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Autore: Eneri_Mess    22/01/2022    2 recensioni
FINE (Prima parte)
Con il segreto che nasconde, Yokohama è una città dove non si possono dormire sonni tranquilli.
Dal Preludio:
Una mano di Dazai gli strinse il braccio, mentre le dita dell’altra si aggrapparono alla sua camicia sgualcita sul petto. Il nemico barcollò, ma si rimise in piedi, recuperando una delle proprie pistole.
«Chuuya...» ridacchiò Dazai, fuori luogo. «Di nuovo: ho mai sbagliato nel formulare un piano?»
«Smettila!» e la prima nota di supplica si mischiò alla richiesta. «Non sei lucido!»
Genere: Azione, Generale, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Chuuya Nakahara, Osamu Dazai, Sakunosuke Oda
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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Capitolo 16

The demons we are made of





 

Loving and fighting, accusing, denying
I can't imagine a world with you gone
The joy and the chaos, the demons we're made of
I'd be so lost if you left me alone

[Hold On - Chord Overstreet]







 

Più tardi devo parlarti.

Un messaggio di quattro parole ricevuto all’alba di quella giornata. 

«… gawa.»

Il punto che stava fissando sulla parete era indefinito, come gli orli dei propri pensieri. Jinko non aveva scritto un luogo o un orario e questo lo faceva incazzare. Non era il suo cane, non rispondeva ai suoi comandi. 

«Akutagawa

Strinse più forte il pugno dentro la tasca del cappotto, imbruttendo l’angolo di quadro che i suoi occhi si erano ritrovati a guardare. Ci proiettò gli insulti con cui avrebbe seppellito il Ragazzo Tigre appena ce lo avesse avuto davanti. 

«Ryuu!»

Questa volta Akutagawa elaborò il rumore di fondo per quello che era. Si voltò e si ritrovò a guardare Chuuya dall’alto in basso, seduto alla scrivania del suo ufficio. Gli ci volle però un secondo di più per abbassare la testa in segno di scuse, tempo che usò per riallacciarsi alla realtà e a quello che stava facendo. Aveva delle cartelline in mano. 

«I documenti sulle ultime incursioni e i danni di… Red Hood» spiegò, ritrovando il sapore astioso che quel nomignolo gli provocava. 

Chuuya dedicò ai fascicoli uno sguardo sottile e disgustato, tornando poi a mescolare l’aspirina effervescente nel bicchiere. Sentiva la pelle del viso tirargli fastidiosamente e si era svegliato di un colorito cadaverico. Almeno i capelli erano in ordine. 

Tuttavia, il ricordo della sera prima a ubriacarsi con lo Sgombro persisteva in sovraimpressione su ogni cosa su cui posava lo sguardo, vanificando gli sforzi per riprendersi. 

«Senti» iniziò il rosso, dopo aver ingollato l’aspirina come aveva fatto con tutto il vino che ora probabilmente gli sostituiva almeno la metà del sangue. «Questa situazione non piace a nessuno.» 

Akutagawa si irrigidì, troppo visibilmente per passare inosservato anche al Dirigente con i peggiori postumi da sbornia mai avuti prima. Non replicò e questo lo rese solo più vulnerabile. Chuuya sospirò, massaggiandosi la faccia. 

«Hai rotto le scatole per quattro anni con Dazai-san qui e Dazai-san lì. Cogli l’occasione e chiarisciti con lui.» 

«Non voglio chiarirmi» replicò secco Ryuunosuke prima di mordersi la lingua. 

Chuuya lo osservò con una pazienza lungi dall’essere reale. 

«Non intendevo verbalmente. Non so neanche se sei capace di mettere insieme un discorso di senso compiuto quando lui è nella stessa stanza con te.»

Akutagawa lo guardò malissimo, pronto a ribattere, incurante che fosse un superiore, ma l’altro agitò una mano per aria a minimizzare la tensione, per poi premere le dita su una tempia per una fitta. 

«Cristo» si lamentò, ignorando la rabbia che il Mastino della Mafia emanava. 

«Ti do un consiglio spassionato: non lasciarlo parlare, se non vuoi che ti sotterri con i tuoi stessi pensieri. Colpiscilo e basta, più forte che puoi. Se lo merita. Se lo meriterà sempre.»

Non fare come me. Guarda come mi ha ridotto, era sottointeso. 

Se Chuuya non avesse avuto un mal di testa a spaccargli il cranio, probabilmente si sarebbe accorto della tempesta che si stava annidando nello sguardo del più giovane. Era il conflitto tra il voler evitare Dazai come la peggiore pestilenza al mondo e il bisogno di confrontarsi con lui, ma senza stringere la traduzione delle emozioni che continuavano a dimenarsi dentro di lui. 

«Dio, ho bisogno di un caffè» riprese Chuuya, buttandosi completamente all’indietro sulla poltrona della scrivania. Fu la palla al balzo che Ryuunosuke stava aspettando per troncare e andarsene. 

