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Autore: MaryFangirl    17/01/2022    0 recensioni
Kaede Rukawa, ex matricola dello Shohoku, finalmente sta realizzando il suo sogno; ma troppo presto, tutto sembra andare a rotoli. Dall’altro lato, Hanamichi Sakuragi, autoproclamato genio e re dei rimbalzi, si trova a un bivio su quale college scegliere per il suo prossimo futuro.
Cercare risposte e prendere decisioni, è così che le strade di entrambi si incrociano di nuovo, iniziando un inedito viaggio che li porterà a conoscersi come non avrebbero mai pensato di fare.
Genere: Commedia, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Altro personaggio, Hanamichi Sakuragi, Kaede Rukawa
Note: Lemon, Traduzione | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Fanfiction tradotta dallo spagnolo, potete trovare i dettagli dell’originale qui sotto.
Titolo originale: Somos fuertes
Link storia originale:
https://www.amor-yaoi.com/fanfic/viewstory.php?sid=116963
Link autore: https://www.amor-yaoi.com/fanfic/viewuser.php?uid=59438
  
Ciao a tutti ^^ sulla scia della mia fissa periodica per Hanamichi e Kaede mi sono imbattuta in un sito in lingua spagnola a contenuto esclusivo yaoi e ho trovato un’autrice che ha scritto davvero delle belle fanfiction su questa coppia, chiedendole di conseguenza il permesso di tradurle...quindi rieccomi :D
 
Spero che la storia in questione vi piaccia, io l’ho adorata ^^ ero indecisa se lasciarla a rating arancione, come in originale, o se mettere il rating rosso, perché a un certo punto diventa davvero bollente...alla fine ho deciso di impostare il rating arancione, ma attenzione perché è un arancione davvero molto molto acceso, tendente al rosso!! In questo modo anche chi non è iscritto al sito ha la possibilità di leggere...
 
Se vorrete leggere e lasciare una vostra opinione, ne sarò contenta ^^ Penso che aggiornerò ogni lunedì, anche perché ogni capitolo è abbastanza corposo. Buona lettura.
 

 
Con l’orologio che ticchettava i due minuti restanti dalla fine della partita, gli spettatori iniziavano a trattenere il respiro. Gli animatori e i seguaci dei vincitori saltavano sui sedili e applaudivano con grida o preghiere silenziose per i propri preferiti. Gli allenatori fissavano come falchi i giocatori che correvano in campo. Misurando, analizzando, muggendo istruzioni, indicando posizioni. In tutti gli sport ogni secondo è prezioso, ma nel basket sembra che ognuno duri un’eternità: il palleggio esasperante, un layup impeccabile, una difesa schiacciante, una tripla dalla parabola perfetta, una schiacciata vigorosa. Un secondo può cambiare tutto.
 
Diventa il giocatore numero uno nelle scuole superiori giapponesi.
 
Capelli neri e setosi gli ricadevano sugli occhi come un mantello trasparente. Ad ogni occhio curioso che lo vedesse, il ragazzo seduto mezzo accucciato sulla panchina della squadra del North Carolina sembrava osservare assorto la partita/battaglia con un’aria arresa. Ma la realtà era tutt’altra.
I suoi occhi blu guardavano ma non mettevano a fuoco. Con un asciugamano intorno al collo e alle spalle, il ragazzo teneva le mani giunte come a imitare una preghiera. I fan che pensavano che pregasse per i Tar Heels*, sarebbero rimasti delusi.
 
Diventa il giocatore numero uno nelle scuole superiori giapponesi.
 
Quella frase continuava a ripetersi nella sua testa. Come un mantra, una canzone orecchiabile, un cd per imparare l’inglese (di quelli che tanto aveva ascoltato prima di imbarcarsi in quell’avventura). Risuonava e si ripeteva nella sua mente più e più volte. Più e più volte.
All’inizio lo aveva motivato e incoraggiato ad andare avanti: lo aveva aiutato a migliorarsi nella squadra giovanile degli All Japan; lo aveva temprato per sopportare il suo assurdo compagno di squadra durante i suoi anni allo Shohoku; gli aveva permesso di guardare sempre avanti, continuare a lottare e lavorare per essere il migliore. Anche se durante il secondo anno avevano perso in finale e il migliore giocatore dei nazionali era stato un ragazzo di un altro distretto.
 
