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Autore: Puffardella    20/01/2022    2 recensioni
La vita di Davide è tutto fuorché ordinaria. Affetto fin da bambino da porfiria, che lo costringe a una vita di privazioni, ha il privilegio di svolgere una professione unica: quella del restauratore di libri.
In seguito al peggioramento del suo stato di salute, si ritira in un piccolo quanto singolare paesino del nord Italia, in cerca di un po' di serenità.
Qui fa la conoscenza di un uomo importante per la comunità, affascinante quanto misterioso, il quale gli commissiona il restauro di un antico manoscritto, una sorta di diario dei suoi avi.
Il contenuto di quel libro si rivelerà sconvolgente per Davide, e avrà il potere di cambiare per sempre le sue sorti e quelle delle persone che ama.
Genere: Dark, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
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Salve, bella gente. Nuova piccola modifica al capitolo. Nel caso aveste già letto l'introduzione al capitolo dello scorso aggiornamento, ritenetelo nullo. Sono spiacente delle continue e ripetute modifiche, ma è grazie al vostro aiuto e ai vostri suggerimenti che questo racconto può sperare di essere finito, per tanto vi chiedo di essere clementi e di portare pazienza :)


La cena

Mentre percorreva le vie deserte e nebbiose di Mestrieri a passo svelto, Davide diede una nuova occhiata all’orologio, come se con quel semplice gesto avrebbe potuto riportare le lancette indietro.
Si era fatto dannatamente tardi e lui detestava arrivare in ritardo. Non sarebbe successo se non fosse stato per quella stupida bottiglia di whisky da portare a quella stupida cena. Il fatto era che aveva dovuto farsi trenta chilometri per trovare un negozio di liquori, e percorrere trenta chilometri su strade dissestate, strette e sommerse da una fitta coltre di nebbia equivaleva a farne almeno il doppio.
Davide sospirò. Ad essere onesti, quello non era l’unico motivo per cui aveva fatto tardi. Aveva trascorso buona parte della giornata a cercare una ditta di traslochi disposta a sgombrare la mansarda, senza alcun risultato. All’ennesimo rifiuto aveva capito che, se voleva risolvere il problema, doveva sbrigarsela da solo. Ecco perché, nel primo pomeriggio, aveva iniziato a ripulire la soffitta riempiendo di giocattoli una quantità esagerata di scatoloni, che ora se ne stavano ammassati, uno sull’altro, in un angolo della stanza.
Quando aveva finito il sole era già tramontato, e solo in quel momento Davide si era reso conto che non sarebbe stato cortese presentarsi all’invito del parroco a mani vuote. Si era quindi precipitato al negozio di liquori più vicino, che distava appunto trenta chilometri, aveva comprato una bottiglia di whisky, era tornato a casa, si era fatto una doccia veloce, e nel frattempo le otto erano allegramente arrivate e altrettanto allegramente passate.
Quando, trafelato e sudato, arrivò finalmente alla canonica, le campane suonarono nove rintocchi.
 
La canonica si trovava di fianco alla chiesa nella Piazza Grande, all’interno di alte e spesse mura che ricordavano vagamente quelle di una caserma militare e suggerivano ai malintenzionati di tenersi alla larga. A dispetto delle mura, tuttavia, il cancello era aperto e Davide si sentì autorizzato ad immettersi nel giardino. Mentre lo attraversava, i suoi passi scricchiolavano sul brecciolino del viale, spezzando un silenzio altrimenti assoluto. Le luci dei lampioncini dislocati in tutta l’area fluttuavano nella nebbia, come piccoli spettri irrequieti che vagavano nel nulla in cerca di quiete. La nebbia era così fitta che era impossibile distinguere altro.
La canonica iniziò a essere visibile solo a pochi metri di distanza. Dalle finestre del piano terra filtrava una calda luce, a indicare che gli ospiti erano già arrivati. Davide salì i tre gradini che conducevano al portone d’entrata e suonò il campanello. Pochi istanti dopo, gli aprì una donna anziana, bassa e rotondetta.
