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Autore: Aky ivanov    22/01/2022    1 recensioni
Takashi ha freddo nonostante sia piena estate. Le finestre sono chiuse, nessun guizzo d'aria può passare ma ugualmente trema infreddolito nel gelo menzognero. La maglietta è larga, scivola facilmente oltre la spalla. Nell’ultimo mese tutto è diventato improvvisamente più grande:
il pantalone, la camera, la mancanza.
[SPOILER ALERT: capitolo 238]
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Ken Ryuguji (Draken), Luna Mitsuya, Mana Mitsuya, Takashi Mitsuya
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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Twin Dragons

Fanart credits: https://twitter.com/sanzukin/status/1483548939093688323


 

– Luglio/agosto 2008 –

 

La musica è cessata da tempo nelle cuffie del lettore mp3 segregato nella scatola. Le note non aiutano più a sovrastare gli echi delle voci lontane, esse ritornano, sobbarcano la melodia, pungono laddove la carne è più debole. Takashi può dire di esserci abituato, ma è una menzogna, sono passati solo tre giorni. Il suo è un castello sabbioso in riva a una costa, pronto ad essere travolto dall’alta marea.

«Whoaa che figo! Cos’è? Un drago?»

I microscopici aghi annidati sottopelle bruciano nel petto, le parole scatenano un’indesiderata reazione a catena. La chiazza d’inchiostro si allarga sul foglio laddove il pennarello è fermo da svariati secondi, aggiunge una macchia, una lacrima, sotto la spirale delle fauci riprodotte involontariamente.
La sua fragile torre è crollata sotto il peso dell’onda.

«Vuoi un po’ di karubi-don?...Sono Ken Ryuguji, e tu?»

Lo stomaco brontola ma il nodo alla gola è più forte, può ancora sentire il sapore del manzo precotto e il riso scotto acquistato dall’orribile cuoco di zona. A posteriori, il karubi-don peggiore della vita. Lo stesso che avrebbe terminato per voglia e non per fame altre centinaia di volte in quel vicolo dismesso, fianco a fianco sul lurido ciglio strada illuminato dalla fioca luce dei lampioni. Takashi chiude gli occhi e torna indietro nel tempo. La patina lucida della vernice spruzzata per ore brilla sui fantasiosi ghirigori, imbratta le manine serrate attorno alla porzione terminata. L’odore chimico dei solventi penetra nelle narici insieme allo sconsiderato senso di appagamento per le regole infrante. Draken è ancora lì, davanti al muro, reclama il drago come suo facendo fede a clausole di un patto mai stipulato. Lui non obietta, concede la proprietà di quell’insignificante disegno non immaginandone le implicazioni future. Per lui è solo un murales realizzato per sentirsi figo, privo di valore.

«Questo disegno ora è mio!! In cambio di quel karubi-don!»

Il pennarello riempie lo spazio della coda, le curve aggraziate delle zampe stilizzate, i cerchi astratti esatta riproduzione in scala del suo primo grande capolavoro. Il simbolo della profonda amicizia nata con Draken, il fratello mai avuto che avrebbe seguito finanche in capo al mondo. La mano non ha bisogno di indicazioni, si muove da sola in quel progetto.
Il nero scivola viscoso come pece tra i bordi tratteggiati, colma le mancanze cartacee ma non incolla le crepe del cuore ridotto a brandelli. I più grandi gli hanno insegnato che il tempo guarisce le ferite ma sono dei completi bugiardi, si nascondono dietro menzogne fatte di belle parole abbellite da fronzoli totalmente inconcludenti. Nessuno di loro spiega come combattere stoicamente il dolore insito tra un granello di sabbia e l’altro. La clessidra sul mobile è solo una portavoce ignorante, scandisce i vuoti ampliati fino a diventare voragini. Il tempo non rimargina nulla, guarisci se ti curi da solo.

«Noi siamo i Twin Dragons della Toman

La mano vibra ad opera conclusa, il drago splende sotto il neon della piccola lampada. Non importa quanto duramente abbia convinto sé stesso, il sentore acido su per lo stomaco e i crampi alla pancia screditano l’illusione. Takashi non è ancora pronto ad ammirare quel disegno su qualcos’altro diverso dalla tempia di Draken. L’inanimata bocca nera spalancata ha divorato la sua fonte di felicità, strappato il suo cuore per darlo in pasto alle tenebre.
È una nave smarrita nella tempesta senza la luce del suo faro.

