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Autore: holls    20/01/2022    7 recensioni
Alan ha solo venticinque anni quando la vita decide di giocargli un brutto tiro; il dolore e lo sconforto appiattiscono la sua esistenza, rendendola grigia e monotona, tanto da domandarsi se sia degna di essere vissuta.
Diviso tra casa e lavoro, osserva le sue giornate scorrere come un encefalogramma piatto, finché, una mattina, una rapina nel cuore di Manhattan lo costringerà a interrogare Nathan, uno dei testimoni.
Alan non tarderà a definirlo un ragazzino irritante per la sua vitalità e spregiudicatezza verso il mondo, per non parlare della malizia che sembra trasudare da ogni occhiata. Sembrerebbe l'occasione per riportare un po' di colore nella sua vita... ma, come in ogni storia che si rispetti, niente è come sembra.
Per nessuno dei due.
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Genere: Introspettivo, Mistero, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Nathalan'
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19. Tela di ragno

 

 

 

Lo guardai ancora una volta.

Era spiegazzato, unto ed emanava un tanfo rancido. Era stato abbandonato per terra da qualcuno che forse gli aveva dato un’occhiata, lo aveva trovato divertente, poi lo aveva appallottolato e gettato a terra. Dopodiché era stato calpestato, io ero stato calpestato, nell’indifferenza generale, quando ormai quel volantino aveva generato risatine e chiacchiere.

Ecco, quelle, soprattutto. Chiacchiere che si erano rincorse alla velocità della luce e che non avevano impedito alle persone di farsi un’idea sbagliata di me. E quell’idea se l’era fatta pure il professore, che da dietro quegli occhiali mi aveva detto che “Signor Hayworth, sa, non vorrei essere sgradevole… “ - e sì che lo era stato - “ma credo che potrebbe aver problemi con la sua borsa di studio”.

Fanculo a tutti. Fanculo allo stronzo che aveva stampato quel volantino, che era un fotomontaggio e si vedeva da lontano un chilometro, ma a chi interessava? Nathan Hayworth che si fa fare un pompino da un uomo era abbastanza per avere qualcosa di cui chiacchierare per tutta la settimana. Poi nessuno se ne sarebbe più ricordato, ma io avevo gli occhi della gente incollati addosso, i loro parlottii dietro le spalle e la sensazione di essere osservato più del solito, e non perché ero carino.

Qualcuno mi passava accanto e mi diceva di succhiarglielo. Io rispondevo a tono, ma le risate di quei branchi mi sotterravano. Cercai di diventare invisibile, ma dopo l’ennesimo tipo che mi indicava il suo pacco non ce la feci più e, lontano da tutti, aspirai una sigaretta dopo l’altra in tempo record.

Sobbalzavo a ogni fruscio, convinto che fosse qualcuno nascosto dietro un cespuglio immaginario, pronto a spaventarmi col suo fringuello all’aria e una serie di frasi impronunciabili come corredo.

Io avevo una sigaretta accesa in mano e pensai che, nel peggiore dei casi, avrei potuto fargli passare la voglia spengendogliela direttamente sul suo affare; ed ero così convinto di quell’idea che ogni volta che finivo di fumarne una sentivo subito il bisogno di accenderne un’altra.

Poi quei fruscii divennero più reali. Mi voltai, ma non c’era nessun cespuglio nei dintorni, né qualunque altro arbusto che potesse produrre quel rumore. Continuai a scrutare il paesaggio alle mie spalle, a tenere gli occhi fissi sul muro che faceva angolo, senza mai sbattere le palpebre, per catturare ogni minimo movimento. Trattenni il respiro e con una mano scacciai il fumo che mi offuscava la vista. Ascoltai un sassolino rotolare e mi irrigidii. Spostai rapidamente lo sguardo sui ciottoli del vialetto, ma nessuno si era mosso: erano ben saldati. L’aria era immobile, così come lo era il mio respiro, che tornò regolare solo dopo che mi fui accertato che lì, dietro di me, non c’era proprio nessuno. Ricontrollai ancora da destra a sinistra, da sinistra a destra, senza muovere un passo. Sentii la sigaretta perdere peso e mi accorsi che l’avevo lasciata lì a consumarsi, esattamente lo stesso gioco che la paura stava facendo con me. Non mi andava più di fumarla… Non mi andava nemmeno più di star dietro a quello stupido seminario. Sarei potuto sparire una settimana o due, e tornare in tempo per l’inizio delle lezioni. Oppure, avrei potuto prendere davvero in considerazione l’idea di Nelly e non tornare mai più.

