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Autore: CatherineC94    16/01/2022    6 recensioni
«Quindi davvero ti sposi?» chiede dopo qualche istante di silenzio Aberforth.
Augusta si sofferma sulle sue grandi mani rugose prima di rispondere e pensa che sarebbero state perfette sul suo corpo.
«È un uomo molto buono» gli dice, racchiudendo ciò che sente.
«Non ha una capra» risponde Aberforth.
l"Storia partecipante al contest Platonic relationship indetto da LadyPalma sul forum Writing games".
lQuesta storia è candidata agli Oscar della Penna 2023 indetti sul forum Ferisce la penna
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Crack Pairing | Personaggi: Aberforth Silente, Augusta Paciock, Minerva McGranitt
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Malandrini/I guerra magica, Dopo la II guerra magica/Pace
- Questa storia fa parte della serie '#Aberforth'
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Sherry liscio
 
«Non fare quella faccia schifata, Minerva».
Augusta lo dice alzando gli occhi, il tono che rasenta l’acidità più torbida e con sul viso una smorfia palese.
Lei non è stata mai brava a nascondere i propri sentimenti, anche quelli più frivoli o pericolosi, sono sempre stati un libro aperto per ogni interlocutore. Minerva, che la conosce da anni, non ribatte anche perché il tutto sarebbe una causa persa in partenza; si limita a stringere le labbra, che creano una sottile linea diritta e nervosa.
La porta del Pub si apre, le speranze di poter passare una serata pacata di Minerva si inabissano.
«Rosmerta era una scelta troppo ovvia?» sibila la donna, mentre Augusta si scrolla di dosso il lungo mantello bordato di mussola e lo poggia su uno sgabello.
«AH! Sento il puzzo rancido della supponenza» gracchia una voce malevola dal retro del bacone.
Minerva si immobilizza sul posto, mentre Augusta sorride.
«Sei di buon umore a quanto pare» esclama Augusta ironica.
Aberforth Silente compare con grandi falcate, la lunga barba ormai incolta ed un kilt sbiadito dal tempo e forse mangiucchiato dalla strana capra che lo segue anche alla toilette.
«Ero, fino a quando non ti ho vista da queste parti. Cosa c’è, il nuovo knarl puzzolente che ti sei trovata ti lascia uscire di casa?» dice burbero.
«Che linguaggio» sussurra stizzita Minerva.
«Mi dispiace, le tue orecchie sono abituate alle fusa che provengono dal mondo fatato di quel lestofante di mio fratello, ma qua c’è solo la realtà e vedi, quest’ultima è dolorosamente diretta» sputa il barista.
«Non è uno knarl puzzolente, forse un asticello tranquillo e beato» risponde tutta sorridente Augusta, mentre Aberforth la fissa per un attimo.
«Andiamocene via, ascolta Augusta. Non credo che questo sia il posto dove trascorrere il giorno prima delle tue nozze…» la supplica Minerva, che ormai stringe la bacchetta pronta ad affatturare l’uomo.
Aberforth, che la sta ancora fissando vuole dar ragione a l’insopportabile so tutto io di Minerva, ma non riesce ad emettere un suono.
«Questo è esattamente il posto dove dovrei essere» le dice Augusta.
La sua voce diretta colpisce Aberforth che si volta, senza ribattere. Minerva non riesce a cogliere il tutto, anche se forse comprende che dietro a quella frase la sua amica nasconde qualcosa che forse non le dirà mai; si alza irritata e si dirige in bagno.
«Quindi davvero ti sposi?» chiede dopo qualche istante di silenzio Aberforth.
Augusta si sofferma sulle sue grandi mani rugose prima di rispondere e pensa che sarebbero state perfette sul suo corpo.
«È un uomo molto buono» gli dice, racchiudendo ciò che sente.
«Non ha una capra» risponde Aberforth.
Augusta sorride amara, pensando che amare il suo fidanzato è sempre stato semplice come respirare, fin da quando si sono incontrati molti anni prima sull’Espresso per Hogwarts.
Poi però, negli scorci bui dei lunghi pomeriggi ad Hogsmeade, l’acida rabbia composta di Aberforth l’ha risucchiata, come un turbine ed ha toccato con mano abissi mai conosciuti prima.
Lui non avrebbe mai detto di sì, lei l’ha sempre saputo fin da quando il calore del suo alito ha sfiorato il lungo collo longilineo che possiede.
Così per un breve tempo ha preferito annegare nella stagnante consolazione che quell’uomo le ha offerto, non curandosi del dopo, non curandosi minimamente del perché.
«Saresti scappato a gambe levate, come fai sempre d’altronde» sussurra Augusta, versandosi del liquido trasparente nel boccale.
«Questo non puoi saperlo» ribatte irato.
 
