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Autore: Ombrone    17/01/2022    0 recensioni
Questa è diventata la mia storia più vista e più seguita. Grazie a tutti! Farò del mio meglio perché i prossimi capitoli siano all'altezza!
Una storia d’amore di 2000 anni fa.
Il giovane patrizio Marco Valerio Corvino torna a Roma nella sua casa dopo aver prestato servizio sul limes in una lontana provincia, troverà qualcosa che non si aspettava e per capire come affrontarla dovrà scoprire il lato nascosto di se stesso.
Il mio è un tentativo, mi direte voi quanto riuscito, di scrivere una storia d’amore, romantica, ma verosimile per la sua epoca, questo significa che al suo interno troverete situazioni, discorsi, atteggiamenti e comportamenti che potrebbero disturbare ed offendere, e che per gli standard del XXI sono inammissibili (o addirittura illegali). I personaggi stessi potrebbero sembrarvi antipatici o immorali o violenti: mi son sforzato di renderli realistici rispetto all’ambientazione e fargli seguire comportamenti considerati normali, morali o addirittura meritori per il primo secolo dopo cristo, un epoca molto lontana e molta diversa dalla nostra.
Commenti e anche critiche benvenuti e incoraggiati. Stimolano a scrivere e servono a migliorare!
Genere: Erotico, Romantico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Non-con, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Storico
Capitoli:
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Ricordo perfettamente il giorno in cui tornai Roma.
Era giugno, il quarto giorno dopo le idi di giugno, nel terzo anno di Claudio Cesare, l’anno del consolato di Decimo Valerio Asiatico e Marco Giunio Silano.
Era una splendida giornata di sole, non una nuvola oscurava l’azzurro del cielo.
Era ancora mattina quando entrai in città da Porta Fontinale, non avevo neppure bisogno di guidare Nembo, il mio cavallo. Sentiva anche lui l’odore di casa e prendeva la strada giusta senza bisogno di nessuna indicazione da parte mia.
Era una giornata perfetta, pure la città sembrava puzzare meno di quello che ricordavo. Finalmente ero a casa ed era stupendo, due anni e passa al confine del mondo non erano stati facili da affrontare, ma adesso erano finiti ed ero felice, anche più di quanto fossi stanco e impolverato.
Mia madre, avvisata dà qualche schiavo che aveva lasciato di vedetta, era lì nel vestibolo ad aspettarmi, quando le porte si aprirono, florida, sorridente e orgogliosa, vestita con l’eleganza a lei tipica.
“Figlio mio, amato. Orgoglio e speranza della nostra famiglia e del nostro nome” Così mi accolse. “Bentornato nella tua casa.” Mi abbraccio e mi baciò le guance.
Dietro di lei c’era mio zio Aulo. Lui era tutt’altro che elegante con le sue pretese di stoica modestia, ma anche lui sorrideva felice quando mi abbracciò.
“Marco, un uomo possente sei diventato!” Disse.
Non vi erano altri parenti. Mio padre e il mio fratello maggiore erano morti anni prima. Il resto della piccola folla che mi accolse erano servitori: Eryx il sopraintendente della casa, Cleone il mio vecchio tutore e segretario di famiglia, che si inchinò sorridente, Romolo il grosso robusto schiavo che era stato il primo a insegnarmi come usare una spada quando era ragazzo, non disse nulla, si limitò a inchinarsi, ma riconobbi l’orgoglio nei suoi occhi.
Tanti altri si erano radunati per salutarmi. Mi ricordo le due cameriere personali di mia madre, che mi conoscevano sin da bambino, la mia vecchia balia, l’unica che si permise di piangere quando la abbracciai. Nel retro, seminascosta tra gli altri schiavi riconobbi Sabra, la concubina siriana di Zio Aulo, che mi sorrideva e, non mancai di notarlo, portava ciondolo che le avevo regalato prima di partire.
Al termine dei saluti, uno schiavo mi prese il mantello, mentre altri presero in consegna Nembo e mia madre mi guidò dall’altro lato dell’atrio, all’altare dei Lari e dei Penati e qui gli offrii vino, pane e incenso, per ringraziarli di avermi riportato a casa sano e salvo e per chiedergli salute e fortuna per il mio futuro.
Sentii i piccoli Dei sorridermi e darmi il benvenuto. Finalmente, io, Marco Valerio Corvino, ero tornato a casa.
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Reso grazie agli Dei, il secondo passo necessario dopo un simile viaggio è quello di lavarsi e fu quello che feci. Dopo la prima strigliata venni raggiungo nella vasca da mio zio, pieno di curiosità dei miei viaggi.
“Allora come questa Britannia?” Mi chiese.
“Un posto strano e selvaggio, ma con un suo certo fascino devo dire. La gente però è veramente barbara e incivile, ti assicuro.”
“Pure le donne?” Come dicevo, zio ha la pretesa di essere uno stoico, e a volte, bisogna ammettere, riesce ad essere una convincente imitazione di Zenone di Cizio, ma non per quanto riguarda le donne, in quell’ambito nemmeno prova a fingere.
“Particolari,” dissi, mi interruppi sorseggiando un po’ di vino dalla coppa, divertito dalla sua espressione impaziente, prima che mi facesse fretta, ripresi, “esattamente come la loro terra e i loro uomini sono decisamente selvagge e ben poco raffinate. Possono essere interessanti comunque: pelle pallida, occhi chiari, capelli neri o a volte rossi. Intriganti.” Tornai a bere un altro sorso.
“Ha portato indietro un souvenir?”
Risi.