«Nathan?»

Puntai la sigaretta come un’arma. Mi ero voltato senza neanche accorgermene, ma lì davanti a me c’era soltanto l’ameba, SteveMerda, che mi fissava spaventato. Abbassai la sigaretta e mi guardai intorno, maledicendo la mia stupidità per aver abbassato la guardia in quel modo.

«Sono da solo, non ti preoccupare.»

Io lo fissai. I suoi occhi mi sembrarono sinceri, così come la sua preoccupazione.

«Che vuoi?»

Lui fece spallucce e si avvicinò un po’. Poi lo guardai ancora e mi domandai che cosa avessero fatto quei due. Lui e Alan, ovviamente. Era venuto ancora una volta a sputarmi in faccia la realtà?

«Volevo solo sapere come stavi. Ho visto i volantini, che carognata.»

La sigaretta era ormai un mozzicone, ma non riuscivo a sbarazzarmene. Sarebbe stata la mia arma se Steve avesse mentito sul fatto di essere solo - ma io lo sapevo, in fondo, che lo era.

«Sei stato tu?»

Le labbra mi si erano mosse da sole. Non ero stato io a parlare, o almeno non l’avevo fatto consciamente. Volevo solo delle risposte, dare un volto a chi mi aveva fatto quello sgambetto mortale.

«Ma ti pare? Non dire cazzate. Non avrei motivo di fare una cosa del genere.»

«Ah, no? Ti ricordi cosa mi hai detto l’ultima volta? Se qualcuno scoprisse il tuo segreto...»

Lui si avvicinò a bocca aperta.

«Nathan, non scherzare. È vero, l’ho detto, ma non lo avrei mai fatto, e di certo non in questo modo! Credi che io sia così stronzo?»

La mia alzata di sopracciglia rispose per me.

«È una cazzata e lo sai pure tu.», continuò.

«Senti, hai qualcosa di interessante da dirmi o sei venuto qui solo per consolarmi?»

Steve incrociò le braccia. Tirò le labbra da una parte e scosse il capo.

«Tu non pensi mai che qualcuno possa essere dalla tua parte, vero? Piuttosto, io mi preoccuperei di cercare i responsabili. Questa merda è stata ben architettata, è qualcuno che ti conosce e anche molto bene. L’uni era piena di questi volantini. Perché non fai una denuncia?»

Mi scappò un risolino.

«E contro chi? L’aria fritta?»

Steve si avvicinò ancora di più, come a voler sussurrare qualcosa.

«Sono sicuro che se capita nelle mani giuste, questa denuncia passerà avanti a qualsiasi sparatoria tra afroamericani. Cervelli spappolati, morti per le strade, e chi se ne importa? Se Nathan fa una denuncia passa avanti a tutto, dico bene?»

Gli mostrai il dito medio.

«Fottiti.»

«Ah sì? Vieni con me?»

«Fanculo.»

Lui ridacchiò e, dopo tutta la merda di quella giornata, la sua risata mi parve l’ultimo barlume di speranza a cui aggrapparmi. La mia fiducia nell’umanità era ormai persa, ma Steve era l’unico, in quel momento, a non farmi provare il desiderio di rinnegare la mia appartenenza al genere umano.

«Ma dai, sappiamo entrambi che quello che ho detto è vero. Vacci.»