Se l’era ripetuta quando il professor Anzai e Miyagi avevano nominato Sakuragi come capitano della squadra al terzo anno, per cercare di controllare la rabbia e la gelosia. E aveva continuato a ripetersela finché non erano finalmente riusciti ad alzare la coppa del campionato nazionale; fino a quando non era stato nominato e premiato come migliore giocatore; finché il professor Anzai non gli aveva dato la sua benedizione.
 
Ma ora quella frase lo seguiva, lo perseguitava e lo tormentava.
 
Sono il migliore. Sono il migliore del Giappone.
 
“Time out!”
 
I suoi occhi di zaffiro si voltarono quando udì la voce dell’allenatore, Roy Williams**.
Lo trovò a parlare al tavolo principale, avvicinandosi poi alla panchina e facendo cenno a tutta la squadra di radunarsi. Tutti i ragazzi, alcuni sudati e ansimanti, si formarono in cerchio accanto all’uomo che cominciò a parlare con tono deciso. L’allenatore li guardava negli occhi, commentando e parlando dei pochi secondi che restavano, della minima differenza che li affliggeva. Dialogo sulla vittoria, la gloria e l’onore. I giovani annuirono e sorrisero quando ciò era giustificato, ma più di ogni altra cosa cominciarono a raccogliere la loro determinazione per vincere.
 
“Paige, rimarrai in panchina...”
 
Il ragazzo sospirò mentre l’allenatore, con gli occhiali abbassati, guardò ciascuno dei giocatori ancora in panchina. Kaede trattenne involontariamente il respiro. I suoi muscoli si tesero e i suoi occhi brillarono. I piccoli occhi dell’uomo sembravano trapassargli l’anima mentre si concentravano su di lui; qualcosa dentro il ragazzo parve muoversi, quasi disperato, ma rimase calmo, del tutto controllato. Quel millesimo di secondo in cui i loro sguardi si incontrarono, nuovi mondi nacquero, vissero e si distrussero, ma il desiderio che corrodeva il suo controllo non raggiunse o non volle essere letto dall’uomo.
 
“McAdoo***, prendi il posto di Paige...ok, ragazzi! Vinciamola!” gridò l’uomo, al contempo applaudendo e spingendo gli atleti.
 
“Sì!” i cinque giocatori corsero al centro del campo, dove gli avversari li aspettavano con ansia, sapendo che per il momento erano i vincitori.
 
Diventa il giocatore numero uno nelle scuole superiori giapponesi.
 
Non era sufficiente? Non era abbastanza? I suoi pugni si strinsero con rabbia e frustrazione. Ma il suo viso rimase immutabile, sereno e calmo, serio e inaccessibile. Le sue vene ribollivano, ma la sua pelle pallida continuava a fingere di essere fatta di ghiaccio. Sbatté le palpebre un paio di volte prima di concentrare gli occhi sul gioco di fronte a lui.
Alcuni suoi compagni erano in piedi accanto a lui in attesa. Altri urlavano al suo fianco.
 
Guardò il tabellone. Erano sotto di due punti.
 
“Corri, corri, corri!”
 
Uno dei suoi compagni in campo – Kaede non ricordava il nome – dribblò e ingannò la difesa avversaria, penetrandola e raggiungendo una posizione perfetta per segnare. Il ragazzo piegò le ginocchia e alzò le braccia.
 
“La mano sinistra serve solo a tenere la palla...” mormorò, attirando l’attenzione di un compagno che lo guardò confuso. Ma Kaede continuava a osservare il ragazzo che giocava in campo. L’ultimo secondo in cui la palla fluttuò in aria sembrò durare un’eternità. Pareva che nessuno osasse respirare per non deviare la direzione della palla. Nessuno si muoveva né pensava. Ma non era abbastanza. La palla rimbalzò e quando i giocatori, sia del North Carolina che dei Duke, corsero incontro ad essa, il tempo finì.
 
Le urla ruppero l’istante di silenzio che era caduto nello stadio. Il mutismo e la delusione impregnarono i tifosi dei Tar Heels, che lasciarono bruscamente e con urgenza i loro posti verso l’uscita.
Kaede, guardandosi intorno, chiuse gli occhi e respirò profondamente. Sentendosi le spalle e le gambe un po’ meno tese, si concesse di andare nello spogliatoio, dove ormai molti suoi compagni erano diretti.
Il suo allenatore e alcuni ragazzi della squadra rimasero a parlare con la stampa o a firmare autografi.
 
