durante la fuga ero finito contro una tizia che si stava alzando per accodarsi e ricevere l'ostia. L'urto aveva causato una sua caduta e una sua serie di imprecazioni tali per cui si era fiondata subito a confessarsi, mentre il sottoscritto era stato beccato e riportato al suo posto. Per evitare un'ennesima fuga mia madre aveva tenuto la sedia al manico per tutta la durata della funzione.

Dopo un'era che mi era parsa infinita eravamo usciti, per fortuna aveva per un attimo smesso di piovere dato che era dalla mattina presto che veniva giù il diluvio universale, mi era uscito involontariamente un sospiro di sollievo. Sfortunatamente mio padre mi aveva sentito e mi rivolto uno sguardo deluso. Era un cattolico di quelli sulla linea del fanatismo religioso, e per lui il solo fatto che non fossi credente era oggetto di disonore e stronzate simili che mi propinava da quando il primo anno di superiori avevo dichiarato la mia non intenzione a iscrivermi a religione a scuola. Al chiedermi il motivo e alla mia successiva risposta sembrava che in casa fosse scoppiata la Terza Guerra Mondiale. Inutile dire che non mi aveva parlato per settimane intere. Ma aveva continuato a trascinarmi a messa ogni sacrosanta domenica. Secondo me pensava che uno dei motivi per cui mi trovavo in quella situazione era proprio la mia scarsa religiosità, un castigo divino, manco fossimo nel Medioevo.

Avevo scritto ad Akira, forse per trovare un po' di conforto da uno dei pochi che non mi considerava, speravo, un caso umano, ma non mi aveva risposto. Il primo pensiero era stato che magari avesse il telefono scarico e per quello non avesse letto il mio messaggio.

Il giorno dopo avevo ipotizzato che fosse occupato. Non volendo sembrare la classica persona appiccicosa mi ero messo il cuore in pace che mi avrebbe risposto quando ne avesse avuto tempo.

Il lunedì a scuola non l'avevo incrociato, la sua classe era andata a visitare una sorta di museo della chimica collocata un una delle sedi dell'università in cui erano esposti gli strumenti utilizzati nel giurassico, e per questo non avevo dato tanto peso alla cosa.

Ma quando avevo scoperto che era stato assente e che lo era anche quel giorno nella mia mente risuonò un campanello d'allarme.

A ricreazione, dopo due pallosissime ore di matematica, mi ero fiondato fuori dall'edificio e avevo trovato il trio di Nerd a parlare tra loro sottovoce.

Mi avvicinai e il primo a notarmi fu Roberto che mi rivolse un caldo saluto.

«Ciao Luca. Ti vedo piuttosto...ehm...»

«Con le palle girate? Si, quella stronza della prof di matematica continua ad accanirsi su di me e si incazza quando le rispondo correttamente alle sue domande. Ma allora cosa vuole dalla mia vita, mi chiedo».

«Darti un'insufficienza?»

«Per quel che mi riguarda quella si può anche attaccare al tram. Ma non parliamo di quella megera, avete per caso visto Akira?» domandai osservandomi attorno, come se quel gesto lo facesse comparire magicamente di fianco a noi.

«Non lo sapevi? É a casa con la febbre per essere stato sabato sotto la pioggia per ore. Almeno così ci ha riportato sua zia» rispose Roberto e dopo aver pronunciato quelle parole scosse un poco la testa come se non riuscisse a capacitarsi della  scarsa resistenza immunitaria di Akira.

Quella non era affatto un semplice infreddatura, ma un gesto sconsiderato.

Chi cazzo stava sotto il diluvio universale senza manco l'ombrello?

Perché era stato così incosciente?

Che cazzo gli passava per la testa?

Era per caso impazzito?

«Lo so a cosa stai pensando» mi disse Simone alzando il sopracciglio.

«Oh, adesso sai leggere nel pensiero?»

«Ti si legge tutto in faccia. Piuttosto sono sorpreso che pensi a qualcosa che non sia il calcio».

«Simo» lo rimproverò Roberto e mi trattenni dal fargli un applauso. Il diretto interessato fece spallucce e addentò la croissant che si era comprato senz'altro al bar, prima dell'inizio lezione, come spuntino.

«Quindi voi sapete il motivo per cui é stato per ore sotto la pioggia?» domandai sempre più curioso.

«Strano che non te l'abbia rivelato. Non ti reputi suo amico?» si intromise nuovamente Simone con un sorrisetto. Quanto avevo voglia di tirargli un pugno in faccia.