“No zio, mi dispiace, ma se sei curioso i mercati sono ancora pieni di schiavi britannici. Non è un problema procurarsene qualcuno.”
No, no caro nipote.” Mi replicò. “Sabra è più che sufficiente per soddisfare i desideri che mi possono rimanere alla mia età. Parlavo per te che sei giovane e nel pieno del vigore.”
Il messaggio era chiaro. Zio era stato generoso e paterno a darmi la disponibilità di Sabra quando da ragazzo avevo avuto bisogno di una guida gentile e discreta per educarmi e diventare un uomo, ma era stato subito chiaro che “prestare” occasionalmente non significava “condividere” e adesso voleva rimarcare il punto. Come condannarlo, zio era la persona più generosa e cordiale che io abbia mai conosciuto: le donne erano il suo unico, perdonabilissimo, vizio e raggiunta la sua età Sabra era l’unica di cui avesse ancora bisogno.
Feci un cenno per farmi riempire di nuovo la coppa da uno degli schiavi.
Annuii come a dare il segnale che avevo capito e zio cambiò discorso.
“Allora dimmi altro. Il mio vecchio amico Flavio Vespasiano ti ha trattato bene?”
“Certo zio!” Su questo non vi erano certo dubbi.” Mi ha trattato come se fossi un suo parente. Ti devo ringraziare per la tua lettera di presentazione. Mi ha preso con lui ed è stato un vero maestro. Mi ha insegnato tantissimo su come si guidano gli uomini in battaglia e di come va governata una provincia. Quando c’è stata l’occasione ha fatto in modo che fossi nel seguito dell’Imperatore, per darmi l’occasione di farmi notare.”
“Ottimo! Ottimo, quindi hai avuto modi di farti conoscere dall’Imperatore.”
“Si Zio, sono stato al suo seguito sia sul campo, che in situazioni più rilassate.”
“E dimmi… Com’è?” la sua voce si abbassò a un sussurro, malgrado fossimo solo noi due e in casa nostra. 
Lo imitai nel rispondergli. 
“Claudio Cesare, l’Imperatore, è un uomo molto particolare. Ha una mente sveglia e intelligente e la sua conversazione è colta e interessante, anche se è vero che balbetta a volte. Non è un guerriero, forse, ma conosce l’arte della guerra e sa come condurla e vincerla. Perfino un veterano glorioso come il tuo amico Vespasiano glielo riconosce sinceramente.”
“Bene, bene.” Ripeté. “L’importante è che l’imperatore ti abbia conosciuto e ti abbia notato.”
“Ho fatto del mio meglio zio, ma l’Imperatore è stato laggiù solo pochi mesi e sono anni che è tornato a Roma.”
“Oh, troveremo una maniera per rinfrescargli la memoria, sono sicuro che la tua buona madre si sta già muovendo da quando ha saputo del tuo ritorno. Nessuno è più capace di mia sorella in queste cose. Posso presumere che tu non sia al corrente delle ultime notizie della città?”
Si fece riempire di nuovo la coppa anche lui e passò la successiva ora ad aggiornarmi sugli ultimi avvenimenti della politica e della poesia. Il sale della vita.
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I miei primi giorni a casa, al contrario di quello che avevo sperato, furono tutt’altro che riposanti o rilassanti, ma la mia era stata solo un infantile illusione in effetti.
Il mio ritorno a Roma provocò un immediato afflusso di visitatori e clienti che volevano salutarmi e rendermi omaggio. Durante la mia assenza, questi compiti erano stati svolti da mia madre con l’aiuto di Zio Aulo, ma adesso con il mio ritorno le cose dovevano essere fatte nella maniera adeguata, ero il Pater Familias l’erede dei Corvino e il compito era mio.   
Si iniziava la mattina presto con Eryx e Cleone che accoglievano i visitatori e li ordinavano per rango e precedenza perché potessi riceverli.
Il mio posto era quello che aveva occupato mio padre prima di me, e suo padre e tutti i miei antenati in precedenza, nell’atrio seduto vicino all’altare domestico. Lì accoglievo questa continuo flusso di visitatori, tutti vestiti con le loro migliore toghe, ascoltando i loro saluti e i loro auguri e, fin troppo spesso, le loro richieste. A tutti veniva offerto qualcosa, fosse da mangiare, da bere o un regalo per testimoniare la nostra amicizia, non era accettabile qualcuno se ne andasse a mani vuote.
E se questo non bastasse c’erano cene, visite ad altre famiglie amiche o meno amiche e qualche piacevole incontro con i miei vecchi compagni.
Fu così con grande gioia che alla fine riuscii a ritagliarmi un pomeriggio per me, per godere di un po’ di tranquillità e pace e mi chiusi nel mio piccolo studio per leggere e scrivere.
Il piccolo studio è la mia stanza favorita da quando ero un ragazzino: è al piano superiore e si affaccia sul peristilio e pur essendo piccola è confortevole e piena di luce per la maggior parte del giorno. L’arredamento è semplice e pratico: un tavolino, delle sedie confortevoli, uno scaffale per i rotoli in lettura, un lettino dove ogni tanto spendevo la notte quando mi addormentavo leggendo.
Passai delle ore gradevoli scrivendo lettere ai miei compagni rimasti in Britannia, e soprattutto a Flavio Vespasiano che mi aveva così favorito, per informarlo che ero arrivato sano e salvo a Roma, che il mio viaggio era stato veloce e confortevole e ringraziarlo, ancora una volta, per la sua gentilezza e amicizia.