«Ordinerò di farglielo portare in Sala Riunioni» disse pacato, formale, con un mezzo inchino. 

«Merda.»

Chuuya si ricordò in quel momento del meeting con gli altri Dirigenti. Cercò con lo sguardo le lancette dell’orologio e saltò in piedi a molla. 

«’Fanculo. Vedi, anche questo è colpa di quello stronzo di uno Sgombro. Si fotta lui, il suo amico e tutta questa storia del cazzo.»

Akutagawa gli aprì la porta dell’ufficio per permettergli di uscire come un uragano, in un turbinio di maniche di cappotto e cappello infilato al volo. Si prese anche del tempo per assicurarsi di aver richiuso bene l’uscio, tutto pur di non dare adito ad altre discussioni con al centro Dazai.  

«Il caffè lo voglio doppio! Niente zucchero!» 

Fu l’ultima cosa che urlò Nakahara dal fondo del corridoio, mentre Akutagawa camminava rigido verso la parte opposta, ignorandolo. La sua attenzione era di nuovo rivolta a Jinko e a quel messaggio inconcludente. 



 

* * *



 

Più che di una Riunione dei Dirigenti della Port Mafia, l’atmosfera restituiva i connotati di una rimpatriata in famiglia mal assortita. 

Chuuya incrociò brevemente lo sguardo di Verlaine, seduto di fianco a Kouyou, alla destra di Mori. Non si dissero nulla. Non si erano detti nulla neanche quando il più giovane aveva ripreso i sensi, ma erano state più le volte che Chuuya lo aveva avvistato di recente che tutti gli incontri negli ultimi sei anni. Averlo presente a una riunione era una rarità tanto quanto riavere Dazai nella Port Mafia. Una combinazione di casi, in quel momento, che stava mettendo alla prova i nervi di Chuuya. 

I sospesi tra di loro avevano vita propria come fantasmi; a volte gridavano nella notte e l’unico desiderio era soffocare chi li aveva creati, ma il tempo, le circostanze, uno strato di conscio solidificatosi come una crosta su una ferita, non rendevano l’azione perpetrabile. Se c’era un modo per perdonare l’uno all’altro le mani sporche delle vite di persone a loro care, nessuno dei due ci aveva mai provato. L’unica cosa che si erano concessi, nei silenzi di una routine che sottostava alle occasioni, era uno scambio di letture. 

Quei libri di poesie che lo Sgombro, la sera prima, aveva inserito nel suo elenco di stronzate, gli erano arrivati da Verlaine. Mai consegnati direttamente, sempre attraverso le mani - spesso lorde di sangue - di qualcuno dei suoi allievi, di Gin, o di Kyouka, come li mandasse a comprarli dopo qualche missione, in un velato monito a ricordare il filo spinato che recintava quella pace condizionata ai ruoli. 

Chuuya aveva fatto fatica solo la prima volta ad accettare uno di quei libri, ancora mezzo accartocciato nella sua libreria. Purtroppo c’erano leggi di naturale a lui ignote per cui non riusciva a odiarlo nella misura in cui desiderava farlo. Il lamento di un animale morente, straziato dalla vita, era qualcosa che conosceva sulla propria pelle, e quando finisci col farti infettare dall’intimità di una persona, le scale di valori crollano. 

Un colpetto di tosse da parte di Kouyou lo fece riemergere al presente. 

Anche con lei ci fu un incontro d’occhi, cadenzato da un So cosa avete combinato ieri sera, spolverato della malizia di chi è abituata ad affilare le parole come le lame. Prima che Chuuya potesse chiedere pietà, almeno per quel giorno, per il suo mal di testa, le pupille della sua Maestra scivolarono di lato, rammentandogli che i poli in quella stanza, quel giorno, erano due. Alla sinistra del rosso, al capotavola dirimpetto a Mori, sedeva annoiato Dazai. 

Dazai che sbadigliò tra una parola e l’altra, sottolineando quanto la situazione per lui fosse mortalmente soporifera, ma che per il resto sembrava lungi dall’essere qualcuno uscito da un locale alle quattro di notte con un coma etilico ad aleggiare sulla testa. 

«… tra i prossimi obiettivi è sicuro che ci saranno anche i bordelli principali di Ane-san: il Golden Pavillion, il Blue Fox e il Rouge.»

Nella cartina olografica proiettata al centro del tavolo si illuminarono tre puntini, a cui seguirono due linee tratteggiate che unirono diversi altri punti insieme, formando dei cerchi intorno al centro nero di Yokohama. Gli obiettivi già colpiti erano raffigurati da x su quelle che sembravano scie di sangue e non semplici forme geometriche. 

Seguendo la stima dei tratteggi, i cerchi che mancavano a Red Hood per completare la sua opera si contavano sulle dita di una mano. 

«I registri sono già stati messi al sicuro e sostituiti con dei falsi» replicò Kouyou, la voce carica dello sdegno per quella situazione. «Alla polizia militare sta piacendo ficcare il naso un po’ troppo.»