Nessuno chiamò né urlò il nome di Kaede Rukawa.
 
^ ^ ^ ^
 
I suoi occhi lottavano per restare aperti. Solo finché non finisci di mangiare, si disse, trascinandosi un altro boccone alle labbra. Non aveva dormito per tutto il giorno. Non con l’allenamento mattutino, poi il discorso dell’allenatore, nel pomeriggio la breve e ansiosa passeggiata verso lo stadio, e infine la partita serale.
Ora che era finalmente a casa, il ragazzo pensava di poter chiudere gli occhi e abbandonarsi ai sogni.
 
“La tua squadra ha giocato molto bene, Kaede”.
 
Kaede si limitò ad annuire alla voce di sua madre. Guardò quanto poco cibo era rimasto nel suo piatto e decise di aumentare un po’ il ritmo.
 
“Quel ragazzo...Paige, si chiama? È molto bravo”
 
Alzando lo sguardo, incontrò occhi identici ai suoi. Non vide traccia di malizia, scherno né disgusto in essi. Non c’era nessuna cattiva intenzione dietro il commento. Solo un modo di fare conversazione.
Sua madre, nonostante vivesse con lui da diciannove anni, sembrava non voler rinunciare al suo obiettivo di farlo parlare.
 
Eppure ormai dovrebbe saperlo, si disse Kaede, d’altronde si era sposata con suo padre, dal quale lui aveva ereditato quella personalità silenziosa e introversa.
 
“Oggi...non ti sentivi bene?”, sapeva perché lo stava chiedendo, era anche sicuro che lei conoscesse la rispost alla domanda, ma non si sentiva abbastanza sicura da pronunciare le parole ad alta voce.
Kaede bevve un po’ di succo per far partire la digestione più velocemente.
 
È imbarazzante, gemette un po’ senza guardare direttamente sua madre negli occhi.
 
“Io...scommetto che il coach Williams ti farà giocare presto. Vuole solo assicurarsi che tu sia in forma”, Kaede sentì l’eccitazione e la speranza nella voce di sua madre; una parte di lui non poteva fare a meno di volerla guardare e annuire, credendo nelle sue parole. Tuttavia, l’altra – quella in superficie e la più forte – la censurava e distruggeva quello che diceva.
 
Cosa ne sa lei.
 
“Ho finito” rispose invece, alzandosi con calma, “vado a dormire. Ho le lezioni domani mattina”
 
Lezioni a cui probabilmente sarebbe arrivato tardi per essersi addormentato, come solitamente accadeva. Sfortunatamente le vecchie abitudini (o hobby, come alcuni le chiamavano) erano dure a morire; motivo per cui Kaede continuava ad addormentarsi ovunque, in qualsiasi momento e in ogni minuto. Ma, proprio come aveva promesso al professor Anzai e al suo manager, avrebbe cercato di fare del suo meglio negli studi.
 
“Certo, certo. Buonanotte...aspetterò che arrivi tuo padre”
 
Kaede annuì e andò nella sua stanza al secondo piano. Alcune volte – come in quel caso – si pentiva di non aver fatto domanda per accedere ai dormitori che offriva l’università; in quel modo avrebbe risparmiato almeno quel tipo di conversazione.
Ma ormai era lì. I suoi genitori erano andati negli Stati Uniti con lui e pertanto nessuno di loro vedeva la ragione per cui non vivere insieme durante i primi anni.
Non che Kaede volesse andare all’università per socializzare – a malapena parlava con alcuni suoi compagni di squadra.
 
Chiudendo la porta della stanza, non esitò a gettarsi sul letto con entrambe le braccia dietro la testa – si era già lavato e cambiato.
 
Diventa il giocatore numero uno nelle scuole superiori giapponesi.
 
Quelle parole echeggiarono di nuovo con forza nella sua mente. Respirò profondamente cercando di schiarire e cancellare tutti i pensieri indesiderati, ma il compito non andò a buon fine. Solo a ricordare la partita di poche ore prima, un accumulo di sensazioni per lui estranee sorgeva al suo interno, facendolo addirittura tremare di rabbia.
 
Avrei potuto fare meglio, pensò, ricordando alcune delle giocate dei suoi compagni.
 
Avrei potuto ricevere meglio il passaggio, concluse pensando ai suoi giorni allo Shohoku, quando al secondo e al terzo anno molte delle matricole – e poi degli studenti del secondo anno – praticamente organizzavano il gioco per lui, dandogli quasi sempre la palla, fornendogli l’opportunità di perfezionale la sua tecnica di posizione e ricezione.
 