Stanco di scrivere, presi dallo scaffale un rotolo di Catullo, che giaceva lì da prima della mia partenza, almeno, e scorsi pigramente i suoi versi godendo della loro musica. In quella maniera arrivai alla fine del pomeriggio e quando il sole iniziò a scendere e le ombre ad allungarsi sentii uno schiavo entrare nella stanza.
“Scusate padrone, sono venuta a riempire le lampade” Disse una voce giovane e femminile.
Feci un gesto di consenso senza neppure sollevare la testa dalla mia lettura, ma mi interruppi quando accese la prima lampada ad olio e la luce tremolò sulla pagina.
Era una giovane schiava che mi dava le spalle sistemando le lampade, non la riconobbi dopo tanta assenza, ma non potei fare a meno di notare la sua piacevole figura.
Aveva dei lunghi capelli neri, lievemente mossi, raccolti in una coda di cavallo. Il che la indentificava come una fanciulla non sposata, o, essendo una schiava, almeno senza un compagno ufficioso. Era di media statura, dal fisico delicato, ma la semplice tunica non poteva nascondere, la vita stretta, i bei fianchi e le gambe slanciate. Lo scialle che indossava sopra la tunica era scivolato mostrando una spalla morbida e ben modellato ed esaltando il collo lungo e snello. Non aveva certo la pelle chiara e perfetta di una nobildonna, ma sembrava comunque soffice e liscia senza difetti. Da quella posizione vedevo solo il profilo del suo viso, una guancia delicata e delle ciglia apparentemente lunghissime.
Non so se quel pomeriggio avessi letto troppi versi di Catullo dedicati alla bellezza di Lesbia, o forse era semplicemente venuto il momento che chiedessi a Zio Aulo di prestarmi per una notte Sabra, o trovassi un altro sfogo, ma rimasi incantato dal suo profilo e dai suoi movimenti precisi e delicati.
Si voltò finito il suo lavoro e accorgendosi che la stavo fissando, in una maniera, mi rendo conto, quasi sgarbata, si bloccò evitando di incrociare i miei occhi, sistemò lo scialle coprendosi pudicamente la spalla e abbassò lo sguardo con un gesto così schivo e modesto che avrebbe riscosso l’approvazione anche di Catone di Giovane.
La osservai meglio, le sue ciglia erano veramente folte e lunghe e incorniciavano dei grandi occhi luminosi di un bel color nocciola, le labbra erano ben modellate e pure il naso era di piacevole conformazione. Il viso era di una forma regolare ed elegante, piacevole da contemplare. Mi era stranamente familiare, percui probabilmente non era un nuovo acquisto successivo alla mia partenza, ma non riuscivo a collocarla.
Impiegai un lungo secondo, di impacciato silenzio, prima di riuscire, finalmente, a riconoscerla.
“Filinna!” Esclamai meravigliato, per un attimo fui tentato di aggiungere la banale affermazione di quanto fosse cresciuta (e in nome di Venere Citera era cresciuta assai bene), ma cosciente di quanto avevo odiato essere oggetto di affermazioni simili mi trattenni.
Lei finalmente sorrise, un sorriso ampio e luminoso da illuminare l’intero viso e la stanza, più delle lampade che aveva accesso.
“Padrone, sono contenta che voi siate tornato finalmente a casa sano e salvo.”
Filinna era la figlia di Cleone. Era alcuni anni più giovane di me e quando ero ragazzo faceva abitualmente parte del gruppo di bambini con cui giocavo. Mi ricordo che per un periodo (avrò avuto 11 o 12 anni) si era molto affezionata a me e aveva iniziato a seguirmi dà per tutto con la fedeltà e l’insistenza di un cagnolino, fino a che suo padre non l’aveva rimproverata temendo mi infastidisse. Io a quel tempo mi consideravo il giovane padrone e l’indiscusso capo di tutti i monelli della casa (schiavi o liberi che fossero) e l’avevo apertamente difesa come nella mia mente doveva fare un buon capo. Mi ero meritato la sua totale ammirazione, le prese in giro di mio fratello Gaio e un rimprovero di mia madre.
Quando era partito era ancora una ragazzina ossuta, con un viso forse grazioso ma ancora infantile, per cui non c’era da meravigliarsi se non l’avevo riconosciuta ora che era diventata una giovane donna assai ben fatta.
Per pura cortesia aggiunsi:
“Spero che anche tu stia bene, non ti avevo visto al mio arrivo.”
“Ero in cucina ad aiutare per la vostra cena di benvenuto, padrone e non potei venire ad accogliervi.” Annuii, poi all’improvviso sembrò ricordarsi di dove si trovava e del giusto ordine delle cose e quasi sussultò: “Scusatemi, padrone, non volevo farvi perdere tempo, torno al mio lavoro.”
“Non te ne preoccupare, stavo solo ingannando il tempo scorrendo dei versi di Catullo.”  
Stava per uscire, ma a queste parole ebbe un attimo di esitazione e lessi l’interesse nei suoi occhi. Mi ricordavo bene di lei.
“Lo hai mai letto Catullo?” Le chiesi
Il padre di Filinna era stato il mio tutore ed era tutt’ora il nostro segretario. Era uno schiavo greco, originario di Chio, un uomo di grande cultura e di idee alquanto particolari, che aveva preso l’insolita decisione di insegnare la sua arte e le sue conoscenze non solo a suo figlio, per farne il suo successore, ma anche a sua figlia.
Filinna era l’unica schiava che conoscessi ad essere letterata sia in greco che latino e il padre le aveva dato una vasta conoscenza degli autori e dei testi. A quanto pare malgrado aiutasse in cucina e avesse il compito di riempire le lampade ad olio, non aveva perso questa passione.