Soffiai con un sorriso e mi domandai come stesse andando tra loro. Forse non così bene, se mi diceva quelle cose. In ogni caso non sarei passato avanti a nessuno, non ce n’era motivo: Alan non aveva mai avuto occhi per me - giusto qualche occhiata ogni tanto -, e ora che c’era Steve era del tutto improbabile. Era un’ostinazione degli stupidi continuare a credere che le cose tra me e lui potessero andare in un’altra direzione, e il fatto che Steve girasse il dito nella piaga non era d’aiuto.

«Io vado, ma tu falla questa denuncia, ok? Così li fai cacare un po’ addosso.»

«Sì, e io ci faccio la figura dell’imbecille.»

Steve cominciò ad allontanarsi. Mi fece “ciao” con la mano e io ricambiai sventolando il volantino nella mano sinistra, perché nella destra tenevo ciò che rimaneva della mia sigaretta. A ogni passo, Steve diventava man mano più piccolo, mentre il pensiero di incontrare Alan si rafforzava sempre più. Ci ripensai e mi resi conto che quella di Steve non era una cattiva idea. Magari, mettendo di mezzo gli avvocati, sarei pure riuscito a spillare qualche soldino all’università per non aver vigilato a sufficienza su quei volantini, che erano veramente sparsi ovunque ed era improbabile che nessun addetto li avesse notati.

Mi frugai le mani e mi sentii soddisfatto: avevo finalmente deciso la mia prossima meta.

 

A metà strada mi ricordai che io e Alan non ci vedevamo da quella famosa telefonata. Io gli avevo detto che non era stato molto carino da parte sua spifferare tutto a Steve, che ne aveva subito approfittato. Lui non mi aveva più richiamato da allora e questo mi fece sprofondare nello sconforto. Poi però pensai che andavo a fare una denuncia a un poliziotto, non a un amico, e che lui, anche solo per dovere professionale, non si sarebbe certo tirato indietro.

Arrivai alla centrale e chiesi di lui alla segreteria. Mi fecero accomodare su una poltroncina scomoda e diedi nuovamente un’occhiata a quel volantino. Davvero Steve non c’entrava niente? A me era parso sincero, ma non spettava a me dirlo.

Davanti a me c’era un via vai continuo di agenti, rigorosamente in coppia, che attraversavano il corridoio con un caffè in mano; uno di questi venne urtato da uno sbarbatello che correva dalla parte opposta rispetto a loro, con un foglio ben stretto tra le dita, da consegnare a chissà quale superiore. Dietro si lasciava solo gli sguardi attoniti dei colleghi, che commentavano con un’alzata di spalle, per poi scuotere la testa. In sottofondo, si sentiva lo squillare continuo dei telefoni, come quello gestito dalla segretaria che mi aveva fatto accomodare. Si mise la cornetta tra guancia e spalla, poi afferrò una penna, ma non scrisse niente; alzò gli occhi nella mia direzione, annuì e poi riattaccò con un sorriso. Come previsto, la donna venne verso di me e, con fare affabile e cortese, mi comunicò che l’agente Scottfield era pronto per ricevermi.

Lo immaginai dietro la sua scrivania, a gestire scartoffie, e poi alzare il telefono per dire che poteva ricevermi. Mi sembrò molto professionale e per certi versi piuttosto affascinante.

Seguii la segretaria per un lungo corridoio, costellato da porte a vetri di agenti e ispettori, fino a che non ci fermammo davanti a quella che immaginai essere di Alan e Ash.

La segretaria bussò un paio di volte e sentire la voce di Alan mi fece perdere un colpo; ma fu nel momento in cui si aprì la porta che mi sentii veramente piccolo, nel ripensare a come mi ero comportato. Entrai nella stanza e ringraziai la segretaria, poi i nostri sguardi si incontrarono. Lui lo abbassò subito e non riuscii a capire se fosse un fattore negativo o meno. Riordinò un paio di fogli e per un attimo ebbi come l’impressione che non volesse guardarmi.

Poi, quando ormai non c’erano più penne o gomme da rimettere nel portapenne, mi diede una rapida occhiata e mi fece cenno di sedermi alla sua scrivania.