Avrei potuto superare meglio la difesa.
 
Non per nulla nella sua squadra c’era quella rumorosa scimmia dai capelli rossi, il cui unico obiettivo negli allenamenti era quello di fermarlo – cosa che gli era riuscita molte volte, per la frustrazione e la sorpresa di Kaede.
 
E avrei anche fatto canestro, concluse, ricordando uno dei tanti faccia a faccia che aveva condiviso con Sakuragi, che fosse nella palestra della scuola o in campetti pubblici; con il corpo e la forza mostruosa di quello scemo, Kaede aveva potuto e dovuto imparare a tirare in diversi modi.
 
Diventa il giocatore numero uno nelle scuole superiori giapponesi.
 
Lo sono. Sono il migliore del Giappone.
 
Ma non era abbastanza in quel posto. Quella era la vita vera. Era l’America. La NCAAB. Basket di livello accademico. Dove gli occhi dell’NBA e della stampa straniera puntavano per gli acquisti futuri. E, per sua irritazione e frustrazione, lui non stava facendo una buona impressione.
Il suo nome aveva risuonato solo in principio. Quando era arrivato allo stabilimento universitario all’inizio dell’anno precedente, poco dopo aver terminato gli studi allo Shohoku, migliaia di giornalisti si erano avvicinati a lui per incontrare la novità, la stella giapponese. Ma si era trattato solo di quello: una novità.
 
Strinse forte i pugni. Si sollevò, rimanendo seduto sul copriletto. Inspirò ed espirò un paio di volte.
Non era affatto comune per lui andare fuori di testa in quel modo.
L’unica cosa che suscitava in lui una reazione era la pallacanestro. Sempre desiderando di essere il migliore, allenandosi duramente, superando gli avversari. E beh, perché mentire, anche quell’idiota dai capelli rossi, di cui il professor Anzai parlava e da cui si aspettava tanto.
 
Kaede era sempre andato fuori di testa e si era sorpreso che un ragazzo violento e teppista come lui, che all’inizio non aveva idea di come si giocasse a basket, in pochi mesi era diventato un pezzo chiave della squadra, poi ne era stato il cuore, e alla fine, un giocatore indispensabile.
 
Mpf, quello stupido...
 
Tornando a letto, decise di infilarsi sotto le lenzuola. Era tardi, e non mentiva quando diceva che avrebbe davvero cercato di dare il suo meglio negli studi. Chiuse gli occhi e come per magia il sonno lo invase, non senza prima pensare che il giorno dopo si sarebbe allenato più duramente.
Avrebbe dato tutto di sé in campo. Avrebbe dimostrato ad allenatore e compagni chi era Kaede Rukawa e perché era stato incoronato miglior giocatore del Giappone.
 
^ ^ ^ ^
 
Una settimana dopo quella promessa, Kaede sentiva il sudore colargli dalla tempia fino al mento. Se era certo di qualcosa, era che entrambe le magliette che indossava per l’allenamento, ora erano fradicie. Appoggiò entrambi gli avambracci sulle ginocchia, cercando di controllare la respirazione. Calmandosi un po’, alzò lo sguardo. Immediatamente si imbatté in molti dei suoi compagni che giacevano sul pavimento, altri bevevano acqua come disperati, altri si strofinavano il viso con un asciugamano come se si stessero punendo. Non poté fare a meno di sentirsi un po’ meglio quando notò che era in una forma fisica molto migliore di parecchi di loro. Tuttavia il buon umore svanì rapidamente.
 
Se sto così bene, allora perché non gioco.
 
Risentì la voce dell’allenatore, come da dietro le quinte. Aveva parlato loro delle successive partite, che gli allenamenti ora sarebbero diventati più rigorosi e pesanti. Aveva anche fatto una piccola ramanzina sull’ultima prestazione contro i Duke, ma si era anche congratulato per il grande impegno che stavano dimostrando negli ultimi giorni, e alla fine li aveva congedati.
 