“No, Padrone.” Rispose, con un filo di rincrescimento. “Mio padre non me lo ha fatto leggere.”
Mi venne da sorridere al tono di rammarico della sua riposta.
“Beh, immagino che il buon Cleone non lo abbia trovato appropriato come lettura per una fanciulla.”
“Ma lo è per davvero, Padrone?” Gli occhi erano sempre bassi e l’atteggiamento controllato, ma nella voce si era insinuata più che la curiosità.
“Difficile per me giudicare e non vorrei farlo, ma di certo i suoi versi sono notevoli.”
Impossibile non scorgere l’interesse e il desiderio nei suoi occhi e io fui troppo stupido e vano per trattenermi.
“Ci sono due rotoli con i suoi lavori nello scaffale, quando hai del tempo libero, se vuoi puoi leggerli.” 
Mi fisso per un istante, uno solo prima di riabbassare lo sguardo, uno sguardo a cavallo tra la meraviglia e il timore. “Non la vostra libreria… non posso toccare i vostri rotoli.”
“Beh. se io dico che ora puoi, immagino che significhi che ora puoi, non è forse questo il senso delle parole? Poi se sei veramente figlia di tuo padre e mi ricordo bene di quanto eri coscienziosa, i miei volumi sono più al sicuro nelle tue mani che nelle mie.” 
Non sollevò altre obiezioni, rimase alcuni istanti in silenzio prima di rendersi nuovamente conto di cosa stesse facendo.
“Devo continuare il mio giro, Padrone. Vi ringrazio per la vostra gentilezza, ma dove andare.
Annui, concedendoglielo: “Fai pure il tuo dovere, ma ricorda che la mia offerta rimane.” 
Con un lieve inchino del capo si accomiatò e si girò per lasciare la stanza, ma proprio in quell’istante, una coincidenza da pessima messa in scena di una pessima commedia, sulla porta si presentò mio zio, che si scostò lievemente per permetterle di circumnavigare la sua ormai vasta rotondità e uscire
“Caro nipote, ti ho portato un regalo.” Disse mostrandomi un piccolo rotolo. Annuii sorridendo, ancora distratto dalla precedente visita e lui lo notò immediatamente. “Graziosa creatura, vero?”
“Filinna?” Feci recuperando il contegno. “Indubbiamente, molto cambiata rispetto a quando partii.”
“Verissimo” Ridacchio mio zio. “Incredibile come da un uomo sgraziato come Cleone possa fiorire una simile figliola. Pure la madre non è molto meglio del padre, poi.” Mi fece l’occhiolino. “Un mistero.” 
“Povero Cleone, non lo canzonare, ma si di certo, concordo: un mistero, o forse un miracolo, chi può dirlo?
“Lo sai che quella ragazza sa leggere e scrivere?”
“Zio, conosco anch’io Cleone e la sua famiglia certo che lo so, stavamo giusto parlando delle poesie di Catullo.”
“Catullo? Ah, ragazzo mio! Tu, corruttore di giovani vergini!” Mi prese in giro. “Beh, alla tua età ci mancherebbe non provassi a corromperle… ma, ragazzo mio, dai retta a me, concentrati su aspetti più. fisici… è alquanto più soddisfacente.”
“Zio, sei terribile, veramente terribile! Cosa è quel rotolo?” Non mi sembrava conosciuto.
“Giunio Liciniano” disse, quasi a malavoglia.
“Chi?” Nome assolutamente ignoto.
“Poesie, l’ultima moda in città di questi giorni!”
“Ah! Grazie!” Feci, prendendo il rotolo. “Belle?”
“Assolutamente no! Se gli Dei sono pietosi sarà dimenticato presto. Ma comunque devi leggerle se non vuoi fare scena muta a tutte le cene che tua madre sta organizzando.”
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Nei giorni seguenti, preso dai gli impegni e soprattutto da una delle grandi cene organizzata da mia madre a cui partecipò metà Senato e una buona parte della famiglia imperiale, non ebbi certo modo o interesse di ripensare all’incontro con Filinna, ma una sera avevo cercato un attimo riparo e solitudine nello studio e mi accorsi che il rotolo di Catullo era stato spostato.
Allora aveva accettato il mio invito veramente! Che cosa buffa una schiava che leggeva Catullo.
Senza nemmeno riflettere le lasciai un biglietto tra i due rotoli.
“il mio favorito è il Carme CIX”
«Iucundum, mea vita, mihi proponis amorem
hunc nostrum inter nos perpetuumque fore.
Di magni, facite ut vere promittere possit,
atque id sincere dicat et ex animo,
ut liceat nobis tota perducere vita
aeternum hoc sanctae foedus amicitiae.»


«Eterno, anima mia, senza ombre
mi prometti questo nostro amore.
Mio dio, fa' che prometta il vero
e lo dica sinceramente, col cuore.
Potesse durare tutta la vita
questo eterno giuramento d'amore.»

“A te quale è piaciuto?”

Per alcuni giorni niente si mosse sullo scaffale, il biglietto rimase non letto.
Poi una sera trovai che una frase era stata aggiunta alla fine, con una scrittura minuta e precisa, elegante, esattamente come l’avrebbe apprezzata Cleone:
“Il mio favorito è il Carme LXXXV”

«Odi et amo. Quare id faciam, fortasse requiris.
Nescio, sed fieri sentio et excrucior.»

«Odio ed amo. Perché lo faccia, mi chiedi forse.
Non lo so, ma sento che succede e mi struggo»

Cosa mai mi potevo aspettare da una ragazza?