«Che hai combinato stavolta?»

Dal suo volto uscì un sorriso, ma sembrava molto tirato. Immaginai che avesse molto da fare e che forse la mia richiesta di vederlo era stata più un impiccio che altro.

Ash, intanto, lo raggiunse alla scrivania.

Con un filo di imbarazzo, porsi il volantino ad Alan; ma proprio nel momento in cui finì tra le sue mani, mi affrettai a dire: «È un fotomontaggio!»

E per quanto fosse vero, era comunque strano vedere la propria faccia in un corpo che non era il proprio, a fare cose che, be’, di certo non avrei stampato su un volantino.

Alan fece una rapida alzata di sopracciglia, un gesto che poteva significare tutto e niente: sorpresa e stupore, ma non necessariamente rivolti verso il deplorevole gesto, quanto più a ciò che stava vedendo. Io però avevo stima di lui e sapevo che se stava fissando quel volantino non era per via di quello che c’era sopra, ma solo perché stava cercando di verificare qualcosa. E ancora, pur non essendo davvero io quello nella foto, un po’ mi sembrò di esserlo e mi sentii nudo di fronte agli occhi scrutatori di Alan.

Dopo una manciata di interminabili secondi, posò il volantino sulla scrivania e annuì.

«Sì, anche a me pare un fotomontaggio. Basta vedere l’attaccatura del collo» e lo indicò in quell’immagine in bianco e nero, dove era maggiore lo stacco tra il mio viso e quel corpo.

Alan osservò ancora un po’ la foto e poi proseguì con le sue considerazioni.

«Sembra un’azione fatta con lo specifico intento di colpirti. C’è qualcuno che potrebbe avere un buon motivo per fare questo? Qualche nemico?»

Ci pensai un attimo.

«Be’, ogni tanto mi scontro con Steve, ma...»

«“Steve” chi?»

Quella domanda mi lasciò di stucco. Erano pure usciti insieme!

Specificai di chi stavo parlando, ma il viso di Alan non tradì alcuna emozione. Forse non era stata una grande uscita.

«Comunque, dicevo... Steve ogni tanto mi stuzzica, ma oggi mi ha giurato che lui non c’entra nulla e mi è parso sincero. Non è quel tipo di persona.»

Ash batteva rapido i tasti al computer, riportando tutto ciò che stavo dicendo.

«Quindi tu e lui avete parlato di questo.»

«Sì, poco fa. È stato lui a consigliarmi di venire qui.»

Le dita di Ash continuavano a battere i tasti.

«E cosa ti fa pensare che lui non c’entri nulla?»

Il tono della sua voce era molto diverso da quello che usava di solito con me. Se in genere era amichevole e quasi dolce in certi momenti, ora era molto professionale, senza la minima sbavatura emotiva. Mi sembrava di avere di fronte uno sconosciuto, ma sapevo che era solo un’impressione, o almeno era ciò che speravo.

«Non ho delle prove, se è questo che intendi. È una sensazione, mi è sembrato sincero, tutto qua.»

Alan annuì e tornò a guardarmi. Forse, in quel momento, avrei voluto che fosse meno distante, ma sapevo che stava solo rispettando il protocollo.

«Ci sono altre persone di cui potresti dubitare?»

Sospirai. In realtà, una persona c’era, ma non poteva essere stata. Ormai eravamo distanti anni luce, non ci sarebbe stato motivo. Eppure, mi tornò in mente l’armadio che si scrocchiava le dita delle mani e il ghigno sulla sua faccia.

«Nathan?»

Quella chiamata mi fece sobbalzare appena.

«Eh? Be’, ecco...»

Mi guardai le dita. Poi i miei occhi si piantarono nuovamente in quelli di Alan, che non aveva intenzione di mollarmi un attimo, e mi mise in soggezione.

«Un’altra persona ci sarebbe, ma non credo sia possibile che sia stato lui.»

«E perché?»