In pochi giorni ci sarebbe stata un’altra amichevole o, come amavano chiamarla, una partita dimostrativa. In quel periodo le squadre si dedicavano a sfoggiare i nuovi acquisti o nuovi trucchi, nuove manovre o stili di gioco. Erano impegni che tifosi e stampa aspettavano per catalogare e pronosticare come sarebbe stata la stagione seguente.
Kaede, come si era ripromesso, aveva iniziato ad allenarsi il doppio, anche il triplo. Era sicuro che stava lasciando l’anima in ogni allenamento. Non per niente, appena finito con la squadra, il suo corpo e la sua mente arrivavano a casa vivi per miracolo.
In classe ultimamente si addormentava appena si sedeva. Gli studi ovviamente stavano peggiorando. Ma non poteva farci niente. Lo aveva già detto una volta: il basket era l’unica cosa che contava per lui.
 
Bevve un po’ d’acqua dalla bottiglia che aveva lasciato sul pavimento insieme alle sue cose. Con la coda dell’occhio vide alcuni suoi compagni che scherzavano, altri si dirigevano negli spogliatoi, altri semplicemente aiutavano a raccogliere le palle e quanto usato dalla squadra. Kaede rifletté sull’idea di fare una veloce doccia e andare a casa, ma notando che nessun muscolo gli faceva male più del solito, decise di dirigersi a un campetto pubblico trovato poche settimane prima vicino al suo quartiere.
Uno dei chiari vantaggi degli Stati Uniti era che quei campetti erano molto più comuni e facili da trovare rispetto al Giappone. Lì doveva percorrere una buona quantità di chilometri in bicicletta per trovarne uno, mentre in America ce n’era uno in ogni quartiere.
 
Decso, prese il resto delle sue cose e andò all’uscita. Non prestò attenzione alle persone che gli si avvicinavano. Anche quello era diverso dal Giappone, l’attenzione che riceveva. Forse all’inizio era stato sulla bocca di tutti perché era giapponese, ma non appena la scintilla della curiosità era morta, aveva finito con l’essere uno tra le migliaia di studenti. Nemmeno con la sua statura si distingueva. Con i suoi 188 cm – sì, era cresciuto di un centimetro durante gli ultimi due anni allo Shohoku – era uguale se non più basso rispetto a molti suoi compagni di squadra o di ragazzi di altri sport all’interno dell’università.
 
“Ehi, Rukawa!”
 
Con il suo fedele lettore cd agganciato ai pantaloni, il ragazzo ignorò il resto del mondo che gli passava accanto. Per prima cosa si sarebbe diretto dov’era parcheggiata la sua bici. Cercando nella borsa la chiave della catena con cui aveva legato il suo mezzo di trasporto, sentì una mano forte e scusa afferrargli un braccio.
Si voltò bruscamente verso l’impertinente.
“Amico, tu sì che cammini veloce” uno dei suoi compagni di squadra, un po’ più basso di lui, con i capelli neri come la notte e gli occhi marroni, gli sorrideva.
“Ah, devo andare” chinandosi tolse la catena alla bicicletta. Montandovi sopra distrattamente, notò che il suo compagno – pensava si chiamasse Tom – era ancora in piedi accanto a lui.
 
E adesso cosa vuole, si chiese guardandolo con insistenza.
 
“Allora...vieni alla festa di Brian?”
 
“Brian?” chiese più per cortesia che per reale interesse. Quel ragazzo, Tom, da quando lui era arrivato in università e nella squadra di basket, era sempre stato abbastanza amichevole con lui. Apparentemente era la sua personalità, perché lo vedeva sempre parlare e scherzare con tutti i ragazzi della squadra. A Kaede ricordava un po’ la ‘riserva’ della squadra dello Shoyo, fuori dal campo era un ragazzo semplice e calmo, amichevole con tutti, ma quando giocava si trasformava in un demone e in un avversario temibile°.
 
“Ehi! Uno dei nostri compagni di squadra...sai, quello con i capelli castani”, Kaede si limitò a guardarlo, “un tizio bianco e molto alto...”, Kaede continuò a fissarlo, “porta gli occhiali”, ora Kaede annuì. Sì, pensò di conoscere quel tipo, ma solo perché Brian, con gli occhiali, gli ricordava Kogure senpai.
 
“Sì, vieni? O sì, lo conosci?”
 
“Sono impegnato” rispose. Si sistemò sulla bici sperando che il ragazzo capisse che doveva davvero andarsene, ma non funzionò. Tom alzò le sopracciglia in modo strano e gli diede una gomitata un paio di volte con un grande sorriso piantato in faccia.
 
“Una ragazza sexy?”
 