«Signor Davide, che piacere averla qui» lo accolse quella con un largo sorriso sulle labbra, come se lo conoscesse già. «Sono Lidia, padre Umberto le ha parlato di me questa mattina. Mi prendevo cura della casa del suo povero prozio...» aggiunse subito dopo notando la sua espressione stupita.
Prima che potesse risponderle, come se si fosse sentito chiamare in causa, il parroco di Mestrieri uscì da una delle stanze che si affacciavano sull’atrio, con le braccia allargate e un sorriso cordiale sulle labbra.
«Davide, ben arrivato. Vedo che ha già fatto la conoscenza di Lidia» esordì salutandolo.
«Sì, ci stavamo giusto presentando» replicò Davide grattandosi dietro l’orecchio.
Lidia lo guardò ora con una espressione mortificata. «Mi dispiace per lo spavento che mio nipote le ha fatto prendere, la scorsa notte. Gli avevo detto di rimanersene zitto e buono su una delle panche della navata mentre finivo di fare le pulizie, e invece quel piccolo monello ha deciso di farsi un giro sull’altalena da solo. Mi vergogno a dirlo ma me ne sono accorta solo quando è tornato correndo dentro la chiesa. Gli abbiamo insegnato che non deve mai parlare con gli sconosciuti, per questo si è spaventato quando l’ha vista. A dire il vero lì per lì non gli avevo creduto, mio nipote ha una fervida immaginazione, tende spesso a confondere la realtà con la fantasia. Ovviamente si è preso una bella sgridata per avermi disubbidito e l’ho riportato subito a casa, che è proprio di fronte all’entrata secondaria della chiesa. Sono tornata a spegnere le luci e a chiudere il portone dopo essermi assicurata che stesse dormendo. Ho saputo solo stamattina che il piccolo diceva il vero riguardo a lei, e ora mi dispiace che si sia preso questo spaventato» si scusò la donna tutto d’un fiato, arricchendo la spiegazione di numerosi dettagli chiarificatori.
Ancora una volta, Davide non poté fare a meno di pensare che c’era qualcosa di strano in quella storia, qualcosa che non tornava e non lo convinceva. Decise comunque di non indagare ulteriormente. Invece disse, semplicemente:  «L’importante è che il piccolo stia bene.»
L’anziana donna annuì sorridendo. «Certamente, sta benissimo. Si è solo spaventato, e ben gli sta. La prossima volta ci penserà due volte prima di disubbidirmi.»
Il parroco si mosse, impaziente. «Venga Davide, lasci pure il cappotto a Lidia e... oh, quello è whisky? Ma che bel pensiero. Lo serviremo agli ospiti dopo cena, non è così, Lidia? Ecco, lasci tutto a Lidia e venga con me: la presento al resto degli ospiti» disse.
Davide lo seguì attraverso l’ampio atrio. I loro passi echeggiavano tra le alte pareti e si confondevano col brusio proveniente dalla sala da pranzo. A pochi passi dalla porta, però, fu colto da un terribile capogiro e fu costretto ad arrestarsi. Non si trattava di una delle sue solite vertigini causate dell’anemia di cui soffriva ciclicamente,  ma di una sensazione tutta nuova, particolare e di difficile comprensione. Il cuore batteva ad un ritmo normale e, tuttavia, in maniera insolita, potente. Poteva percepirne i battiti nella gola, nei polsi e in tutte le arterie principali del suo corpo. La cosa assurda era che gli sembrava di percepire due battiti distinti. Era come se, insieme al suo, riuscisse a sentire i battiti del cuore di qualcun altro. O meglio, era come se qualcuno avesse regolato il proprio ritmo cardiaco col suo, per far sì che entrambi battessero all’unisono.
Scosse la testa e si costrinse a togliersi dalla mente quell’assurdo pensiero, per sostituirlo con un altro decisamente meno rassicurante: e se era questo ciò che si provava quando si aveva un infarto? Chiuse gli occhi e inspirò a fondo, nel tentativo di riuscire a calmare la brutalità con cui il suo cuore continuava a battergli nel petto.