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Alcune sere dopo, mia madre convinse Zio Aulo a concedermi per una notte la sua preziosa Sabra. Non trovava sano che un giovane come me accumulasse energie sessuali troppo a lungo, persino uno stoico come zio non poteva che essere d’accordo e non voleva che andassi a cercare conforto in uno degli innumerevoli bordelli della città. Anche i migliori e più elegantemente frequentati erano posti che trovava disprezzabili e poco sicuri.
Sabra aveva due o tre anni più di me ed era stata appositamente acquistata da mia madre come regalo per zio. Mi ricordo ancora il suo arrivo in casa: parlava, allora, pochissime parole di latino, in pratica sapeva solo ripetere a memoria un rozzo adagio insegnatole dal suo venditore: “Io sono la gioia per gli uomini”.
Io ero ancora un ragazzo che era appena entrato in quell’età dove si inizia misteriosamente a sentire una incomprensibile nuovo tipo di attrazione verso le donne e quella semplice frase pronunciata con un accento straniero ed esotico, aveva turbato per parecchio tempo i miei sogni.
Sabra occupava un ruolo molto particolare nella nostra casa. Era totalmente incapace nella maggior parte dei lavori: non sapeva praticamente filare o tessere, a malapena era in grado di cucire o fare qualcosa di utile in cucina, nel lavare i panni o fare i servizi della casa era lenta e decisamente svogliata. Le sue doti consistevano sostanzialmente di saper servire a tavola con eleganza, di avere una bella voce e di saper suonare la lira e la pandura. Era una esperta massaggiatrice e dopo un bagno da sotto le sue mani si usciva rinati. Inoltre, conosceva centinaia di erbe, impiastri e pozioni utili per curare acciacchi e malattie.
La sua arte vera però consisteva nel sapersi prendere stupendamente cura di sé stessa e degli uomini che gli venivano affidati.
Mi sorrise entrando nella mia camera quella sera, i suoi grandi occhi neri brillavano di allegria e il suo saluto mischiato ad una risata scosse la sua ricca criniera di riccioli scuri, era, stata la prima donna che avevo avuto, e, in qualche modo, questo suo primato, la rendeva particolarmente affezionata a me.
Fece un solo passo verso di me, poi fece scivolare le spalline della sua tunica, che scese fino a rimanere un attimo trattenuta dai suoi seni e lei con un movimento esperto, uno scuotimento sensuale dei fianchi, la finì di far cadere a terra senza usare le mani rimanendo splendidamente nuda.
La pelle di Sabra è leggermente più scura della mia, i fianchi larghi e i seni splendidi e pieni con dei capezzoli scuri. Zio si era lamentato che ultimamente mangiava troppo e iniziava ad ingrassare, ma onestamente quello che vedevo mi sembrava stupendo e allettante. Non era solo il corpo, ma i movimenti, i modi e anche gli sguardi a renderla eccezionale: poche donne, che ho conosciuto, sono in grado di essere sensuali come Sabra, e lei lo sapeva bene ed era orgogliosa delle sue doti.
Con un passo usci dalla tunica che si era afflosciata ai suoi piedi, un movimento sciolto e sinuoso, che doveva essere simile a quello con cui Venere appena nata era uscita dalla spuma del mare, fece un altro passo verso di me e mi sorrise quando i nostri occhi si incrociarono. Basto questo a far reagire il mio corpo, ero giovane, molto giovane e lei, vedendolo, rise di nuovo, risata profonda, provocante e felice.
“Oh Padron Marco, anch’io sono molto contenta di vedervi, sapete? Lasciate che ve lo mostri!”
Col senno del poi non ci potevano essere dubbi che eravamo entrambi piuttosto contenti di essere di nuovo insieme e dato che peccai di mancanza di autocontrollo credo che molti, o quanto meno quelli più vicino alla mia stanza, se ne accorsero. Quando alla fine prendemmo una pausa, eravamo sudati ed ansimanti e mi alzai per prendere un po’ di vino per me e per lei, prima di ridistendermi. Sabra mi abbraccio e chiuse gli occhi soddisfatta e sonnolenta. 
Rimanemmo così pisolando leggermente, quando il fresco della notte sveglio entrambi e presi una delle coperte che era scivolata sul pavimento per coprirci. Di nuovo sveglia Sabra riprese ad accarezzarmi e le sue intenzioni sembravano chiare, fino a che la sua mano incontrò la nuova cicatrice che avevo sul fianco e si fermò lì. 
“Cosa avete fatto, Padrone, cosa vi è successo?” Chiese e dopo tanti anni a Roma la sua voce aveva ancora una cadenza speziata di terre lontane ed esotiche.
Possedere una donna rende felice ogni uomo, ma poterle raccontare, e vantarsi, delle sue avventure, dei suoi atti di coraggio e delle sue battaglie a volte è un piacere altrettanto grande. 
Sabra, penso, lo sapesse perfettamente, nella sua esperienza, e quando colsi il suo amo e nella mia presunzione giovanile le decantai di come ero stato ferito, della battaglia (poco più di uno scontro di pattuglie in realtà) in cui era accaduto e di come avessi ucciso innumerevoli barbari britanni, si fermò ad ascoltarmi, apparentemente rapita ed affascinata. Mi crogiolai del suo interesse e del suo atteggiamento, pur cosciente di quanto gli schiavi siano abili a lusingare il padrone in qualsiasi occasione.
Quando finalmente tacqui, mi guadagnai un bacio e poi si rimise comoda 
“Voi però mi state tenendo un segreto, Padrone.”