Di nuovo Roberto lo fulminò con lo sguardo prima di rispondere.

«Era l'anniversario della morte di sua madre. Ogni anno si dirige al cimitero per andare a trovarla».

Sua madre. Non me l'aveva mai parlato. Non mi era mai sembrato il classico tipo che gli piace spifferare i suoi affari di famiglia ma di certo non avrei mai pensato a quella situazione.

«Oggi pomeriggio andrò a trovarlo» dichiarai. Lui mi era stato affianco anche in momenti in cui mi sarei meritato di essere buttato giù da un burrone, per questo non sarei stato da meno.

«E come pensi di andarci? Volando? Ti ricordo che Akira vive al terzo piano e a meno che non abbia sviluppato qualche potere negli ultimi tempi non mi sembra che tu abbia qualche possibilità a salire» mi fece notare Simone al che alzai gli occhi al cielo.

No davvero? Non l'avrei mai detto.

«Grazie per questa ovvietà Einstein. Potrei provare a chiedere a...» cominciai a formulare ma le parole mi morirono in gola mano a mano che il pensiero di faceva largo nella mia mente. Già a chi avrei potuto chiedere?

«Ti accompagnamo noi» se ne uscì Roberto tanto da attirare l'attenzione di tutti noi.

«Come? Spero di non aver capito» ribattè Simone scurendosi in volto.

«Tu lo potresti portare in braccio mentre mi occupo della sedia a rotelle» spiegò Roberto come se fosse la cosa più ovvia.

«E perché dovremmo?»

«Perché Luca è nostro amico e ha bisogno del nostro aiuto».

Amico. Vero, avevo passato praticamente quasi tutto il tempo in compagnia con loro oltre che di Akira, ma non pensavo che mi considerassero tale. Avvertì una strana sensazione al petto, come se mi fossi liberato di un peso. Akira me l'aveva detto, non ero solo, anche in quel momento potevo contare su qualcuno. Ma giammai l'avrei ammesso ad alta voce.

Simone bofonchiò qualcosa prima di cedere dato che si trovava in netta minoranza, dato che anche Anonimo (ancora facevo fatica a ricordarmi il suo nome) si trovava d'accordo con Roberto, anche se lui non ci avrebbe accompagnato perché doveva fare da baby sitter alla sorellina di tre anni.

«Ma che sia una cosa veloce. Devo scappare quasi subito agli allenamenti di pallavolo in vista della partita di domenica» accondiscese Simone e Roberto si aprì in un sorriso a trentadue denti.

«Non ti faremo arrivare in ritardo. Comunque anch'io non potrò fermarmi. Ho un lavoretto part time che mi sta permettendo di mettere un po' di soldi da parte per la terapia ormonale che sto portando avanti e, se riesco, anche per i successivi interventi chirurgici».

Già vero, considerandolo naturalmente un ragazzo quasi mi dimenticavo che in realtà fosse transgender. Questi interventi di diversa natura dovevano essere molto costosi e l'impulso di chiedergli se avesse bisogno di qualche cifra era molto forte. Ma da quello che stavo imparando a conoscere non avrebbe mai accettato. Avrei dovuto pensare a un altro modo.

Per quanto riguardava la loro non presenza nel pomeriggio era per certi versi un vero sollievo. Con loro non riuscivo ad aprirmi come facevo con Akira e se fossero stati presenti ero certo che sarei caduto da una nube d'imbarazzo di proporzioni cosmiche.
Mi misi d'accordo con loro che ci saremmo visti all'uscita da scuola per accompagnarmi direttamente da lui.

Mi misi d'accordo con loro che ci saremmo visti all'uscita da scuola per accompagnarmi direttamente da lui

 

Prendemmo un taxi, a spese mie, e ci dirigemmo verso il quartiere in cui abitava Akira.

Nell'auto regnava un profondo silenzio, questo perchè temevo che se avessi aperto bocca mi sarei scontrato con Simone e in quel momento avevo bisogno di lui. Ero certo che se l'avessi provocato avrebbe trovato ogni scusa per farmi rotolare giù dalle scale e farmi rompere le ossa del collo. In quanto a Roberto osservava il mondo al di fuori del finestrino, con lo sguardo perso in chissà che pensieri.

Per fortuna il tragitto non fu poi così lungo. Prima dell'incidente utilizzavo i mezzi pubblici per andare e tornare da scuola e avrei messo un'eternità a confronto di quel quarto d'ora che avevamo in taxi. Se tutto fosse proceduto per il meglio mi sarei spostato in auto, che purtroppo non sarei mai riuscito a guidare.