«Si sente bene?» gli chiese padre Umberto ad un certo punto, preoccupato.
«Benissimo» mentì Davide, mentre la strana sensazione iniziava gradualmente ad affievolirsi. Padre Umberto lo fissò in maniera dubbiosa per un secondo o due, poi gli elargì un nuovo sorriso.
«Bene» disse. «Per un attimo ho avuto paura stesse per svenire. Ma venga. Come le dicevo, gli altri ospiti sono già arrivati e non vedo l’ora di presentarglieli» proseguì, entrando nella sala da pranzo. Davide lo seguì riluttante. Si chiese, per l’ennesima volta, cosa ci facesse lì.
Seduti intorno ad un lungo tavolo rettangolare, elegantemente apparecchiato, c’erano almeno tre famiglie. Tutti si alzarono in piedi per fare la sua conoscenza, e tutti fissandolo con curiosità. In mezzo a quegli sguardi, Davide ne percepiva uno in particolare: quello dell’uomo al quale, contro tutte le regole del bon ton, era stato riservato il posto del padrone di casa a capotavola.
Davide non aveva ancora sollevato gli occhi su di lui eppure sentiva quelli dell’uomo scrutarlo attentamente, sondargli l’anima. Era come per la faccenda del cuore: lo sentiva dentro di sé. Era una sensazione singolare, che non aveva mai provato prima e che trovava terribilmente fastidiosa e imbarazzante.
Intanto, padre Umberto aveva iniziato a presentargli gli ospiti: il sindaco Dante Ruspaggiari e la moglie Franca, il maresciallo dei carabinieri Giuseppe Borghesi e la moglie Lisa, il medico del paese Giuliano Baraldi e infine lui, l’uomo più importante di Mestrieri, il diretto discendente del fondatore della stravagante cittadina del quale Davide era sempre meno convinto di voler fare parte: Victor Manferrati. Quando gli venne presentato, Davide poté finalmente soffermarsi con maggiore attenzione sui particolari dell’uomo. Era attraente, sui quaranta, dai lineamenti aristocratici e lo sguardo affilato. I suoi occhi avevano un colore indefinibile, singolare: grigio tendente al viola, con screziature dorate.
«Perdonate il ritardo» si giustificò Davide mortificato guardando le facce sconosciute intorno a lui, riflettendo che la maggior parte degli ospiti sembrava essere più giovane di quanto si fosse aspettato.
«Ci perdoni lei per aver preso posto prima del suo arrivo. Non eravamo del tutto sicuri che sarebbe venuto» parlò per tutti l’ospite d’onore.
«Se devo essere onesto, l’idea mi ha sfiorato» ammise d’impulso Davide. Poi, temendo di aver fatto una gaffe, si precipitò ad aggiungere: «Insomma, questa ha tutta l’aria di essere una cena tra amici intimi, qui mi sento fuori posto...»
 Victor sorrise. «Lei ha ragione. La maggior parte di noi è nato e cresciuto in questo paese. Ci conosciamo da tanto tempo, siamo amici prima che concittadini. Ma non deve sentirsi fuori posto. Averla tra noi stasera è un vero piacere. Anche se probabilmente non se ne rende conto, lei è molto importante, per noi» disse. Mentre finiva di pronunciare quelle parole, gli indicò la sedia alla sua destra e lo invitò a prendere posto, e questo rinforzò in Davide l’impressione che l’uomo non si comportasse come l’ospite d’onore ma come il padrone di casa. Il parroco, d’altro canto, sembrava sottostare di buon grado, e con una buona dose di beata remissività, all’autorità del suo “usurpatore”.
Tuttavia, Davide mise da parte le sue perplessità e sedette al posto assegnatogli.
«Importante?» ripeté, chiedendosi cosa avesse fatto per meritarsi un simile aggettivo.