«Perché lui crede che sia etero e, come hai detto tu, questa cosa è stata fatta per colpirmi, quindi è una persona che ha in mano qualcosa di più di un sospetto.»

«Parlamene comunque.»

Era impossibile che lui c’entrasse qualcosa; ma avrei parlato, perché la mia esitazione poteva sembrare ciò che non era, come un tentativo di copertura.

«È una storia un po’ lunga. Provo a partire dall’inizio.»

Alan annuì e incrociò le mani, sulle quali poi poggiò il mento.

«Prego.»

«Stavo pensando a Ryan. Il ragazzo che abbiamo visto anche alla festa, ricordi? Ecco, lui. Mercoledì pomeriggio l’ho incontrato per caso al McDonald in cui volevo tornare, come ti avevo detto. Lì mi ha minacciato e mi ha detto di smammare, altrimenti me ne sarei pentito. Io non ho fiatato e ho fatto come mi ha detto, uscendo subito dal locale.»

Alan annuì, sciolse le mani e con la destra cominciò a giocherellare con una penna.

«Perché sei tornano in quel locale?»

«È lì che avevo trovato quel bigliettino. Quello con tutte quelle parole messe a caso, ricordi? Non mi piace quel posto e sono quasi certo che lì ci sia un giro di droga. Così, giusto per dirvelo. Anche se lo sapete già, credo.»

Alan sospirò, mentre Ash si affrettava a digitare tutto.

«Sì, quel posto è preceduto dalla sua fama. Perché Ryan voleva che tu te ne andassi?»

«Immagino che fosse perché avevo cominciato a fare domande su chi fossero gli spacciatori.»

Alan annuì ancora e, per la prima volta, distolse il suo sguardo dal mio, intento a pensare; ma si trattò di una manciata di secondi, perché poi tornò subito a guardarmi.

«Perché ti interessa così tanto quel posto?»

«Perché voglio sapere chi è che rifornisce Ryan e Harvey.»

«Harvey?»

La sensazione di essere nudo divenne più reale. Ero andato lì per parlare di uno stupido volantino, non per sciorinare i fatti miei alla polizia. Mi pentii di aver tirato in ballo Ryan, perché se gli avessero trovato la droga in casa avrebbe passato guai belli grossi. Ero stato un cretino.

«Cosa c’entra Harvey? Puoi rispondere?»

Avevo cercato di ignorare le sensazioni che quel nome mi suscitava, ma da quel momento non ci riuscii più. Ripensai a quello che era successo due giorni prima e la sola idea mi sconquassò lo stomaco.

«Anche Harvey è in questo giro.» Lo dissi con un filo di voce, come se me ne vergognassi, ma le dita di Ash battevano tutto, registravano ogni mia parola. «Sniffa cocaina.»

Alan lasciò cadere per un attimo la sua maschera algida e si mostrò dispiaciuto, anche se forse non era così tanto sorpreso. Io abbassai subito lo sguardo al pensiero di quanto ci ero andato vicino e fui attratto dalle pellicine morsicchiate intorno al mio pollice.

«Che rapporto c’è tra Ryan e Harvey?»

Anche se dispiaciuto, Alan non si lasciò impietosire e continuò a fare domande, passandomi sopra come un carro armato. D’altronde, era il suo lavoro e lo stava facendo in modo impeccabile.

«Be’, so che si conoscono. Li ho visti un giorno fuori dall’università che parlottavano tra loro. Ryan non mi aveva mai detto di conoscerlo, ma è normale, visto che non poteva sapere che Harvey è un’amicizia in comune.»

Alan annuì ancora.

«Come definiresti il rapporto di amicizia tra i due?»

«Non è superficiale, direi. Mi sembrava che si conoscessero piuttosto bene, ma non potrei dirlo con certezza.»

Alan mollò la penna e incrociò di nuovo le mani, stavolta lasciandole sul tavolo. Arricciò le labbra pensoso, mentre il suo sguardo si perdeva nel vuoto tra lui e la scrivania. Poi rinvenne, come se si fosse risvegliato all’improvviso.

