Twin Dragons
Fanart credits: https://twitter.com/sanzukin/status/1483548939093688323
– Luglio/agosto
2008 –
La musica è cessata da
tempo nelle cuffie del lettore mp3 segregato nella scatola. Le note non aiutano
più a sovrastare gli echi delle voci lontane, esse ritornano, sobbarcano la
melodia, pungono laddove la carne è più debole. Takashi può dire di esserci
abituato, ma è una menzogna, sono passati solo tre giorni. Il suo è un
castello sabbioso in riva a una costa, pronto ad essere travolto dall’alta
marea.
«Whoaa che figo! Cos’è? Un drago?»
I microscopici aghi annidati sottopelle bruciano nel petto, le parole scatenano un’indesiderata
reazione a catena. La chiazza d’inchiostro si allarga sul foglio laddove il
pennarello è fermo da svariati secondi, aggiunge una macchia, una lacrima,
sotto la spirale delle fauci riprodotte involontariamente.
La sua fragile torre è crollata sotto il peso dell’onda.
«Vuoi
un po’ di karubi-don?...Sono Ken
Ryuguji, e tu?»
Lo stomaco brontola ma il
nodo alla gola è più forte, può ancora sentire il sapore del manzo precotto e
il riso scotto acquistato dall’orribile cuoco di zona. A posteriori, il karubi-don peggiore della vita. Lo stesso che
avrebbe terminato per voglia e non per fame altre centinaia di volte in quel
vicolo dismesso, fianco a fianco sul lurido ciglio strada illuminato dalla
fioca luce dei lampioni. Takashi chiude gli occhi e torna indietro nel
tempo. La patina lucida della vernice spruzzata per ore brilla sui
fantasiosi ghirigori, imbratta le manine serrate attorno alla porzione
terminata. L’odore chimico dei solventi penetra nelle narici insieme allo
sconsiderato senso di appagamento per le regole infrante. Draken è ancora lì, davanti
al muro, reclama il drago come suo facendo fede a clausole di un patto mai
stipulato. Lui non obietta, concede la proprietà di quell’insignificante
disegno non immaginandone le implicazioni future. Per lui è solo un murales
realizzato per sentirsi figo, privo di valore.
«Questo
disegno ora è mio!! In cambio di quel karubi-don!»
Il pennarello riempie lo
spazio della coda, le curve aggraziate delle zampe stilizzate, i cerchi
astratti esatta riproduzione in scala del suo primo grande capolavoro. Il
simbolo della profonda amicizia nata con Draken, il fratello mai avuto che
avrebbe seguito finanche in capo al mondo. La mano non ha bisogno di
indicazioni, si muove da sola in quel progetto.
Il nero scivola viscoso come pece tra i bordi tratteggiati, colma le mancanze
cartacee ma non incolla le crepe del cuore ridotto a brandelli. I più grandi gli
hanno insegnato che il tempo guarisce le ferite ma sono dei completi bugiardi,
si nascondono dietro menzogne fatte di belle parole abbellite da fronzoli
totalmente inconcludenti. Nessuno di loro spiega come combattere stoicamente il
dolore insito tra un granello di sabbia e l’altro. La clessidra sul mobile è
solo una portavoce ignorante, scandisce i vuoti ampliati fino a diventare
voragini. Il tempo non rimargina nulla, guarisci
se ti curi da solo.
«Noi
siamo i Twin Dragons della Toman!»
La mano vibra ad opera
conclusa, il drago splende sotto il neon della piccola lampada. Non importa
quanto duramente abbia convinto sé stesso, il sentore acido su per lo stomaco e
i crampi alla pancia screditano l’illusione. Takashi non è ancora pronto ad
ammirare quel disegno su qualcos’altro diverso dalla tempia di Draken. L’inanimata
bocca nera spalancata ha divorato la sua fonte di felicità, strappato il suo
cuore per darlo in pasto alle tenebre.
È una nave smarrita nella tempesta senza la luce del suo faro.
«Mitsuya…ti
sei già abituato al fatto che non sei più un membro della Toman?»
Il mal di testa picchia
forte in tutto l’encefalo, si espande alle tempie mentre le dita stringono le
estremità del capo accasciato ad un soffio dal legno consunto. La mancanza di
sonno chiede il suo risarcimento, i succhi gastrici la loro attenzione. Non
passa molto ed è nel bagno chinato sul water, il corpo sussultante e l’aria
insufficiente. La ceramica resta linda e pinta a seguito dei diversi suoni
strozzati, implacabile giudice, lo stomaco da giorni non ha più nulla da poter
rigettare. Nulla di cui liberarsi. In passato, quando ne aveva avuto
ancora occasione, avrebbe dovuto chiedere il nome di quella pessima tavola
calda per comprare quella pietanza schifosa un’ultima volta.