Victor stette un lungo istante a fissarlo in quel suo strano modo: magnetico e penetrante. «Sì, importante» reiterò. «Vede, in genere i giovani fuggono da questo paese. Con lei sta accadendo l’esatto contrario, e questa è una cosa che dà speranza. Altri potrebbero seguire il suo esempio e stabilirsi in questa comunità. Mestrieri sta morendo, ha un bisogno sconfinato di giovani come lei» spiegò poi sedendosi a sua volta, seguito dagli altri ospiti.
«Beh, perdonatemi la schiettezza ma forse di questo dovrebbe occuparsi il sindaco» replicò Davide. «Capire il malessere di una città e porvi rimedio dovrebbe essere una sua responsabilità» aggiunse poi rivolgendosi direttamente al sindaco, seduto di fronte a lui. «Dubito che, da sola, la mia presenza possa risolvere un problema che, a quanto sembra, persiste da anni.»
Il sindaco sorrise in maniera condiscendente. «Lei ha perfettamente ragione, ragazzo mio. Ma, come temo avrà modo di verificare, Mestrieri non è una comune cittadina con comuni problemi» ribatté in maniera quasi risentita l’uomo, e Davide si dispiacque di essere stato troppo diretto. Che cosa gli era saltato in mente? Inimicarsi il primo cittadino del paese tre secondi dopo averlo conosciuto, accusandolo di negligenza? Ma poi, per l’amor del cielo, che accidenti gli prendeva? Era già la seconda volta che apriva bocca e gli dava fiato senza riflettere.
«Credo di doverle fare le mie scuse, sindaco, sono stato incredibilmente inopportuno e maleducato» si scusò. «Ha detto bene, non conosco affatto i problemi di questo comune, anche se è piuttosto evidente che ce ne siano. Mestrieri è un paese dalla doppia personalità. Conserva tutto il fascino medievale ma sembra essere abitato unicamente da spettri. Quale che sia la ragione del cancro che lo sta uccidendo, riportare in vita un morente non deve essere impresa facile, ed io di certo sono l’ultima persona che può dare pareri in merito...» concluse, facendo implicitamente riferimento al tumore che cresceva nel suo fegato e che, a dispetto di tutti i discorsi pieni di speranza che i medici continuavano a propinargli, era destinato ad estendersi fino ad ucciderlo, come era già successo a sua madre.
«Deve credermi, ragazzo mio, non sono state le sue parole a offendermi ma la consapevolezza di essere impotente di fronte al male di Mestrieri.»
A quelle parole, una cappa di gelo scese su tutta la stanza. Per qualche ragione, tutti i presenti si voltarono verso Victor, come se temessero la sua reazione. La replica dell’ospite d’onore non tardò ad arrivare.
«Il punto è che abbiamo bisogno di nuove risorse e la sua presenza qui, anche se un domani dovesse rivelarsi di nessun aiuto, oggi è almeno di conforto» disse con fredda compostezza, e in quel modo mise elegantemente fine a un discorso che rischiava di diventare spinoso e di incrinare così l’atmosfera di cordialità presente fino a quel momento.
«Oh, ecco la nostra cena!» esclamò sollevato il parroco quando Lidia, aiutata da un’altra donna, entrò nella sala da pranzo con le prime pietanze. Da quel momento in poi, e per fortuna, i toni si fecero più rilassati e i discorsi verterono su argomenti leggeri, che con Mestrieri e le sue problematiche non avevano nulla a che vedere. Tra una portata e l’altra si conversò del più e del meno: di politica, di cultura, perfino di caccia.
«Lei è mai andato a caccia, signor Ferraresi?» La domanda, postagli dal maresciallo Borghesi, lo colse alla sprovvista e impreparato. Quello della caccia era, in tempi odierni, un argomento spinoso e controverso, e lui non sapeva bene cosa rispondere, o cosa fosse conveniente rispondere. La verità, presumeva. Era mai andato a caccia?