Pagai il taxista e quando quello sgommò via mi ritrovai ad alzare lo sguardo verso il terrazzo di Akira.
Chissà cosa stava facendo. Per un attimo mi sentì invadente e irrispettoso.
Stavo piombando in casa sua senza un avviso. Magari stavano mangiando oppure svolgendo i programmi che si erano prefissato quel pomeriggio. Magari Akira stava meglio e avrei fatto la figura del pesce lesso a piombare in quel modo.

«Sentite, non so se è una buona idea...» cominciai a dire ma Simone mi bloccò rifilandomi un'occhiataccia.

«Ormai siano qui e non ha senso tirarsi indietro no?»

«Ma se lui non volesse vedermi? Insomma avrebbe tutto il diritto dato che mi presenterò a casa sua così di punto in bianco».

«Akira ci ha chiesto di non andarlo a trovare» se ne uscì Simone. «Ha fatto solo il nome mio, di Rob e di Giac. Ma non il tuo, questo vorrebbe dire una cosa sola. Lui vorrebbe che vada a trovarlo» aggiunse a stento, come se non ci tenesse davvero a pronunciare quelle ultime parole.

A quella rivelazione, che poteva farmi anche prima, anche se avevo capito il motivo per cui non l'aveva fatto (gliel'avrei rinfacciato senza problemi, cosa che attualmente tutto preso dal pensiero di Akira non avrei fatto), avvertì una strana sensazione nel petto.
Akira desiderava vedermi, lo aveva chiesto in modo molto diretto e chi ero io a negarglielo?

Fu questo a convincermi e a darmi coraggio.

Quando arrivò il momento in cui dovevo essere preso in braccio da Simone avvertì un crescente senso di disagio e lo stesso pareva possedere lui.

«Non pensare che per me sia una cosa piacevole».

Ma come? Il solo fatto di essere in mia presenza doveva essere oggetto di felicità.

Roberto richiuse la sedia a rotelle e citofonó all'appartamento di akira.
Fu la zia a rispondere subito e dopo esserci identificati aprì subito il portone.

Il tragitto fu tra i più imbarazzanti in assoluto. Con Akira si c'era stato ma tra le sue braccia mi sentivo meglio, il battito del suo cuore aveva un che di rilassante così come il suo tocco delicato, con Simone, invece, era pieno disagio. Le sue braccia erano troppo larghe, le mani troppo callose e il cuore batteva un po' troppo forte tanto da farmi irritare. Non era Akira, questo sembrava urlare da tutti i pori il mio corpo.

Il supplizio durò poco e con sollievo trovammo la zia di Akira ci stava aspettando con la porta di casa aperta e un sorriso di saluto.

«Siete venuti a trovare Akira, dico bene? Purtroppo oggi non si sente ancora molto bene» annunciò tristemente mentre aiutava Roberto ad aprire la sedia a rotelle.

«S-si è per questo che siamo venuti» risposi in fretta mentre riprendevo possesso della sedia a rotelle.

«È venuto a trovarlo» puntualizzò Simone. «Noi purtroppo dobbiamo scappare, ma verremo più tardi a trovarlo. Noi abbiamo accompagnato solo Luca» ribatté indicando se stesso e Roberto.

La zia di Akira si trattenne ancora un attimo con gli altri due prima che questi si congedassero e mi lasciassero da solo.

«Entra pure, caro» mi invitò al che borbottai un timido grazie. Se mi avesse sentito alcun altro non mi avrebbe riconosciuto. Non ero mai stato timido anzi mi rinfacciavano il più delle volte che ero un tipo a dir poco esageratamente diretto. Ma con Akira e la sua famiglia era diverso, erano gentili con me e per questo non me la sentivo di essere velenoso.

Dalla cucina emerse la figurina della sorellina di Akira, sorridente e allegra da farla sembrare un piccolo raggio di sole. Un raggio fasciato in quello che pareva un pigiama con stampato un qualche personaggio asiatico.

«Onii-san*! Sei venuto a trovarci. Onii-san sarà felice di vederti» esclamò tutta allegra.

Oni che? Maledetta la mia scarsa capacità di comprensione di quella lingua.

Sorrisi cercando di non farle capire quella mia ignoranza e la seguì lungo il corridoio dopo che ella mi ebbe invitato con un mega sorriso e buchetti di dentini appena caduti.