«Nell’ambiente universitario, chi è a conoscenza del fatto che sei omosessuale?»

«Steve. E poi...» Ci pensai un attimo. «Nessun altro, o quantomeno non gliel’ho detto io.»

«Azzardo un’ipotesi: Ryan cerca un modo per metterti paura o allontanarti dal locale, ma non sa come fare; parla per caso con Harvey e scopre che sei gay, non la prende bene e decide di fartela pagare diffondendo quelle voci. Che ne pensi? Mi rendo conto che sia uno scenario molto azzardato, ma non sarebbe così improbabile.»

Io lo fissai. La verità era che l’ipotesi di Alan non era così fuori dal mondo. Ryan e Harvey stavano confabulando qualcosa e poi chissà cosa potevano essersi detti sotto l’effetto di droghe. E poi c’era sempre da considerare il fatto che aveva sbattuto fuori Harvey dalla mia vita. Certo, se quell’ipotesi fosse stata vera sarebbe stata una pugnalata in pieno petto. Gettai un’occhiata al volantino e mi sentii colmo di vergogna. Sopra c’era proprio una brutta immagine, volgare e che non mi rappresentava per niente, come se tutta la mia persona fosse stata ridotta a poco più di un pompino. L’autore di quella bravata non credeva certo che Nathan Hayworth potesse essere qualcosa di più, come - giusto per fare un esempio - un essere umano con pregi, difetti e qualche sogno nel cassetto. No, io ero solo la mia sessualità sbagliata e non meritavo di essere altro.

«Aspettate un attimo», esordì Ash, che interruppe così il suo battere frenetico sui tasti del computer.

«Che c’è?»

«Se veramente credi che il movente sia quello omofobico, allora potrebbe essere stato chiunque. Basta che qualcuno lo abbia scoperto e che abbia deciso di stampare i volantini per una ritorsione personale.»

Io aspettai la reazione di Alan. L’osservazione di Ash era giusta e da una parte mi rincuorò. Alan si mordicchiò un labbro e gli occhi si mossero da una parte all’altra, come se stessero rincorrendo un’idea. Sperai per un attimo che non l’acciuffasse mai; purtroppo, dovetti ricredermi l’istante successivo.

Alzò lo sguardo verso di me.

«Quanti erano, questi volantini? Sapresti quantificare?»

Emisi un mugolio pensoso. Io ne avevo visti solo una ventina al massimo, ma Steve aveva detto che l’università ne era zeppa.

«Immagino che siano qualche centinaio.»

«Ecco, appunto», rispose Alan, poi prese il volantino e indicò la foto. «Questo fotomontaggio è stato fatto di fretta, ma porta comunque via un po’ di tempo, oltre al fatto che per stampare una così alta quantità di volantini è necessario andare in copisteria.»

Sentii l’apprensione crescermi dentro.

«E quindi?»

«E quindi non spenderei tempo e soldi solo per mettere in giro qualche voce. Chi l’ha fatto voleva colpirti e aveva dei buoni motivi per farlo. Non ci vuole molto a capire che è un fotomontaggio, è vero, ma sembra quasi che ci fosse una certa fretta nel mettere in giro queste voci.»

Ripensai a Ryan, con in sottofondo il rumore secco dei tasti che riportavano ogni nostra affermazione, e a come mi aveva minacciato quel pomeriggio al locale. Mi aveva detto di andare via e lo avevo fatto, ma forse per lui non era abbastanza. Forse si era consultato col capo o addirittura con Waitch e lui gli aveva suggerito di rincarare la dose. Era allo stesso tempo assurdo e probabile, ma soprattutto inquietante.

«Nathan? Che ne pensi?»

«Eh? Ah... Non lo so. Da una parte potrebbe avere senso.»

«Mi confermi che Ryan e Harvey si conoscono?»

«Sì, confermo.»

«Dove posso trovare Harvey?»