«Sei
una brava persona, essere un delinquente non fa per te»
L’acqua fresca schizza sui
capelli appiccicati al volto, le mani afferrano il bordo del lavandino anziché
l’asciugamano. I denti affondano sulle labbra incapaci di star ferme e
soffocare adeguatamente i singhiozzi mentre la razionalità cede il passo allo
sconforto. Le lacrime cadono incontrastate, asciugate frettolosamente dalle
maniche di una maglia presto zuppa. La lingua assapora controvoglia il fiume
salato scivolato sulla bocca, il pugno sollevato a mezz’aria incontra il vuoto
e non l’altra metà a cui è sempre stato destinato. Il petto sobbalza al singulto
più forte, distrugge ogni tentativo di arginare il pianto. La follia prende il
sopravvento e le forbici sono nelle sue mani, chiuse attorno alle punte dei
suoi capelli da una parte e dall’altra in un’irregolare composizione che non
trova compimento. Il coraggio è insufficiente, il riflesso del drago una
pessima idea. Le forbici rimbalzano sul pavimento su cui poco dopo si accascia,
oppresso dall’invisibile peso piombato sulla sua schiena. Le ginocchia crollano
sulle fredde piastrelle del bagno implorando il corpo di smettere di tremare ma
nessuna preghiera è sufficiente a farsi ascoltare. Le braccia imperterrite
continuano a vibrare mentre tappa le orecchie, graffia i lobi vuoti, cerca di
non sentire quello che i ricordi continuano implacabili a riversare. L’orecchino
nero dalla croce bianca, l’ultimo residuo della sua vita da criminale non è più
in suo possesso. Il piccolo cerchietto giace lontano, incastonato tra i rilievi
di una fredda lapide in un cimitero desolato, posto accanto al nome del ragazzo
nato e cresciuto da solo. Il suo modo per continuare a stargli vicino, per
farlo sentire parte della sua famiglia, quella di cui gli aveva fatto
capire l’importanza.
«Io
continuerò a seguire le orme di Mikey…però tu, devi assolutamente diventare uno
stilista!»
La consolazione di cui ha
bisogno non arriva mentre prende a calci il bordo della vasca, piegato dal
rimpianto di non aver insistito ulteriormente. Innumerevoli volte ha ricevuto
complimenti per la sua bravura nata più per necessità che svago, il sostegno
per portarla avanti e non rinunciare. Draken l’ha sottolineato fin dal
confezionamento delle prime divise della Toman, ha
fomentato quel sogno in ogni modo possibile.
Lo ha volutamente allontanato dal mondo delle gang per lasciargli immacolata
la reputazione.
Tuttavia, questo a Takashi non importa. Vuol sentire nuovamente la
familiare voce baritonale accanto a lui pronto a prenderlo in giro per quella
reazione esagerata mentre singhiozza e sbatte i pugni per terra. Necessita di
un sorriso sghembo oltre la porta bussata in piena notte per un invito a
scorrazzare in moto e combattere la noia quando il dolore peggiora e le urla
devono essere domate contro le ginocchia piegate al petto. Esige un ultimo
pomeriggio in sua compagnia, lontano dalla dolorosa consapevolezza che il suo
amico non crescerà più al suo fianco. Draken lo ha abbandonato. Ora soggiorna
sulla nuvola più bella accanto alla sua amata Emma.
Takashi è solo a fare i
conti con quell’ultimo desiderio dal sapore di una condanna.
…
.….
…
Il buio domina e
spadroneggia, condottiero di un invisibile armata nell’oscura caverna divenuta
la sua fissa dimora. Fredda, scarna, vuota e silenziosa; dentro e fuori, a
destra e sinistra, nel cuore e nella ragione. Il fuoco non riscalda, la luce
non sfavilla. Qualcuno l’ha spenta, il colpo di grazia all’impianto guasto
e sgangherato fin dall’infanzia.
Takashi ha freddo
nonostante sia piena estate. Le finestre sono chiuse, nessun guizzo d'aria può
passare ma ugualmente trema infreddolito nel gelo menzognero. La maglietta è
larga, scivola facilmente oltre la spalla. Nell’ultimo mese tutto è diventato
improvvisamente più grande: il pantalone, la camera, la mancanza. Il
freddo perpetua, scivola sulla pelle come un bel vestito accuratamente cucito
su misura, si insinua tra le scapole e lì resta. Infinito. Identico ogni
singolo giorno degli ultimi trenta.