Si fermò di fronte alla porta di Akira e si voltò verso di me.

«Onii-san é molto triste e sta male» disse improvvisamente seria. «Starai con lui?»

Istintivamente allungai la mano e le scompigliai i capelli corvini così simili a quelli di Akira, che mi fecero pensare per un attimo se anche i suoi fossero così morbidi.

Lei brontolò un poco, un qualcosa riguardante il non arruffarglieli, facendomi salire un moto di tenerezza oltre che di divertimento. Ora comprendevo come ci si doveva sentire ad avere una sorella minore.

«Stai tranquilla. Mi prenderò cura di lui».

Sul suo volto si riaprì un sorriso di pura felicità.

«Ne sono sicura» disse per poi andarsene via saltellando.

Rimasi per un attimo a fissare la porta. Di cosa avevo paura? Era di Akira che si trattava e in quel momento stava soffrendo.

Con questa consapevolezza presi coraggio ed entrai.

Lo trovai steso a letto, avvolto tra le coperte che lo proteggevano come un bozzolo. Le tende erano tirate come se la luce che proveniva da fuori non fosse la benvenuta in quella stanza. Sembrava il covo di un vampiro.

Mi avvicinai e solo quando fui a pochi passi dal letto lui si accorse della mia presenza. Aveva gli occhi iniettati di rosso e sembrava madido di sudore. Pareva uno zombie. Avrei tanto voluto dirgli che non era proprio il periodo giusto per imitare i morti viventi, Halloween era già passato da qualche mese, ma non me la sentì di scherzare in quel momento, non con lui in questo stato pietoso. Uno straccio appallottolato avrebbe avuto senza dubbio condizioni assai migliori.

«Cosa ci fai qui?» domandò con voce flebile, così diversa da quella a cui ero abituato.

«Sono lusingato di tutta questa tua felicità nel vedermi, sai?»

«Scusami non volevo sembrare scortese» ribattè lui sospirando e avvolgendosi ancora di più tra le coperte.

Mi avvicinai ancora un poco fermandomi a pochissima distanza dal letto e lui si spostò un poco per permettermi di sedermi al suo fianco prima di puntare il suo sguardo stralunato su di me. «Chi ti ha aiutato a salire? Mia zia?»

«No, Simone. Mi ha tenuto sai come le principesse un braccio ai principi. É stato piuttosto imbarazzante, anche perché qualcuno avrebbe potuto pensare che noi stessimo...»

Non li vidi neppure muoversi. La sua mano rovente scattò verso il mio polso e mi costrinse a chinarmi verso di lui che si era alzato un poco.

«Non dirlo neanche per scherzo» sembrò quasi supplicarmi con i suoi occhi intensi eppure persi nel delirio causato dall'alta temperatura corporea. Ma per cosa? Avevo detto qualcosa di sbagliato?

L'unica cosa che poteva avergli dato fastidio era...bah, perchè mai avrebbe dovuto quella che doveva essere una battuta innocua per cercare di farlo stare meglio?

Ma dal suo sguardo capí subito che ciò non era e che mi aveva preso sul serio.
Posai la mia mano sulla sua e l'avvolsi delicatamente. Lui ebbe un leggero fremito ma non si scostó dal tocco.

«Scusami. Non volevo...»

«Non fa niente» lo tranquilizzai. Poi andai dritto al punto. «Come stai?»

Akira accennò un debole sorriso. «La febbre è più bassa di stanotte, e spero domani di non averne più. Comunque mi sento meno rimbambito di qualche ora fa in cui sembravo uno zombie».

«Non era questo che intendevo. Cioè non fraintendermi, sono preoccupato anche per la febbre. In verità mi riferivo a quell'altra cosa».

Dovette intuire a cosa mi stessi riferendo perchè il sorriso si trasformò in un'espressione di puro dolore mentre gli occhi si riempivano di lacrime. Un attimo dopo mi ritrovai la sua testa poggiata contro la mia coscia sinistra, il corpo che pareva attraversato da deboli sussulti. Dalla sensazione umida che provavo sui pantaloni dedussi che stava piangendo.

Mi sentì male ad aver tirato fuori il discorso, maledetta la mia curiosità invadente e la mia boccaccia che parlava anche quando non doveva.

Cercai di rincuorarlo facendo passare le mie dita tra i suoi capelli, morbidi al tatto come avevo sempre immaginato.

«Scusami, sono davvero indelicato oltre che un'emerita testa di ca...».