 
«Non ti aspettavo più da queste parti» le dice schietto, anche perché lo pensa.
Augusta scuote la testa, i lunghi capelli arrivano sotto le spalle ed un sorriso increspato avvolge il volto ovale.
«Non sono più la benvenuta?» chiede, mentre prende posto senza curarsi della risposta.
Aberforth grugnisce, versando qualcosa nel suo calice con malcelato fastidio; ogni tanto posa lo sguardo sulla sua figura, ormai è una donna che gli ronza nei pensieri da un bel po’.
Augusta ha dei bei occhi, grandi, con un taglio quasi orientale dove si può scorgere una profondità che ti distrugge al solo sguardo.
«Hai sempre qualcosa da dire, non sei cambiata affatto» le risponde, provando a deviare la risposta, anche perché dirle che vedere una pietanza che non può assaggiare lo fa imprecare ancor di più contro il genere umano.
Augusta affila lo sguardo e ride.
«Sei così sgarbato» sghignazza.
«Il tuo damerino no? Fammi indovinare, starà preparando un bel pranzetto per quando sarai di ritorno a casa?» ribatte con i nervi a fior di pelle.
«È morto in realtà, dubito che da quelle parti si possa cucinare alcunché» mormora lei, mentre con una mano si perde nei lunghi capelli.
Un senso di inadeguatezza coglie Aberforth, facendolo tentennare.
«Cosa?» chiede brusco.
«L’hai sentito, mio marito è morto ucciso da qualche pezzo di idiota che passa da qua ad ubriacarsi mentre era in missione» esclama Augusta, gli occhi umidi ma mai una lacrima versata.
«Non lo sapevo» tenta Aberforth, quasi come se potesse contenere il danno che la sua proverbiale acida risolutezza crea.
«Si vabbè, niente di nuovo. Adesso versami qualcos’altro da bere, anche perché ho il ragazzo a casa tutto solo» chiede dura.
Aberforth fa come chiesto, mentre i suoi occhi si fermano ancora una volta sull’opale fiero del suo volto, provando uno sbigottimento enorme.
«Il ragazzo?» domanda.
«Si, Frank. Un tipo tosto sai? Ha preso tutto da me, lui sì che farà grandi cose…lo sento nelle ossa, mi renderà fiera come suo padre» esclama con voce alta Augusta, mentre il Pub si svuota lentamente.
Augusta toglie il mantello da viaggio, ed Aberforth si sente più verme di prima quando indugia sul corpo della donna; si sente attratto da quella forza che emana, che non sa di follia ma di puro argento scolpito dentro l’anima che non è mai riuscito a trovare in nessun altro.
«Avresti potuto dirmelo» le dice.
Augusta punta gli occhi sul suo volto, quelle grandi pozze marroni che ti fanno affogare e lui, che vorrebbe solo perdersi in qualcosa di così intenso quasi si abbandona.
«Per dirti cosa? Che questa è la vita?» sussurra, con l’alito corrotto dall’alcool e da qualche voluttuoso ricordo.
«La tua è una corazza» mormora lui.
Augusta si smarrisce, gli occhi puntati verso qualche altra cosa che Aberforth non può conoscere e che forse è la causa reale del suo selvaggio e forte temperamento.
«Dovresti tener d’occhio i muri che hai eretto tu, i miei ormai sono invalicabili» sussurra.
Le parole si fermano in gola ed Aberforth, che non hai mai trattenuto una brutta risposta per la prima volta nella sua bieca esistenza, si limita al silenzio.
«Non saresti dovuto scappare, avresti dovuto dire di sì. Adesso è troppo tardi» gli dice, afferrando il mantello ed andando via.
Aberforth rimane fermo ad osservarla, pensando che sarebbe stato impossibile farlo al tempo. Poi però ricorda i suoi occhi e forse per un attimo pensa che lei avrebbe voluto una scelta, un atto di forza.
Non l’ha fatto, non avrebbe potuto.
Aberforth è inerme.
 