Cominciai a sudare freddo - be’, in realtà cominciai a sudare caldo. Le ascelle mi si bagnarono alla velocità della luce e mi sembrava di essere diventato una stufa vivente. Il ricordo di quello che avevo quasi fatto due giorni prima mi riempì della stessa rabbia che mi aveva colto dopo che Harvey se n’era andato. Mi rimisi a posto sulla sedia, poi mi grattai, e l’attimo successivo mi resi conto che mi stavo innervosendo. Alan non mi toglieva gli occhi di dosso e guardare Ash non aiutava.

«Nathan? Dov’è Harvey?»

Avevo la gola secca. Pensare a lui mi metteva a disagio.

«Non lo so.»

Ash continuava a battere a tastiera e quel cicaleccio di lettere cominciò a darmi sui nervi.

«Come sarebbe?»

Feci scorrere il mio sguardo da uno all’altro, entrambi stupiti e in attesa di una risposta. Non volevo dire ad Alan quello che era successo tra noi, perché sapevo di essere migliore di tutta quella storia, così dissi le prime parole che mi vennero in mente che non fossero troppo compromettenti.

«Sarebbe che l’ho sbattuto fuori dalla mia vita e sarà meglio che non si faccia più vedere, se non vuole passare dei guai.»

Alan sembrava sorpreso. Gli spuntò sul volto un sorriso interrogativo.

«Cioè? Che è successo tra voi due?»

La gola era ancora secca. Ero andato lì per un stupido volantino e invece - cavolo! - eravamo infilati a parlare di Harvey.

«Non mi va di parlarne e non mi sembra che c’entri qualcosa.»

Alan non tradì alcuna emozione e attese qualche secondo, ma io non avevo intenzione di parlare.

«Come preferisci, ma al contrario se avete litigato forse potrebbe esserci un nesso con i volantini. Sicuro che non vuoi dire niente?»

Tic tic-tic tic, e Ash non la smetteva di scrivere. Doveva riportare proprio ogni cosa? Ogni singola cosa? Mi stava facendo impazzire.

E poi non è che avevamo litigato. Per Harvey provavo un misto di emozioni capeggiate da schifo e fastidio, dopo quello che era accaduto due giorni prima.

«Mah, che ti devo dire. È una testa di cazzo che pippa cocaina da mattina a sera. Probabilmente con questa storia della droga si è spinto un po’ oltre e ho come l’impressione che si sia infilato in qualche casino. Ho addirittura pensato che anche lui c’entrasse qualcosa con la rapina.»

Ryan, infatti, era uno dei rapinatori. E se l’altro fosse stato Harvey? Non ci avevo davvero fatto caso quel giorno e nemmeno ci avevo ripensato in quelli successivi. Se solo avessi prestato un po’ più d’attenzione...! Mi sforzai di ricordare, ma non mi veniva in mente niente.

Mi resi conto che Ash aveva smesso di scrivere. Quell’odioso e monotono sottofondo aveva finalmente lasciato spazio al silenzio. Alzai gli occhi e notai che Alan e Ash si stavano guardando, ma non dissero niente.

Alan, poi, tornò a fissarmi con la sua solita espressione tirata e molto, molto professionale.

«Va bene, Nathan, puoi andare. Ti terremo aggiornati sul volantino e anche su Harvey.»

Ash diede alla stampa tutto ciò che aveva scritto e mi fecero firmare il documento con le dichiarazioni rilasciate durante l’interrogatorio.

Alan mi accompagnò alla porta e poi, probabilmente a causa della mia espressione smarrita, decise di scortarmi fino all’ingresso.

«Grazie di tutto. Aspetto vostre notizie, allora.»

«Sì, ti faremo sapere non appena sapremo qualcosa.»

Lui mi fissava in modo strano, con quell’espressione di chi ti sta guardando e al contempo sta pensando un miliardo di cose sul tuo conto. Mi domandai cosa gli ronzasse in testa, cosa ci fosse dietro a quegli occhi così pensosi, nei quali lessi un accenno di dispiacere.