Diamine, certo che no, e non solo per via della sua malattia. Non andava matto per la selvaggina,  ma non aveva niente in contrario con la caccia. Anzi, riteneva che, se dovutamente esercitata, fosse se non altro un modo per contenere e gestire alcune specie di animali. Allo stesso tempo, però, nutriva una vera e propria avversione per le armi e, in generale, per tutto ciò che conteneva polvere da sparo e faceva rumore. Ne era terrorizzato fin da piccolo, tanto che, durante i festeggiamenti per il Capodanno, si chiudeva in camera e teneva la testa sotto il cuscino, fino a quando non veniva fatto esplodere l’ultimo “botto” e tornava la quiete. La cosa, comunque, era troppo lunga e personale da spiegare. Decise infine di semplificarsi la vita e dare un’unica versione della verità.  
«Purtroppo non mi è concesso partecipare a nessuna attività che si svolga all’aperto, se in pieno giorno» asserì quindi.
«Buon Dio, e per quale ragione?» chiese padre Umberto.
«Sono affetto da porfiria eritropoietica. In sostanza, sono allergico alla luce del sole...» Davide tacque, e si preparò ad essere sottoposto, per la milionesima volta in vita sua, al solito rito delle frasi di circostanza. Invece, stranamente, nessuno replicò nulla. Perfino le donne, che di norma per certi argomenti mostrano una sensibilità maggiore di quella degli uomini, rimasero in silenzio e continuarono a fissarlo con placida indifferenza. Era come se la cosa non li riguardasse più di tanto. Oppure, più verosimilmente, che ne fossero già al corrente.
«È nel posto giusto, ragazzo. Questo non è forse il tuo campo, Victor?» disse  dopo un po’ il sindaco, in tono velatamente sarcastico. Victor rivolse all’uomo un sorriso amabile ma, per certi versi, forzato, e a Davide fu palese, in quel preciso momento, che tra i due non scorresse buon sangue.
«Lei è un medico?» chiese Davide all’ospite d’onore, incuriosito dall’affermazione del sindaco ma anche per stemperare la tensione quasi palpabile che si era venuta a creare tra i due.
«Non proprio» rispose quello, continuando a fissare il sindaco. Infine si voltò verso di lui e aggiunse: «Finanzio una piccola società che opera nel settore delle malattie rare in tutto il mondo.»
«Capisco...» disse Davide, che si rese conto solo un secondo più tardi che quell’unica banale parola di circostanza avrebbe potuto essere facilmente fraintesa. Ancora una volta, si chiese se non avrebbe fatto meglio a starsene zitto.
Il suo timore si rivelò fondato quando padre Umberto, che sedeva alla sua destra, si agitò sopra la sedia. «Victor non lo fa a scopo di lucro ma per bontà cristiana, per aiutare quelle povere anime disgraziate delle quali le grandi multinazionali si disinteressano totalmente, dal momento che non trarrebbero alcun profitto con la ricerca e la produzione di farmaci destinati a poche centinaia di migliaia di persone...» spiegò zelantemente.
«Facile, quando uno ha le risorse e tutto il tempo del mondo» ribatté Victor, che aveva assunto una posa rigida e sembrava più infastidito che lusingato dall’intervento del parroco. «Alla fine è solo un lavoro» tagliò corto poi.
«Un lavoro decisamente nobile» espresse la sua opinione Davide, che conosceva, per esperienza diretta, quanto fosse difficile per la ricerca sulle malattie rare riuscire a trovare finanziatori che ne sostenessero le spese.
«Non è il mio campo, ma se non sbaglio è stata trovata una cura per la protoporfiria, il farmaco afamelatonide, che sembra essere molto efficace» si sentì a quel punto in dovere di dare la sua opinione professionale Baraldi, il medico.
«Il farmaco è ancora sperimentale e comunque è stato ritirato qualche mese fa per essere sottoposto a ulteriori indagini» intervenne Victor anticipando la risposta di Davide, dimostrando di conoscere molto bene l’argomento. «Credo che il nostro ospite sappia tutto quello che c’è da sapere al riguardo, Giuliano. E credo anche che preferirebbe parlare d’altro, in una serata che dovrebbe essere dedicata al solo svago. O sbaglio?»