“Segreti? E quali segreti dovrei mai tenere con te, mia cara Sabra?” Risposi, prima di capire che stava scherzando.
“Ma io lo sento che avete un segreto dentro di voi, Padrone, lo sento.”
Risi, stando al gioco, curioso di sapere dove voleva arrivare. “O Sabra, so che sei brava con le pozioni e le misture ma non sapevo di aver dentro la mia casa anche una vegente!”
Si mosse cercando una posizione più confortevole per la testa nell’incavo della mia spalla.
“Ma Padrone, noi donne siriane siamo tutte un po’ streghe, non lo sanno forse tutti?” Il suo tono si fece improvvisamente serio. “Io sono stata la vostra prima donna e la Grande Madre Astarte mi ha concesso il potere di vedere i vostri desideri!”
“Ah!” ribattei con tono meravigliato. “E quindi tu riesci a vedere i segreti più nascosti del mio cuore?”
“O no, non del vostro cuore.” Rispose sempre serissima. “Ma dei desideri che avete un po’ più in basso.”
La mano scattò in giù afferrandomi i genitali e facendomi sobbalzare per la sorpresa. Entrambi scoppiamo a ridere e ci fu una giocosa lotta, fino a che, senza troppo sforzo, riuscii a bloccarla sotto di me immobilizzandole le braccia.
“E allora, rispondi al tuo Padrone, ragazza e racconta quello che vedi, te lo ordino.” Le dissi, facendo il minaccioso.
“Voi desiderata, una giovane fanciulla, Padrone!”
Inarcai le sopracciglia con aria delusa: “Ma questo non è certo una cosa sorprendente, o un gran segreto, alla mi età, Sabra!” 
“Ma io vedo, le grandi fiamme di un fuoco caldissimo.” Mi replicò, senza riuscire a trattenere una risata. “È una fiamma rovente quella che vi arde nel vostro giovane petto, padrone, e la fanciulla rischia di bruciare ed essere ridotta in cenere, soffrirà e la farete soffrire.”  
Le lascia liberi polsi, ridendo. No, Astarte non le aveva certo dato il dono di leggere i miei desideri, piuttosto le aveva concesso quello assai più tremendo della profezia e di non essere creduta. E io non la capii, forse nemmeno la ascoltai.
“Ah, che lingua mielata che hai Sabra, anche se a volte la usi fin troppo!”
“Lo dice che anche Padron Aulo.” Abbassò il tono della voce ad imitare mio zio: “Ragazza mia tu parli troppo. Che vantaggio ho a questo punto a tenerti? Se devo stare a sentire tutte queste chiacchere, vale la pena che mi prenda una moglie!”
Non potei trattenermi dallo scoppiare di nuovo a ridere, era davvero una perfetta imitazione. Poi atteggiai il viso a una finta severità: “Non dovresti prendere in giro il tuo padrone in questa maniera! Ragazza!”
Ancora bloccata sotto di me Sabra stette al gioco simulando tragico spavento: “O no! Giovane padrone! Non glielo dite vi prego! Non mi fare punire, sono stata cattiva lo so, ma voi mantenete il silenzio!” Sorrise maliziosa. “Mantenete il silenzio e io vi farò vedere come mi faccio perdonare da vostro zio quando parlo troppo!”
“Ah Sai come farti perdonare da Zio Aulo? E come mai lo convinci?”
Sabra mi guardò, a malapena trattenendo le risate, dopo una pausa adeguatamente drammatica rispose:
“Uso la lingua in altra maniera, Giovane Padrone.” Sbattè le ciglia in maniera esagerata. “Volete ve lo faccia vedere?”
La lasciai andare, direi che sembrava in grado di guadagnarsi la mia complicità.
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Nei giorni successivi mi adeguai alla routine della città: il ricevimento dei clienti la mattina, gli incontri al foro o alle terme nel pomeriggio, ricontrollare i conti e i documenti preparati dai nostri amministratori la sera, cene e feste, una vita priva di soprese, ma di certo assai occupata.
In tutto questo mi capitò poco di pensare alla figlia di Cleone, ma poco non significa nulla. Scambiai con lei un altro paio di biglietti nello scaffale dei rotoli, biglietti il cui contenuto dimostrava, devo dire, la sua intelligenza e cultura, e la incrociai più di una volta mentre lavorava per casa. In queste occasioni le facevo un cordiale cenno di saluto con la testa e lei si limitava a rispondere con filo di voce. evitando il mio sguardo e solitamente facendo il suo meglio per lasciare la mia presenza appena possibile senza essere offensiva. Non mi evitava, ma sembrava decisamente imbarazzata dalla mia presenza o forse era timorosa che potessi rivelare il piccolo segreto che avevamo in comune.
Un pomeriggio invece la trovai nello studio piccolo. Non stava lavorando, era seduta sul bordo del lettino leggendo. Era così concentrata dalla lettura che non si accorse della mia presenza e io rimasi un attimo ad osservarla non visto: il viso acceso dai versi che stava scorrendo, le labbra si muovevano leggermente, ma non ne usciva suono, ero affascinato dalla sua lettura silenziosa.
Per alcuni secondi rimanemmo così, poi si accorse della mia presenza e l’incantesimo si ruppe, balzò in piedi dalla sorpresa e il rotolo le sfuggì di mano finendo sul pavimento.
Un rotolo sul pavimento era troppo per la figlia di Cleone che corse a prenderlo con aria terrificata
“Scusatemi Padrone non volevo!” Mi pregò mentre controllava freneticamente che il rotolo non si fosse rovinato.