«Mitsuya…ti sei già abituato al fatto che non sei più un membro della Toman

Il mal di testa picchia forte in tutto l’encefalo, si espande alle tempie mentre le dita stringono le estremità del capo accasciato ad un soffio dal legno consunto. La mancanza di sonno chiede il suo risarcimento, i succhi gastrici la loro attenzione. Non passa molto ed è nel bagno chinato sul water, il corpo sussultante e l’aria insufficiente. La ceramica resta linda e pinta a seguito dei diversi suoni strozzati, implacabile giudice, lo stomaco da giorni non ha più nulla da poter rigettare. Nulla di cui liberarsi. In passato, quando ne aveva avuto ancora occasione, avrebbe dovuto chiedere il nome di quella pessima tavola calda per comprare quella pietanza schifosa un’ultima volta.

«Sei una brava persona, essere un delinquente non fa per te»

L’acqua fresca schizza sui capelli appiccicati al volto, le mani afferrano il bordo del lavandino anziché l’asciugamano. I denti affondano sulle labbra incapaci di star ferme e soffocare adeguatamente i singhiozzi mentre la razionalità cede il passo allo sconforto. Le lacrime cadono incontrastate, asciugate frettolosamente dalle maniche di una maglia presto zuppa. La lingua assapora controvoglia il fiume salato scivolato sulla bocca, il pugno sollevato a mezz’aria incontra il vuoto e non l’altra metà a cui è sempre stato destinato. Il petto sobbalza al singulto più forte, distrugge ogni tentativo di arginare il pianto. La follia prende il sopravvento e le forbici sono nelle sue mani, chiuse attorno alle punte dei suoi capelli da una parte e dall’altra in un’irregolare composizione che non trova compimento. Il coraggio è insufficiente, il riflesso del drago una pessima idea. Le forbici rimbalzano sul pavimento su cui poco dopo si accascia, oppresso dall’invisibile peso piombato sulla sua schiena. Le ginocchia crollano sulle fredde piastrelle del bagno implorando il corpo di smettere di tremare ma nessuna preghiera è sufficiente a farsi ascoltare. Le braccia imperterrite continuano a vibrare mentre tappa le orecchie, graffia i lobi vuoti, cerca di non sentire quello che i ricordi continuano implacabili a riversare. L’orecchino nero dalla croce bianca, l’ultimo residuo della sua vita da criminale non è più in suo possesso. Il piccolo cerchietto giace lontano, incastonato tra i rilievi di una fredda lapide in un cimitero desolato, posto accanto al nome del ragazzo nato e cresciuto da solo. Il suo modo per continuare a stargli vicino, per farlo sentire parte della sua famiglia, quella di cui gli aveva fatto capire l’importanza.

«Io continuerò a seguire le orme di Mikey…però tu, devi assolutamente diventare uno stilista!»

La consolazione di cui ha bisogno non arriva mentre prende a calci il bordo della vasca, piegato dal rimpianto di non aver insistito ulteriormente. Innumerevoli volte ha ricevuto complimenti per la sua bravura nata più per necessità che svago, il sostegno per portarla avanti e non rinunciare. Draken l’ha sottolineato fin dal confezionamento delle prime divise della Toman, ha fomentato quel sogno in ogni modo possibile.
Lo ha volutamente allontanato dal mondo delle gang per lasciargli immacolata la reputazione.
Tuttavia, questo a Takashi non importa. Vuol sentire nuovamente la familiare voce baritonale accanto a lui pronto a prenderlo in giro per quella reazione esagerata mentre singhiozza e sbatte i pugni per terra. Necessita di un sorriso sghembo oltre la porta bussata in piena notte per un invito a scorrazzare in moto e combattere la noia quando il dolore peggiora e le urla devono essere domate contro le ginocchia piegate al petto. Esige un ultimo pomeriggio in sua compagnia, lontano dalla dolorosa consapevolezza che il suo amico non crescerà più al suo fianco. Draken lo ha abbandonato. Ora soggiorna sulla nuvola più bella accanto alla sua amata Emma.

Takashi è solo a fare i conti con quell’ultimo desiderio dal sapore di una condanna.

 

.….

 

Il buio domina e spadroneggia, condottiero di un invisibile armata nell’oscura caverna divenuta la sua fissa dimora. Fredda, scarna, vuota e silenziosa; dentro e fuori, a destra e sinistra, nel cuore e nella ragione. Il fuoco non riscalda, la luce non sfavilla. Qualcuno l’ha spenta, il colpo di grazia all’impianto guasto e sgangherato fin dall’infanzia.