Pensai in quel momento che le nostre incomprensioni erano solo frutto della mia immaturità, una stupidata che avremmo potuto evitare, che stare con lui mi piaceva e che avrei voluto passare del tempo insieme.

«Senti, Alan... Sei libero questo fine settimana?»

Mi uscì così, senza pensare. Avevo bisogno di sentire di nuovo i miei ventun anni e poi mi accorsi che desideravo davvero fare pace con Alan, perché in un certo senso mi mancava.

Dalla sua espressione, capii che non se l’aspettava e che lo avevo colto di sorpresa. Tutta la sua professionalità andò a farsi benedire, per lasciare spazio a due occhi appena spalancati.

«... Cioè, non fraintendere! Volevo solo passare un po’ di tempo con te, come due amici. E volevo anche approfittarne per scusarmi con te per tutta quella storia di Steve. Mi dispiace, sono stato un cretino.»

Lui si lasciò scappare una risatina imbarazzata e abbassò lo sguardo per un attimo.

«Tranquillo, è acqua passata. E per l’uscita non ci sono problemi. Ma perché non ci vediamo martedì sera? Mercoledì ho il giorno di recupero.»

In realtà, non ero così sicuro che glielo avessi chiesto per pura amicizia, ma non importava: ero felice che lui avesse accettato e che non avesse proposto di invitare qualcun altro o che non mi avesse mandato a fanculo per tutta la storia del messaggio. In quel momento, lui era l’unica persona con cui volevo stare, l’unico a cui volevo soffiare un po’ di fumo in faccia per vedergli arricciare il naso. E sapere che per lui la nostra incomprensione era acqua passata era segno che era la persona matura che tanto stimavo.

«Sì, mi sembra un’ottima idea. Perfetto. Allora ci risentiamo per martedì, ok?»

Osservai quei suoi occhi nocciola e per un attimo li trovai affascinanti.

«Va bene. Ciao, Nathan.»

«Bye bye.»

Lo salutai e uscii dalla centrale, ma dal nulla sentii sensazioni negative che cominciavano ad arrampicarsi sul mio corpo. La prima riguardava proprio Alan e il fantasma di Oliver che cominciò ad aleggiarmi davanti agli occhi. Per la prima volta, cominciai a prendere in considerazione l’ipotesi che Alan avrebbe potuto non staccarsene mai. Io con lui stavo bene e non avevo particolari mire, ma chi poteva dirlo? Non mi sarebbe dispiaciuto se le cose avessero preso una piega diversa, ma non avevo davvero mai fatto i conti col suo ex, che lui considerava ancora il suo ragazzo. Per non parlare di Steve, anche se francamente non credevo a una loro possibile evoluzione.

L’altro pensiero riguardava l’interrogatorio appena concluso. Ripensai a ciò che avevo detto e mi augurai di non aver messo né Ryan né Harvey nei guai - di Harvey forse me ne sarebbe importato un po’ meno. Avevo parlato tanto, forse pure troppo, ma il problema è che non sapevo quanto avessi davvero rivelato. Alan mi aveva scrutato per tutto il tempo con quegli occhi magnetici e per molte cose non me l’ero sentita di mentire.

Gli avevo detto tutto, perché di lui mi fidavo. Il punto era: a che prezzo?

 

 

 

Angolo autrice

Salve a tutti!

A quanto pare, qualcuno ha preso di mira Nathan! Forse ha pestato i piedi alle persone sbagliate? Chissà, chissà.

Intanto però cerca di fare ammenda con Alan, è già qualcosa :D E Steve per una volta si è comportato bene ^__^

 

Per quanto riguarda la revisione, vi annuncio che finalmente è terminata! Ora posso partire con la scrittura degli ultimi tre capitoli. Confesso che la revisione del capitolo 30 è stata un mezzo dramma, ho cancellato e riscritto non so quante volte. Però almeno ho finito!

 

A giovedì prossimo, allora, e come sempre grazie per il supporto <3

holls

 

 

   
 
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