Disegna,
strappa, getta via.
Taglia,
distruggi, squarcia.
Scarabocchia,
misura, impreca.
La routine ingorda dalle
gelide braccia lo accoglie come una vecchia amica, lo conduce nell’oscura morsa
fatta d’incessante impegno ed esasperazione. Lavoro, lavoro, lavoro.
Takashi non può fermarsi, non può pensare ad altro. La mina rovina il bozzetto,
l’ombra scura scava ulteriormente sotto i suoi occhi verso il sogno tramutatosi
ormai nella peggiore ossessione. La stanchezza logora i gesti, distrugge
l’ennesima inconcludente idea, sottolinea la barba incolta di giorni. Dormire.
Il corpo chiede di lasciarsi andare, ondeggia inascoltato all'ennesimo urlo
frustrato. Respirare. L’ossigeno fa male attraverso la gola, aspira il
profumo della giacca nera e bianca abbandonata sulla sedia, scordata lì
casualmente una sera come un’altra con la promessa mai mantenuta di passare a
riprenderla. Dimenticare. I ricordi pregano di scomparire, implorano il
murales nel vicolo di Shibuya di svanire sotto lo strato della prossima
pioggia. Piangere. Le insignificanti gocce d’acqua non oltrepassano più
la diga degli occhi e quelle già versate giacciono sulle guance. Lavarsi.
Il sale persiste nei solchi lasciati sulla pelle mentre i capelli ricadono
untuosi sulla nuca e le orecchie. Specchiarsi. Il riflesso fa paura,
smorto e irriconoscibile. Takashi non vuole più vederlo e pensare ai resti di
una metà solitaria non visibile che i suoi occhi riescono comunque a catturare
sotto lo strato d’argento.
Abbozza,
definisci, colora.
Le tonalità pastello
adornano l'ultimo vestito.
L’azzurro svolazza sulle balze della gonna, il giallo vivace e gioioso dei
girasoli illumina il corpetto. Brillante e sfavillate come la consistenza del
sole dimenticato, luminoso come il sorriso di Emma riserbato ad un incapiente e
stupido Draken. Pieno di vita sul foglio bianco, forte e indomabile come un
altro euforico e naturale sorriso in mezzo a uno splendido panorama immerso nel
bianco.
Le mani lo accartocciano
e scagliano lontano nell’oscurità della camera. In un gesto secco tutto finisce
per terra. Colori, forbici, metro, bottoni, stoffa, ritagli; tutto si confonde
sul pavimento pieno di altro ciarpame. Fuori è calata la notte ma dentro di
lui è buio perenne.
Takashi trema
incontrollato, la gola brucia come legna ardente mozzandogli il respiro. Il
grido rabbioso risuona fra le pareti, continua contro la scrivania presa a
calci, i disegni e gli schizzi calpestati, i brandelli di carta sfarfallanti.
Il desiderio di distruggere tutto graffia contro le mura del cuore, lede la superfice
petrosa con artigli affilati, ruggisce al pari di un drago braccato. I volti
della fotografia lo giudicano, i familiari occhi scuri impressi nella carta
lucida annientano la sua collera unilaterale lasciandolo annegare nel vuoto. È solo
in fondo al pozzo fatto di disperazione in cui si è inabissato. L’acqua lo ha
sommerso, pesante ed oscura, simile a petrolio. Ha smesso di resistere, può
solo rimpiangere le informi chiazze luminose riflesse sulla sommità increspata.
Questo non è lui, Takashi lo sa. Sua madre ferma oltre la tenda divisoria
della camera lo sa, le sue sorelline nascoste dietro di lei forse non lo
sanno più. Mana e Luna lo temono, hanno paura di lui, di quello che è diventato
o di quello che pensano sia sempre stato.
La bestia travestita d'agnello, l'uomo nero divenuto reale.
Tutto sarebbe stato più
semplice se fosse riuscito a sorridere ed elargire delle scuse, chiedere con
calma di lasciarlo tornare ai suoi disastrosi ed inconcludenti progetti. L’utopistica
idea di complessa applicazione. Takashi non può, non più, ha dimenticato
come dissimulare il suo dolore, piegare le labbra, contrarre le guance e
mettere in mostra i denti nella consueta barriera. Il sorriso. La
sua bella e lucente armatura sfoggiata contro le avversità della vita non ha
tenuto il passo con l’ultima stoccata. È andato in frantumi insieme al cuore
dilaniato dall’impotenza in lotta con la disperazione.