Takashi ha freddo nonostante sia piena estate. Le finestre sono chiuse, nessun guizzo d'aria può passare ma ugualmente trema infreddolito nel gelo menzognero. La maglietta è larga, scivola facilmente oltre la spalla. Nell’ultimo mese tutto è diventato improvvisamente più grande: il pantalone, la camera, la mancanza. Il freddo perpetua, scivola sulla pelle come un bel vestito accuratamente cucito su misura, si insinua tra le scapole e lì resta. Infinito. Identico ogni singolo giorno degli ultimi trenta.

Disegna, strappa, getta via.

Taglia, distruggi, squarcia.

Scarabocchia, misura, impreca.

La routine ingorda dalle gelide braccia lo accoglie come una vecchia amica, lo conduce nell’oscura morsa fatta d’incessante impegno ed esasperazione. Lavoro, lavoro, lavoro. Takashi non può fermarsi, non può pensare ad altro. La mina rovina il bozzetto, l’ombra scura scava ulteriormente sotto i suoi occhi verso il sogno tramutatosi ormai nella peggiore ossessione. La stanchezza logora i gesti, distrugge l’ennesima inconcludente idea, sottolinea la barba incolta di giorni. Dormire. Il corpo chiede di lasciarsi andare, ondeggia inascoltato all'ennesimo urlo frustrato. Respirare. L’ossigeno fa male attraverso la gola, aspira il profumo della giacca nera e bianca abbandonata sulla sedia, scordata lì casualmente una sera come un’altra con la promessa mai mantenuta di passare a riprenderla. Dimenticare. I ricordi pregano di scomparire, implorano il murales nel vicolo di Shibuya di svanire sotto lo strato della prossima pioggia. Piangere. Le insignificanti gocce d’acqua non oltrepassano più la diga degli occhi e quelle già versate giacciono sulle guance. Lavarsi. Il sale persiste nei solchi lasciati sulla pelle mentre i capelli ricadono untuosi sulla nuca e le orecchie. Specchiarsi. Il riflesso fa paura, smorto e irriconoscibile. Takashi non vuole più vederlo e pensare ai resti di una metà solitaria non visibile che i suoi occhi riescono comunque a catturare sotto lo strato d’argento.

Abbozza, definisci, colora.

Le tonalità pastello adornano l'ultimo vestito.
L’azzurro svolazza sulle balze della gonna, il giallo vivace e gioioso dei girasoli illumina il corpetto. Brillante e sfavillate come la consistenza del sole dimenticato, luminoso come il sorriso di Emma riserbato ad un incapiente e stupido Draken. Pieno di vita sul foglio bianco, forte e indomabile come un altro euforico e naturale sorriso in mezzo a uno splendido panorama immerso nel bianco.

Le mani lo accartocciano e scagliano lontano nell’oscurità della camera. In un gesto secco tutto finisce per terra. Colori, forbici, metro, bottoni, stoffa, ritagli; tutto si confonde sul pavimento pieno di altro ciarpame. Fuori è calata la notte ma dentro di lui è buio perenne.

Takashi trema incontrollato, la gola brucia come legna ardente mozzandogli il respiro. Il grido rabbioso risuona fra le pareti, continua contro la scrivania presa a calci, i disegni e gli schizzi calpestati, i brandelli di carta sfarfallanti. Il desiderio di distruggere tutto graffia contro le mura del cuore, lede la superfice petrosa con artigli affilati, ruggisce al pari di un drago braccato. I volti della fotografia lo giudicano, i familiari occhi scuri impressi nella carta lucida annientano la sua collera unilaterale lasciandolo annegare nel vuoto. È solo in fondo al pozzo fatto di disperazione in cui si è inabissato. L’acqua lo ha sommerso, pesante ed oscura, simile a petrolio. Ha smesso di resistere, può solo rimpiangere le informi chiazze luminose riflesse sulla sommità increspata.
Questo non è lui, Takashi lo sa. Sua madre ferma oltre la tenda divisoria della camera lo sa, le sue sorelline nascoste dietro di lei forse non lo sanno più. Mana e Luna lo temono, hanno paura di lui, di quello che è diventato o di quello che pensano sia sempre stato.
La bestia travestita d'agnello, l'uomo nero divenuto reale.

Tutto sarebbe stato più semplice se fosse riuscito a sorridere ed elargire delle scuse, chiedere con calma di lasciarlo tornare ai suoi disastrosi ed inconcludenti progetti. L’utopistica idea di complessa applicazione. Takashi non può, non più, ha dimenticato come dissimulare il suo dolore, piegare le labbra, contrarre le guance e mettere in mostra i denti nella consueta barriera. Il sorriso. La sua bella e lucente armatura sfoggiata contro le avversità della vita non ha tenuto il passo con l’ultima stoccata. È andato in frantumi insieme al cuore dilaniato dall’impotenza in lotta con la disperazione.