 
 
 
«Se sei venuta qua per farmi una ramanzina, togliti di mezzo».
Aberforth è stizzito, gli occhi rossi iniettati di sangue ed una rabbia che avrebbe potuto mettere a fuoco l’intera Foresta Proibita.
«Sei un imbecille egocentrico, voglio bere qualcosa che non sia quel ciarpame che vende Rosmerta» ribatte Augusta con voce incrinata dal fastidio.
Aberforth non la guarda negli occhi, si limita a continuare a mangiare indisturbato.
«Hai sentito? Voglio bere!» strilla ancora lei, avanzando con elegante nonchalance; sul viso ormai rugoso una smorfia di disapprovazione mista a sincero divertimento.
«Non verrò mai a quell’insulsa pagliacciata messa in atto da quell’insulso bamboccione di Potter, sognatelo» gracchia nervoso Aberforth.
«Ma che me ne frega? Onestamente, so che la notte ancora batti chiodo con quella stramba della Cooman, ma il cervello non ti funziona bene ho come l’impressione!» esclama l’altra, ormai con gli occhi al cielo.
Aberforth rimane fermo ad osservarla, per poi scoppiare a ridere.
«Alla tua età, bere così tanto non fa male?» la provoca.
Lei ride, un suono metallico che riempie la stanza e che ricorda ad Aberforth un tempo. La rivede per un attimo avvolta dai suoi lunghi e magnifici capelli neri, con gli occhi puntati sul suo volto che indagano e vanno al di là.
«Ti consiglio di nasconderle le bottiglie, sennò le finisco» dice lei ridendo.
Aberforth si unisce a lei, ancora una volta perso in quegli occhi che non sono mai cambiati.
«Ho sentito che tuo nipote ha fatto la festa al serpente» esclama fischiettando.
«Ah sì, l’ho sempre saputo che ha gli attributi anche se li teneva nascosti» aggiunge Augusta fiera.
Aberforth rimane in silenzio per un po’, l’osserva trangugiare con foga ciò che le ha versato e per una volta si chiede se ha fatto la cosa giusta. Non è cambiata di una virgola, anche se il tempo è stato impietoso con la sua magnifica figura e con il suo volto, che ha ammirato con devozione nascosta per anni.
«Dovresti venire a quell’idiozia che ha organizzato il ragazzo» gli dice dopo un po’.
«Lo sapevo, siete tutti uguali. Che devo commemorare? Tutte le persone schiattate per il piano partorito da quella mente deviata di mio fratello?» sbotta irato.
Augusta non lo degna di uno sguardo.
«Dovresti in effetti» si limita a dire.
«Vacci tu, con quell’orribile cappello con l’avvoltoio impagliato!» impreca Aberforth.
Augusta alza le spalle, elegante e fiera si volta sul suo sgabello; lo fissa per un attimo, con gli occhi grandi ed obliqui.
«Ci andrò e dopotutto questo dannato cappello tarmato è stato un tuo stupido regalo. Adesso portami da bere» dichiara ferma.
«Cosa ti porto?» chiede Aberforth arreso.
«Uno sherry liscio, come sempre».
 


Note.
Dopo secoli ritorno a scrivere ebbene quest’idea malsana mi ronzava in testa da un bel po’. Spero sia di vostro gradimento… un abbraccio.
 
 
 
 
 
   
 
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