«Fratellone…»
Mana stringe la gonna
della mamma al basso mormorio di Luna, rifugge dal suo sguardo quando i loro
occhi si incontrano. Le piccole dita inconsciamente avvolgono il polso, quello
che Takashi ricorda bene di aver stretto troppo forte qualche ora prima sulla
sua maglietta strattonata con l’intento di farsi seguire. L’innocente preoccupazione
per l’ennesimo pranzo saltato brutalmente respinta da lui e dalla sua perdita
di autocontrollo. Un peso ingombrante si annida nel petto e la colpevolezza
incendia ogni fibra mentre l’errore della notte in cui per un capriccio le ha abbandonate
torna a far capolino. La prima ed unica volta in cui le ha lasciate sole ma non
l’ultima in cui le ha fatte soffrire.
Luna muove un passo, allunga il braccio nel tentativo di avvicinarsi ma arresta
i movimenti davanti un ostacolo invisibile. Lo guarda addolorata, tentenna
prima di abbassare gli occhi e tornare indietro. Il coraggio venuto meno
sbriciola definitivamente il suo orgoglio di fratello, nel registro emotivo di
Takashi qualcosa si rompe. Schiude le labbra ma il discorso di scuse non
prende forma, i pensieri e le parole restano sbuffi di fuliggine nella mente e
a quel punto non importa quanto sia stato forte e orgoglioso negli anni
addietro, quanto abbia tentato di mantenere saldo il suo ruolo di pilastro
portante della famiglia. Takashi piange nuovamente come un bambino quando sua
madre corre ad abbracciarlo, si aggrappa con tutte le sue forze all’ancora di
salvezza accorsa in suo aiuto nella stretta disordinata sul pavimento. Il
veleno scivola via insieme alle lacrime e il naso gocciolante, il bruciore
degli occhi aumenta insieme al rossore sulle guance strusciate contro la stoffa.
«Ho sbagliato così tanto
con te… ma renderti forte penso sia stato l’errore peggiore» il sussurro
arrendevole è ovattato al suo orecchio mentre la stretta si accentua e
l’ossigeno si attenua, il petto si alza e si abbassa velocemente a ritmo con le
carezze concentriche sulla schiena scheletrica e il bacio alla tempia «Takashi,
smettila di soffrire da solo. Non lo sei, ti vogliamo ancora bene»
Luna è in un lampo al suo
fianco quando la camicia di lino non soffoca adeguatamente i suoi singhiozzi
disperati. Le piccole braccia avvinghiate spasmodicamente al suo busto smunto
compiono un giro completo intrecciate a quelle di Mana precipitatasi al lato
opposto. Lo stringono con forza le sue sorelline, gli sussurrano paroline
smielate rifilate loro in tante altre occasioni inumidendo i vestiti a loro
volta. Non è l’unico a cui manca la presenza di quel gigante buono tanto speciale.
La vittima più volte destinata a sfoggiare controvoglia acconciature
strampalate nel soggiorno della sua casa tra costanti burbere minacce di morte rivolte
esclusivamente a lui e alle sue risate a malapena trattenute, seguite da arrendevoli
risposte alle assurde domande delle bambine su cosa fosse più bello fra una
mollettina a forma di coccinella e un elastico dall’orsetto di peluche. Il
tutto fortemente contrastante con la classica uniforme nera indossata per la
prossima riunione della gang.
«Mi manca…mi manca tanto»
I singhiozzi peggiorano,
si tramutano in un’accozzaglia cacofonica sobbalzata nel petto. Il gonfiore
accresce le palpebre violacee e ulteriori lacrime abbandonano le arrossate iridi
lavanda unendosi alle altre nella cascata incontrollabile. È presto per
rialzarsi e urlare al mondo il proprio grido di vita battagliero. La feroce forza
di volontà assopita ancora arde dentro di lui, aspetta il momento propizio per tornare
a bruciare. Solo se almeno una volta totalmente annientato hai ammirato il
cielo puoi sperare rialzarti e continuare a lottare, tutti hanno bisogno di tempo
per leccare le ferite, questo è il suo.
Perché non importa quanto tutti tentino di stargli vicino, di risollevarlo, l’insindacabile
verità è una soltanto.
Draken è morto per sempre
e con lui una parte di Takashi.
La sua metà.
Note finali
Io sono morta dentro
insieme a Takashi.