Kaede sospirò interiormente. Ci sono idioti in tutto il mondo, pensò scuotendo la testa per rispondere.
 
“Mi ha chiamato il mio manager. Ho appuntamento con lui”
 
Ogni traccia di divertimento scomparve dal viso di Tom. Era l’unico in squadra – e probabilmente nel paese, insieme ovviamente ai suoi genitori – che sapeva della difficile situazione che Kaede stava passando. L’americano non sapeva molto bene cosa dire per animare il ragazzo, perché lui, di due anni più grandi, non aveva mai dovuto passare per quell’esperienza – quella di essere ignorato.
 
“Ah...beh...è molto più importante di una stupida festa, no?”, grattandosi il collo, abbassò lo sguardo con disagio verso il suolo senza sapere che altro dire. Kaede, conscio del suo nervosismo, annuì e se ne andò. Il compagno alzò la mano, un po’ sollevato nel vedere la figura del giovane scomparire tra la folla.
 
In realtà non doveva incontrare il suo manager in quel momento. Quando lo aveva chiamato al mattino, l’uomo gli aveva chiesto di vedersi in serata per parlare. Forse proprio per quelle parole era così nervoso e ansioso. Aveva una brutta sensazione. Beh, non brutta. Ma sentiva che stava per succedere qualcosa. E lo stava mangiando dentro. E se avessero voluto escluderlo dalla squadra? Non aveva ancora dato il meglio di sé. Ancora non aveva dimostrato il suo valore, il suo talento, che era capace di essere migliore.
Il suo rappresentante, Dan, sarebbe arrivato a casa più tardi. Normalmente si aspettava che i suoi genitori fossero presenti, ma Kaede prendeva sempre le sue decisioni per conto proprio. I suoi genitori lo sostenevano in tutto, quindi non c’erano ulteriori problemi.
 
Con la musica che gli rimbombava nelle orecchie, non si sorprese nel non addormentarsi durante il tragitto. Da un lato la sua testa era troppo occupata a rimuginare sull’argomento della notizia che Dan avrebbe portato, e dall’altro, aveva appreso che il traffico negli Stati Uniti era molto più abbondante e aggressivo rispetto alle strade pacifiche di Kanagawa. Quindi sì, meglio restare con entrambi gli occhi spalancati.
 
Quando arrivò al campetto, fu contento di vedere che non era occupato – cosa abbastanza strana, a dire il vero – ma non ci pensò molto. Parcheggiò la sua bici, si tolse i vari pesi di dosso e si preparò per riprendere l’allenamento.
 
Come sempre succedeva, dribblando, palleggiando e tirando, qualsiasi problema, cattivo pensiero e strani presentimenti magicamente scomparvero dalla sua mente. L’unica cosa che contava in quel momento erano lui e la palla. Tenendola saldamente tra le mani, corse avanti e indietro per il campetto consumato. Immaginando vari giocatori sul suo cammino, cercò di passare e affrontare gli avversari a cui pensava.
Immaginava di giocare contro Sendo, Maki, Sawakita – che un anno prima si era trasferito nel basket spagnolo. Ma soprattutto contro Sakuragi. Per quanto lo infastidisse ammetterlo, quella stupida scimmia era un giocatore abbastanza completo, in grado di realizzare giocate perfette sia in difesa che in attacco, soprattutto durante il terzo anno, dove Kaede per un momento aveva temuto di non ricevere il riconoscimento come miglior giocatore del campionato.
 
Cercò di proiettare alcuni dei suoi compagni di squadra o di altri team nella lega NCCAB, ma doveva ammettere che non aveva prestato troppa attenzione alle capacità di ciascuno per confrontarsi con loro nella sua mente.
 
Dopo una giocata estenuante, appoggiò entrambe le mani sulle ginocchia, ansimando per alcuni istanti.
Raddrizzandosi lentamente, si diresse verso la vecchia panchina dove aveva appoggiato le sue cose. Quando si pulì con un asciugamano, si sorprese della quantità di sudore che lo inzuppò.
Bene. Ciò significava che si stava allenando duramente.
 
Si guardò intorno senza prestare molta attenzione. Si mise i pantaloni lunghi della tuta insieme alla giacchetta e si diresse verso la bicicletta per tornare a casa. Era desideroso di appoggiarsi sul morbido e sempre accogliente materasso del suo letto; prima, però, doveva mangiare qualcosa, si ricordò. Non avrebbe reso molto nell’allenamento il giorno dopo se non avesse avuto energie.
Appena entrato in casa, desiderò colpirsi da solo. Non lo fece ovviamente, ma lo desiderò.
 