Lui alzò un poco la testa e mi poggiò l'indice sulla bocca per fermarmi.

«Va tutto bene. Credo che sia giusto che anche tu sappia».

A quelle parole mi sentì ancora di piú uno schifo. «Non sei obbligato».

«Invece lo vorrei fare. Mi fido di te e vorrei che sappia questo lato del mio passato». Prese fiato prima di continuare: «Che cosa sai?»

«Solo che tua madre é...deceduta e che la decorrenza della tua morte era l'altro ieri» risposi e lo sentì annuire lentamente.

«Avevo dodici anni quando è successo. Ricordo ancora il suo viso pallido e i tremiti del suo corpo che cercava di nascondere per non farmi preoccupare». Fece un sospiro. «Era da tempo che manifestava segni di stanchezza, alternava momenti in cui non ricordava ciò che stava facendo a quelli in cui sembrava non riconoscere me e Maiko ancora piccola. Nessuno diede molto peso alla faccenda, al lavoro sembravano stressarla più del dovuto, faceva la commessa di un negozio d'abbigliamento e a volte si trovava a che fare con clienti tutt'altro che semplici da gestire, finché non venne colta da un ictus. Fu allora che, dopo averle fatto una serie di analisi, le diagnosticarono un tumore maligno al cervello che a detta dei medici colpiva maggiormente gli uomini, ma che invece lei aveva sviluppato. Era a uno stadio avanzato. Inutile dire che fummo tutti shockati da questa notizia. Era l'otto novembre. Anche se c'erano poche possibilità le cominciarono la chemioterapia in attesa di un'operazione al cervello, disperata ma in cui avrebbero provato a rimuovere la massa tumorale».

Il giorno in cui non si era presentato facendomi andare a scuola senza motivo. In quel momento mi ero incazzato per non avermi avvisato, ero ancora in conflitto con la sua presenza, ma al sentire la motivazione mi sentì un insensibile.

«La prospettiva di vita se colpiti da questo tipo di tumore é di qualche mese, ma mia madre continuò diligentemente con la sua terapia, speranzosa di poterci stare accanto. Finchè esattamente un mese dopo non la sottoposero a questo intervento chirurgico. Qualcosa andò storto perchè subito entrò in coma. Mio padre non riuscì a convivere con le condizioni di mia madre, certo che se anche si fosse ripresa non sarebbe più stata la stessa, e che le sarebbe rimasta pochissimo tempo ancora da vivere, per questo, contro ogni previsone dei medici, si decise a trasferire mia madre in Svizzera per sottoporla all'eutanasia» dichiarò e a quelle parole rimasi raggelato. Non mi aspettavo di certo così tanto dolore celato dai suoi occhi ossidiana, se non si fosse deciso ad aprirsi sarei rimasto all'oscuro di tutto.**

«Akira...» cominciai a dire in un maldestro tentativo di rincuorarlo ma lui continuò.

«Non le sono stato vicino come dovevo. Quando lei tornava dal ciclo di chemioterapia si rinchiudeva in bagno scossa dai conati di vomito e anziché esserle d'aiuto mi rifugiavo un un'altra stanza, timoroso e a tratti disgustato di quello che stava diventando» continuò con voce rotta.

Infine alzò lo sguardo su di me, gli occhi arrossati e gonfi di lacrime. «È successo tutto così in fretta che non le sono riuscito a dire quanto le volessi bene. Non sono riuscito a dirle addio».

Non mi trattenni più e l'istinto vinse su tutto. Lo invitai a mettersi seduto per riuscire a stringerlo tra le braccia. Lui si lasciò andare in un pianto liberatorio, il viso premuto contro la felpa.

«Non devi sentirti in colpa Aki. Sono certo che tua mamma sapeva che le volevi bene e che tutto quello che stava succedendo era una situazione troppo grande per te. Eri ancora piccolo, dodici anni! A quell'età ancora non si capisce se si è ancora bambini o già grandi. È l'età in cui si è ancora confusi e che non si sa ancora cosa farsene della propria vita. É un momento caotico in cui l'ultimo pensiero dovrebbe essere la morte, a meno che non si abbiano tendenze suicide, ma non mi sembra il tuo caso».

Sentì Akira sospirare. «Ti sembrerò davvero patetico a continuare a pensarci anche a distanza di anni, vero?»

«Niente affatto. Ti rende solo umano. Dato che tenevi a lei é normale che ne senti la mancanza».

Akira si scostò dal mio tocco e si passò una mano sugli occhi. «Grazie Luca-chan. Adesso mi sento meglio» disse accennando un debole sorriso.