«Fratellone…»

Mana stringe la gonna della mamma al basso mormorio di Luna, rifugge dal suo sguardo quando i loro occhi si incontrano. Le piccole dita inconsciamente avvolgono il polso, quello che Takashi ricorda bene di aver stretto troppo forte qualche ora prima sulla sua maglietta strattonata con l’intento di farsi seguire. L’innocente preoccupazione per l’ennesimo pranzo saltato brutalmente respinta da lui e dalla sua perdita di autocontrollo. Un peso ingombrante si annida nel petto e la colpevolezza incendia ogni fibra mentre l’errore della notte in cui per un capriccio le ha abbandonate torna a far capolino. La prima ed unica volta in cui le ha lasciate sole ma non l’ultima in cui le ha fatte soffrire.
Luna muove un passo, allunga il braccio nel tentativo di avvicinarsi ma arresta i movimenti davanti un ostacolo invisibile. Lo guarda addolorata, tentenna prima di abbassare gli occhi e tornare indietro. Il coraggio venuto meno sbriciola definitivamente il suo orgoglio di fratello, nel registro emotivo di Takashi qualcosa si rompe. Schiude le labbra ma il discorso di scuse non prende forma, i pensieri e le parole restano sbuffi di fuliggine nella mente e a quel punto non importa quanto sia stato forte e orgoglioso negli anni addietro, quanto abbia tentato di mantenere saldo il suo ruolo di pilastro portante della famiglia. Takashi piange nuovamente come un bambino quando sua madre corre ad abbracciarlo, si aggrappa con tutte le sue forze all’ancora di salvezza accorsa in suo aiuto nella stretta disordinata sul pavimento. Il veleno scivola via insieme alle lacrime e il naso gocciolante, il bruciore degli occhi aumenta insieme al rossore sulle guance strusciate contro la stoffa.

«Ho sbagliato così tanto con te… ma renderti forte penso sia stato l’errore peggiore» il sussurro arrendevole è ovattato al suo orecchio mentre la stretta si accentua e l’ossigeno si attenua, il petto si alza e si abbassa velocemente a ritmo con le carezze concentriche sulla schiena scheletrica e il bacio alla tempia «Takashi, smettila di soffrire da solo. Non lo sei, ti vogliamo ancora bene»

Luna è in un lampo al suo fianco quando la camicia di lino non soffoca adeguatamente i suoi singhiozzi disperati. Le piccole braccia avvinghiate spasmodicamente al suo busto smunto compiono un giro completo intrecciate a quelle di Mana precipitatasi al lato opposto. Lo stringono con forza le sue sorelline, gli sussurrano paroline smielate rifilate loro in tante altre occasioni inumidendo i vestiti a loro volta. Non è l’unico a cui manca la presenza di quel gigante buono tanto speciale. La vittima più volte destinata a sfoggiare controvoglia acconciature strampalate nel soggiorno della sua casa tra costanti burbere minacce di morte rivolte esclusivamente a lui e alle sue risate a malapena trattenute, seguite da arrendevoli risposte alle assurde domande delle bambine su cosa fosse più bello fra una mollettina a forma di coccinella e un elastico dall’orsetto di peluche. Il tutto fortemente contrastante con la classica uniforme nera indossata per la prossima riunione della gang.

«Mi manca…mi manca tanto»

I singhiozzi peggiorano, si tramutano in un’accozzaglia cacofonica sobbalzata nel petto. Il gonfiore accresce le palpebre violacee e ulteriori lacrime abbandonano le arrossate iridi lavanda unendosi alle altre nella cascata incontrollabile. È presto per rialzarsi e urlare al mondo il proprio grido di vita battagliero. La feroce forza di volontà assopita ancora arde dentro di lui, aspetta il momento propizio per tornare a bruciare. Solo se almeno una volta totalmente annientato hai ammirato il cielo puoi sperare rialzarti e continuare a lottare, tutti hanno bisogno di tempo per leccare le ferite, questo è il suo.
Perché non importa quanto tutti tentino di stargli vicino, di risollevarlo, l’insindacabile verità è una soltanto.

Draken è morto per sempre e con lui una parte di Takashi.
La sua metà.

 

 

Note finali

Io sono morta dentro insieme a Takashi.

   
 
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