Aveva completamente dimenticato che Dan si sarebbe presentato a casa sua. Bravo, Kaede.
Sia sua madre che il suo manager erano comodamente seduti in soggiorno con qualche spuntino sul tavolino da caffè. Fortunatamente nessuno dei due sembrava sconvolto o altro; non che avesse importanza, ma era meglio che l’atmosfera fosse calma.
 
“Finalmente sei arrivato, Kaede” gli sorrise sua madre con apparente tranquillità – perché Kaede rilevò il rimproverò nel luccichio dei suoi occhi.
 
“Buonasera, Kaede. Ho immaginato che avessi dimenticato che sarei arrivato, quindi sono venuto un po’ più tardi”
 
Kaede si accigliò appena. Da quando si erano incontrati la prima volta, Dan aveva preso l’abitudine di chiamarlo per nome e di trattarlo come un vecchio amico. La cosa lo irritava un po’, ma capiva anche, proprio come l’uomo gli aveva spiegato fin dall’inizio, che se il rapporto di lavoro tra loro due fosse andato bene, si sarebbero visti per molto, molto tempo, quindi era meglio cominciare a trattarsi con familiarità, saltando il primo stadio di fredda cortesia. Lui aveva accettato tutto principalmente perché Dan era un caro vecchio amico del professor Anzai – che li aveva messi in contatto – e perché era riuscito a legarlo alla leggendaria squadra del North Carolina, in cui aveva giocato Michael Jordan.
 
“Kaede, ti porto qualcosa da mangiare mentre parli con Dan-san” disse sua madre prima di andarsene.
 
Kaede, con passo pigro, si avvicinò a una poltrona e quasi vi si gettò sopra. Voglio dormire, pensò, lasciando la borsa lì vicino. Intenzionato a controllare le proprie palpebre, fissò l’uomo di fronte a lui, insistendo con lo sguardo affinché si muovesse a parlare.
 
“Sembri più pallido del solito, Kaede, stai mangiando bene?”
 
Che significava? Sembrava malato per caso? Per quello non lo consideravano per giocare? Ma l’unica ragione per cui era più stanco del normale era perché stava sudando fino all’osso per esaltare ogni suo aspetto nel gioco!
 
A malapena dormiva. Lui, Kaede Rukawa, stava rinunciando a preziose ore di sonno per continuare ad allenarsi. Kaede avrebbe voluto urlare per la frustrazione. Avrebbe voluto insultare il mondo. Avrebbe voluto assomigliare un po’ di più al suo scandaloso compagno di squadra dello Shohoku, che era così capace di liberarsi di ogni suo fardello.
Perché lo tenevano allora? A quei bastardi piaceva tenerlo sulle spine?
Dannati, pensò stringendo i pugni.
 
“Cos’ha detto l’allenatore?” chiese forse un po’ troppo repentinamente. L’uomo sbatté le palpebre più volte prima di rispondere.
 
“Il coach Williams?”
 
Kaede quasi ringhiò per la domanda stupida. Chi altri, si disse mentre annuiva.
 
“Eh...Roy non mi ha detto niente, Kaede”
 
Kaede si accigliò. Allora perché diavolo è qui?, si chiese ora disinteressato. Se non si trattava della squadra, non gli importava. Molto probabilmente, come per l’anno precedente, il suo manager voleva che si occupasse di interviste e altre frivolezze. Idiozie, si disse guardando verso la porta che dava in cucina, chiamando mentalmente sua madre – o meglio, la cena.
 
“Beh, immagino che tu sia stanco, quindi arriverò al punto...”
 
Kaede appoggiò la nuca allo schienale della poltrona, ascoltando poco l’uomo che raccontava chissà che cosa sul fatto che avesse viaggiato e bla bla bla. Si raddrizzò solo quando sua mamma gli mise davanti un vassoio pieno di cibo fumante e dall’aspetto delizioso.
 
“...e quando sono tornato a casa una settimana fa, Anzai aveva riempito la mia segreteria telefonica di messaggi...”
 
La pasta scivolosa e succosa che passava dalle sue labbra si bloccò a metà. Il Professor Anzai?
 
“Come potrai immaginare, l’ho richiamato subito. E non preoccuparti, sta bene...abbiamo parlato per ore. Mi ha chiesto di te...”
 