“Non ti preoccupare, ragazza mia. La colpa è mia che ti ho spaventato.” Le risposi. Lei me lo passò come se fosse un carbone ardente che le stesse bruciando le mani delicate. Era in condizioni perfette. “Vedi.” Le dissi. “Non gli è successo nulla.” Poi lessi l’etichetta. “Saffo.”
Questo semplice nome la rigettò nel panico.
“Avevi finito i due rotoli di Catullo, Padrone e ho osato…” disse in fretta
“Calma, stai calma, ti avevo detto che potevi prenderli dalla mia libreria.”
Era pallida, gli occhi sbarrati e il respiro corto, da temere che mi svenisse lì sul posto.
“Calmati, ti dico, siediti un attimo e calmati. Se no mi svieni.”
Seguì il mio consiglio e si risedette giusto sul bordo del letto. Poggiai il rotolo della discordia sulla scrivania e riempii una coppa dall’anfora dell’acqua fresca, che probabilmente aveva portato proprio lei, e gliela passai. “Bevi, starai meglio.”
Lei ubbidì, ringraziando, ma appena finito si accorse dell’ovvio: lei era seduta e io ero in piedi e peggio l’avevo servita. Si rialzò di colpo (e per un attimo temetti si risentisse male), abbassò gli occhi e si risistemò lo scialle assumendo un atteggiamento più appropriato. Se non altro le era tornato un po’ di colore sulle guance. 
Decisi di provare a calmarla.
“Saffo è sempre una lettura appropriata. Gli Dei le donarono un’arte a cui pochi possono aspirare.”
“Vero Padrone, sono d’accordo con voi.”
“Ἔρος δ' ἐτὶναξέ μοι” recitai “Amore ha sconvolto la mia mente”
E lei continuò senza esitazioni: “φρέναϛ, ὠϛ ἄνεμοϛ κὰτ ὄρος δρύσιν ἐμπέτων. Come un vento che, dalla montagna, si abbatte sulle querce”
Finalmente mi concesse un piccolo sorriso, a cui risposi.
“Stupenda.” Dissi. “Ti senti meglio adesso?”
“Sì, Padrone, grazie.”
“I versi di Saffo sono dei gioielli. Ce ne sono tanti nelle poesie scritte da voi Greci.”
“Vero Padrone. Sono così ancora così vivi dopo tanti secoli. In latino non c’è nulla di paragonabile.
Così disse la schiava greca al suo padrone romano. Impiegò un attimo a rendersene conto. La voce le morì in gola e arrossì violentemente.
“Scusatemi Padrone! Oggi non è il mio giorno fortunato…”
Come non sorridere di fronte a tanto smarrimento?
“Beh, ragazza mia, direi che Orazio concordava con te, no? Graecia capta ferum victorem cepit. La Grecia conquistata, conquisto il selvaggio vincitore. La tua opinione ha potenti alleati!”
Annui, sollevata che non mi fossi offeso.
“Nello scaffale comunque volendo troverai altri grandi poeti greci.” Le indicai Archiloco e Menippo, per passare ad Anacreonte che, le confessai, era il mio preferito. Lei si avvicinò curiosa e commento a sua volta. Continuai con Alceo e lei aggiunse la sua di opinione alla mia, assennata ed espressa con spirito,
Continuammo così, scambiandoci allegramente opinioni sorprendentemente armoniose, sorridendo l’uno all’altra, ogni tanto citava suo padre quando la pensava diversamente da noi, e la sua conversazione era piacevole intelligente e spontanea, un piacere raro.
Non so dire quanto continuammo, ma a un certo momento, stava citando un commento di Stesicoro che aveva trovato in un altro testo, quando mi accorsi di non stare ascoltando: mi si era avvicinata parlando e sentivo il suo profumo, non una fragranza forte e travolgente come quelle usate da Sabra, ma un odore lieve di pulito e di freschezza. Una ciocca di capelli si era liberata dalla coda e adesso ondeggiava libera, mentre parlava animata, sfiorandole le ciglia e lo zigomo, incantandomi con il suo movimento, come l’esca muovendosi nella corrente incanta il pesce curioso.
Con la mano sinistra, con un movimento morbido, la scostai e la nocca del mio dito medio sfiorò il suo zigomo, la tempia liscia e il padiglione del suo orecchio delicato.
Sorpresa, smise di parlare, e si girò a guardarmi meravigliata, la bocca ancora aperta sull’ultima parola pronunciata. Vide cosa mi bruciava nello sguardo e saggiamente decise che era venuto il tempo ritirarsi.
“Scusatemi, Padrone, ma devo andare a lavorare, si sta facendo tardi!” 
Mi sfiorò, passando tra me e la scrivania e suoi capelli accarezzarono il mio viso. Chiusi un attimo gli occhi a questa sensazione, quando li riaprii era già sulla porta.
“Fermati un attimo, Filinna, per favore.”
Si blocco, immobile, senza girarsi.
“Vieni qui, per favore.”
Lentamente, in silenzio, si girò e si avvicinò, gli occhi di nuovo basse, le mani aggrappate l’una all’altra di fronte a lei. 
“Per favore siediti.” Le feci, indicando il letto, lei ubbidì, sempre senza una parola.
Dall’anfora sulla scrivania mi versai una mezza coppa di vino e presi tempo sorseggiandola, insicuro di cosa fare e insicuro persino di cosa volessi. Non ero eccitato o desideroso come avrei potuto essere alla vista di Sabra, ma nel contempo non volevo che se ne andasse.
“Vuoi del vino?” Le offrii, stupidamente.
“No, Padrone, grazie.” Cos’altro mi aspettavo potesse rispondermi? Almeno però aveva aperto bocca.