Avvertivo che le lacrime erano state assorbite dal tessuto della felpa ed erano permeate anche alla maglia a contatto con la pelle ma se era per rivedere il sorriso di Akira avrei fatto il bagno nelle sue lacrime.

«Domani tornerai a scuola?» domandai e lui distolse lo sguardo.

«Se mi passa la febbre...forse» cominciò a balbettare, forse vergognandosi del gesto sconsiderato che aveva compiuto e che l'aveva costretto a quella situazione.

«Ci conto. La tua assenza si è fatta sentire, sai?»

Lui mi fissò con sguardo stralunato. Che avevo detto di tanto strano?

«Ti...sono mancato?»

Alzai gli occhi al cielo esasperato da tanta ingenuità. «Ma certo! È scientificamente provato che la giornata non è perfetta se non si passa un certo lasso di tempo in compagnia del proprio sensei Cinese» ribattei e lui si lasciò scappare una breve risata, dopo avermi corretto , come a suo solito, sull'aggettivo "cinese".

«Mi rincuora saperlo» disse con lo sguardo puntato sul pavimento.

A quelle parole il mio cuore perse un battito. Il suo profilo era armonioso e mi piaceva come alcune ciocche si adagiassero sul collo diafano. Alzai una mano per poter toccare quelle ciocche, magari arricciarmele attorno al dito ma quasi subito ripresi il controllo delle mie azioni.

Cosa stavo per fare?

Per sfortuna Akira mi rivolse uno sguardo incuriosito subito però sostituito da uno sperduto. Ecco, lo avevo inquietato, non esattamente il mio intento.

Fu la suoneria del mio telefono a salvarmi da quella situazione imbarazzante.

Era un numero sconosciuto ma risposi comunque. Tutto per riportare su altro l'attenzione di entrambi.

«Pronto?»

«Ohi, stiamo salendo per accompagnarti a casa. Fatti trovare pronto» mi giunse all'orecchio la voce scocciata di Capelli Tinti. In sottofondo avvertì quella di Roberto che lo stava riprendendo per la sua mancanza di gentilezza.

Buttai giù la chiamata e in effetti constatai che si era fatto tardi.

«Dovrei andare. Cap...cioè Simone e Roberto sono venuti per accompagnarmi a casa» dichiarai, dentro di me la voglia di trattenermi era forte, ma dopo quello che stavo per fare era la scusa buona per evitare altro imbarazzo.

«Ah. Ecco, potresti salutarli da parte mia?»

«Sicuro? Pensavo che dato che non volevi vederli fossi arrabbiato con loro o una cosa simile».

«Niente affatto. È solo che...mi vergognavo a farmi vedere in questo stato pietoso».

«Aki, ti assicuro che sono solo preoccupati per te e che il loro ultimo pensiero sia giudicato. Tengono a te».

"Così come me" mi ritrovai a terminare il pensiero nella mia mente.

Lui ne parve sollevato e si risistemò sotto le coperte mentre mi risistemavo sopra la sedia a rotelle.

«Arigato*** Luca-chan» mormorò prima di chiudere gli occhi.

Stavolta non mi trattenni e gli accarezzai i capelli corvini. Lui non si mosse forse già piombato nel mondo dei sogni.

E forse era meglio, così non avrei dovuto spiegargli il mio gesto tettato unicamente dall'istinto.

Uscì dalla stanza in silenzio e mi mossi verso il soggiorno dove trovai già Roberto e simone ad attendermi.

Non considerai le lagne di Simone sulla mia lentezza e salutai la zia di Akira che mi sorrise, un sorriso strano che non capì fino in fondo. Sembrava racchiudere tristezza e speranza tutta in una volta.

La famiglia Vinciguerra era davvero costituita da elementi enigmatici.
 

Dal giapponese: fratellone
*** Dal giapponese: Grazie
** Non sono un medico, e per questo ho cercato informazioni per cercare di scrivere cose corrette. Se ciò non è avvenuto mi scuso anticipatamente 🙏🏼
 

Angolino autrice (non perduta...ma sommersa dal lavoro XD):

Buonsalve :3

Ecco il nuovo capitolo, altrettanto triste come quello precedente ma che rivela un tassello del passato di Akira, un dolore che lui cerca di nascondere.

Spero che vi sia piaciuto e che abbia soddisfatto le vostre aspettative 😊

Grazie per la lettura ❤️
FreDrachen

 

   
 
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