Kaede, posando il piatto sul vassoio, sentì di nuovo quella strana sensazione al petto, quello strattone bizzarro.
 
“E mi ha parlato di Sakuragi e delle offerte che gli stanno piovendo addosso. A quanto pare il ragazzo è un po’ titubante...”
 
Sakuragi, offerte, titubanza? Cosa?
 
“E...Anzai mi ha chiesto un favore. Un favore che coinvolge te, Kaede”
 
Kaede lo osservò in silenzio. Gli ingranaggi del suo cervello ancora non riuscivano ad elaborare le informazioni. Il suo corpo era teso. Le mani serrate.
 
“Quale favore, Dan-san?”
 
Se Kaede Rukawa non fosse stato Kaede Rukawa, avrebbe baciato sua madre per quell’intervento.
 
Quale favore?
 
“Anzai mi ha detto che tu e Sakuragi non siete esattamente grandi amici, che bisticciavate molto durante i primi tempi di liceo. Ma ti assicuro che sarebbe per poco tempo. Tre o quattro settimane al massimo...”
 
“Cos’ha chiesto il professor Anzai?” domandò Kaede con la sua durezza e freddezza tipiche. Dan fece una smorfia prima di guardarlo negli occhi in modo supplichevole.
 
“Una delle opportunità per Sakuragi è qui, nel North Carolina, quindi Anzai mi ha chiesto se potevo tenere il ragazzo per qualche settimana e fargli da cicerone...ma...non sei l’unico che rappresento, Kaede...non posso rimanere un mese in un posto...quindi, volevo chiederti se-”
 
“No”, ospitare quella scimmia rossa in casa sua, nella sua università, nella sua squadra di basket? Che un fulmine lo ammazzasse, prima. Quel cretino avrebbe portato solo guai. Per quanto era rumoroso, avrebbe solo attirato l’attenzione. Ah, santo cielo. Già se lo immaginava in palestra. A ridere in quel modo sgradevole, con quei commenti compiaciuti.
 
Sempre a vantarsi...
 
“Kaede. Non fare così. Era un tuo compagno di squadra...un tuo amico...” sua madre gli prese una mano guardandolo con lieve rimprovero.
Kaede avrebbe potuto argomentare e correggere la sua affermazione. Ma in realtà, dopo tre anni di liceo, l’unica persona che aveva portato a casa era stato Sakuragi, quindi era normale che sua madre pensasse che fossero qualcosa come amici intimi. Forse al terzo anno non erano più nemici, ma Kaede dubitava che Sakuragi lo avesse mai considerato un amico.
 
Kaede poteva ammettere – sotto tortura – che Sakuragi non era così odioso come aveva creduto una volta, ma ciò non significava che l’idiota lo irritasse di meno. Anzi, più si erano avvicinati, più quella scimmia si era presa delle libertà.
 
Come andare a casa mia.
 
Guardandosi le mani, chiuse gli occhi per qualche secondo.
 
Aah, che differenza fa..., molto probabilmente si sarebbe pentito della sua decisione non appena quello stolto avesse messo piede sul territorio americano, ma che male poteva fare quello stupido – a parte essere nato.
 
“Va bene; ma per un mese al massimo” decise guardando attentamente Dan, che sorrise.
 
“Ti assicuro che non ci vorrà più tempo”, alzandosi, l’uomo salutò la madre soddisfatta con un abbraccio affettuoso – niente di strano visto che l’uomo era così con tutti – e con una forte stretta di mano con Kaede. Dirigendosi all’uscita, Dan afferrò la maniglia della porta, non senza prima rivolgersi al ragazzo. “Arriverà qui tra due giorni” disse frettolosamente, aprendo la porta e uscendo subito, non volendo aspettare la risposta del re dei ghiacci.
 
Kaede, essendo Kaede, non poté urlare né sussultare di sorpresa, ma fissò la porta in uno stato di semi shock. Sua madre, invece, rise un po’ prima di andare al secondo piano.
 
“Penso che inizierò a preparare la stanza per gli ospiti”.
 
 
 
 
*nome della squadra di basket intercollegiale dell’università del North Carolina.
 
**Roy Williams esiste davvero.
 
***James Michael Ray McAdoo esiste davvero.
 
°forse non serve chiarirlo ma il riferimento è a Kenji Fujima, definito riserva da Sakuragi.
  
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