Poggiai la mia coppa svuotata sulla scrivania, la fissai di nuovo, li immobile che evitava di guardarmi, feci un respiro profondo e mi avvicinai al letto.
La feci alzare, mi sedetti io e poi la guidai a risedersi sulle mie gambe. Ubbidì ad ogni movimento, inespressiva e rigida come se fosse una bambola animata.
Non volevo questo. La ragazza sorridente e vivace con cui stavo scambiando opinioni solo pochi minuti prima era scomparsa. Adesso indossava la tipica maschera di cera priva di qualunque espressione che gli schiavi usano di fronte ai loro padroni tutte le volte che devono nascondere i loro sentimenti.
“Non è la prima volta che mi siedi sulle gambe, Filinna.” Provai a scherzare.
Rispose con voce piatta, gli occhi fissi sulla punta delle sue ginocchia, serrate.
“Eravamo bambini, padrone.”
“Ti ricordi allora? Io facevo il cavallo, e ti facevo saltare sulle gambe come se galoppassi, e tu volevi che corressi più veloce!”
“Sì, me lo ricordo padrone.”
“E mi chiamavi Marco.”
“Eravamo bambini, padrone.” Ripeté di nuovo.
“Sei diventata molto bella, Filinna, lo sai?” Le accarezzai la guancia destra, apprezzando la pelle liscia e morbida, la mano sinistra appoggiata al suo fianco. Lei piegò leggermente la testa, come per evitare la mia mano.
“Devo andare a lavorare, padrone.”
Un po’ spazientito borbottai.
“Sono davvero così brutto e spiacevole, ragazza mia?”
Tra le tante frasi stupide che potrei aver detto, questa di certo era tra le più insulse, ma stranamente fu proprio questa stimolare una reazione. Per un attimo calò la maschera e nel suo volto tornò la vita.
“Oh no, padrone, non è questo, non siete brutto! Anzi per carità.” La voce suonava sincera, come se sentisse il bisogno autentico di rassicurarmi. Fu un attimo, riabbassò gli occhi, sotto quelle ciglia così lunghe e si zittì di nuovo.
“Allora, cos’è? Sei forse impegnata con qualcuno, hai già un innamorato?” Se dice di sì, mi ripromisi, la lascio andare subito, non sarebbe giusto verso di lei. Scosse la testa e non potevo negare di sentirmi sollevato alla risposta
“Quindi non hai mai baciato nessuno, ragazza?”
Venni stupito da un chiaro momento di esitazione.
“Una volta, padrone.” Sussurrò.
Oh! La mia bella Filinna, piena di inaspettate sorprese.
“E chi era questo uomo fortunato?”
“Era il garzone del venditore di papiro, padrone.”
Annuii, “E ti piace ancora?”
La sentii agitarsi sulle mie gambe, morbida e leggera, ma caldissima.
“Non è più a Roma, il suo padrone ha avuto un eredità in Illiria è andato a vivere lì e lo ha portato con sé.”
Quando la fortuna lusinga, lo fa per tradire.” Citai.
“La sorte non può togliere molto a chi poco essa ha dato.” Mi rispose senza esitazioni e molto più appropriatamente citando sempre Publilio Siro e ritrovando per un attimo lo spirito che mi piaceva, sorrisi incantato.
“Allora, per favore, bacia anche me, Filinna.”
Ubbidì: il suo viso si avvicinò al mio senza esitazioni, ma si limitò a sfiorarmi le labbra con le sue prima di ritirarsi.
“Filinna!” Protestai. “Questo non è un bacio! E lo sai.”
Le presi delicatamente il mento con la punta delle dita e la ricondussi alle mie labbra. Questa volta le sue labbra si aprirono e la baciai, accarezzandole la schiena.
La mia mano destra lasciò il suo viso e le si posò su una gamba. Con un sobbalzo si stacco da me e le sue mani volarono entrambe ad afferrarmi il polso per fermarmi, per poi lasciarlo all’improvviso appena si rese conto di cosa stava facendo.
A quel punto dopo quel solo bacio, sentivo il mio sangue pulsare nelle vene con più forza e il desiderio crescere dentro di me, ma era inutile illudersi sulla sua disponibilità. Il suo respiro era affannoso e potevo sentire il battito frenetico del suo di cuore, ma non era per il piacere o per il desiderio, sembrava piuttosto per il panico e la paura. Non era Sabra e non era una prostituta e non sembrava pronta ad accettarmi con piacere, o quanto meno rassegnazione.
Certo avrei potuto ordinarglielo o impormi, era mio diritto, anche con la forza.  
Ma non ero in qualche remoto accampamento di frontiera, ero nella mia casa a Roma e lei non era una prigioniera barbara dalla lingua incomprensibile, era una “verna” una schiava nata e cresciuta in questa stessa casa, era la figlia di Cleone. No, non l’avrei presa in questo modo tra pianti e lacrime. Non era dignitoso e soprattutto non era quello che desideravo.
Sentendo la mia incertezza, ripeté ancora.
“Per favore, padrone.”
Con uno sforzo sensibile e con molto autocontrollo, alzai le mani, lasciandola libera.
“Puoi andare.”
Balzò in piedi e in un lampo fu fuori dalla stanza. Raramente si è vista una cerva colta di sorpresa scattare più velocemente.
Continuavo a sentire il suo profumo e il mio desiderio.
Mi alzai per versarmi un'altra coppa di vino.
Era la giusta occasione per applicare qualcuna della qualità stoiche che Zio Aulo lodava sempre.
Che gran fortuna.
   
 
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