«No, non sbaglia» confermò riconoscente Davide, che solo un attimo prima aveva formulato quell’esatto pensiero.
«A proposito di lavori interessanti, padre Umberto ci stava dicendo, prima del suo arrivo, che lei è un restauratore di libri» prese la parola il maresciallo Borghesi.
«Sì, è così...»
«Oh, che bellezza. Ci parli del suo lavoro, Davide» lo pregò Lisa, la moglie del comandante dei carabinieri.
«In realtà non c’è molto da dire. È un lavoro di pazienza, più cha altro. Di pazienza e di studio.»
«Di studio?» chiese incuriosita l’altra donna presente, Franca.
«Beh, sì. È la prima cosa da fare quando si decide di restaurare un libro: determinare l’entità del danno, certo, ma anche analizzare il materiale, capire quale tipo di carta e inchiostro sono stati usati, così da poter intervenire in modo corretto. Non si tratta solo di possedere una buona manualità, bisogna avere anche la capacità di coniugare nozioni di storia dell’arte e di scienze, nello specifico di chimica e fisica...» Davide si interruppe di colpo, chiedendosi se non si stesse dilungando troppo su un argomento che, lo sapeva perfettamente, non era poi così interessante.
«Ed io che credevo bastassero un paio di forbici e un po’ di colla...» disse Lisa, suscitando l’ilarità generale.
Anche Davide rise. «Mi creda, è un’opinione piuttosto comune.»
«Cosa l’ha spinta a fare questo mestiere?» chiese ancora il comandante delle forze dei carabinieri.
Davide non ebbe bisogno di starci a pensare. «La necessità di unire l’utile al dilettevole» rispose di getto. Amava i libri fin da quando ne aveva memoria. Tutti i libri, non importava il contenuto. Li amava e li rispettava, perché si rendeva conto che quelle opere erano costate impegno e sacrificio ai loro autori. Lo sapeva perché suo padre era uno scrittore. O, per lo meno, lo era stato in tempi migliori. Rispettava tutti i libri, quindi, e se ne prendeva cura, tenendo in ottimo stato quelli in suo possesso e riparando quelli che, per forza di cose, rischiavano di andare perduti definitivamente in quanto rari.
Mentre finiva di pensare a tutte quelle cose, per qualche ragione, spostò lo sguardo su Victor e lo trovò a fissarlo a sua volta in maniera attenta, concentrata. Era come se stesse cercando di entrargli in profondità, di sondare i suoi pensieri. Cercò di distogliere lo sguardo, ma non ne trovò la forza. E poi, improvvisamente, la vista gli si appannò. Davide cercò di mantenersi calmo di fronte a quel suo nuovo, inspiegabile malessere. Sbatté le palpebre un paio di volte nel tentativo di riuscire a mettere nuovamente a fuoco le cose intorno a lui, senza ottenere risultati. Infine chiuse gli occhi e se li massaggiò per qualche secondo, e stavolta funzionò. Quando li riaprì, infatti, ci vedeva di nuovo bene. A quel punto, con suo grande sollievo, Victor aveva smesso di interessarsi a lui e ora parlava amabilmente con Franca, la moglie del sindaco.
La serata proseguì senza ulteriori scossoni, e giunse al termine quando era già piuttosto tardi. Uno ad uno, gli ospiti lasciarono la canonica. Davide si accinse a farlo solo quando anche Victor si alzò in piedi per accommiatarsi. Inaspettatamente, mentre si infilavano il cappotto nell’atrio, Victor gli chiese: «È stanco?»
«No, affatto» rispose Davide, sorprendendo perfino se stesso.
«Se la sente di accompagnarmi? Vorrei farle vedere una cosa...»
«Cosa?» chiese Davide, cauto.
«Oh, le piacerà, ne sono sicuro. Ma se non se la sente non importa...»
«No, va bene: l’accompagno volentieri» si affrettò a dire Davide, e non solo per non mostrarsi scortese. La verità era che quell’uomo lo affascinava, e voleva comprenderne il motivo.
   
 
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