«Ma le mazzette ancora funzionano» la blandì Mori bonario, con un’espressione placida sul viso appoggiato alle mani intrecciate. 

«Da questi attacchi abbiamo avuto diverse seccature, ma il problema maggiore sono i rallentamenti negli affari o la loro quasi estinzione» sospirò costernato, massaggiandosi le palpebre, con una familiarità che riservava solo ai propri strettissimi. «Molti gruppi non si fidano più a stringere accordi con noi col timore di essere i prossimi nel mirino di Red Hood.»

«Ho qualche soluzione in merito» ribatté asciutto Dazai, sistemando alcuni fogli. «Prima, però, bisogna occuparsi degli ultimi luoghi che potrebbero essere colpiti.»

«Hai in mente una trappola?» chiese Kouyou, ma il giovane uomo scosse la testa. 

«Rischieremmo altre vite dei nostri agenti contro l’abilità di Red Hood.»

«Non voglio che le mie ragazze e i miei ragazzi siano in pericolo. Chiuderemo.»

Non ci fu spaziò per mezzi termini sul viso della Dirigente. Dazai sorrise sornione, fissandola compiaciuto della risposta. 

«Quasi» e nel dirlo, passò i fogli che aveva in mano agli altri presenti. 

«Perdere i clienti dei bordelli e riconquistarne la fiducia in seguito è più faticoso di fare affari per droga o per armi. Se ci fosse anche solo il barlume di possibilità che i segreti delle loro fantasie perverse vengano a galla, sarebbe un danno prima di immagine, e poi economico, inestimabile. Per questo penso che la cosa migliore sia ridurre al minimo il personale, tenere sgombre le vie di fuga e simulare degli incendi in caso di incursione.»

Il suo sguardo si abbassò sui documenti che aveva davanti, con una noncuranza tale da lasciar intendere che per lui quel problema era difficile quanto risolvere un cruciverba. 

«L’abilità di Red Hood lo rende temibile anche contro cinquanta uomini tutti insieme, ma se non c’è intenzione di attaccarlo, allora il gioco si semplifica ed è più facile sorprenderlo.»

«Simulare degli incendi?» riecheggiò Chuuya, cercando di ignorare la sgradevole sensazione che lo attraversava ogni volta che sulle labbra di Dazai spuntava quel soprannome. Aveva dato una veloce occhiata ai fogli con i dettagli, ma col cerchio alla testa faticava a mettere in fila le parole. 

«Giocare d’anticipo, fingendo di perdere di proposito?» si inserì Mori, rispecchiando il sorriso del Demone Prodigio

Dazai assentì, una bambola nelle emozioni sul viso. 

«Nel frattempo sposteremo le attività dei clienti fissi e importanti in altre strutture sicure al di fuori del raggio d’azione di Red Hood. Ci costerà nel fornire un trasferimento lussuoso e guardie del corpo aggiuntive, ma ci farà apparire in buona fede e sarà un modo per scusarci dell’inconveniente.»

«E per dimostrare che ci stiamo occupando del problema.» 

«Senza risultarne oppressi.»

Chuuya faticò nel sopprimere il brivido che lo percorse nel seguire il botta e risposta con cui il Boss e il più giovane Dirigente si erano appena completati le frasi a vicenda come ai vecchi tempi.

L’angolo della bocca di Mori era sollevato in una curva tagliente quanto la lama dei suoi bisturi. L’espressione di Dazai non era molto diversa. La discussione di qualche giorno prima, dove si erano sparati e feriti a vicenda, non sembrava essere mai avvenuta. 

«Ho cercato tra i vecchi clienti della Port Mafia chi ci doveva dei favori e avesse degli appartamenti con le condizioni che potessero soddisfare le nostre attuali esigenze. In una, massimo due giornate possono essere riallestiti e resi sicuri» riprese l’ex detective, sistemandosi contro lo schienale della poltrona come se avesse appena esaurito il proprio incarico e i dettagli fossero sciocchi convenevoli. 

«Nei bordelli è meglio che rimangano principalmente uomini con addestramento da guardia del corpo o di difesa. Se non vogliono morire in maniera stupida dovranno seguire l’ordine di non ingaggiare il nemico per nessuna ragione. Il loro unico scopo dovrà essere, se necessario, proteggere i nostri dipendenti e i nostri clienti occasionali.»

Dazai si grattò la testa nel ribadire per l’ennesima volta un concetto che era difficile spiegare a gente abituata prima alla violenza e poi a pensare. E non aveva davanti neanche i diretti interessati. 

«È fondamentale, per non avere altre vittime, che nessuno abbia l’impulso di colpire Red Hood. Dovranno agire per una protezione passiva totale. Se avvistato, la priorità sarà innescare l’allarme anti incendio e occuparsi di uscire il più rapidamente possibile» ridacchiò leggermente, senza alcun divertimento, ma con una sfumatura di cattiveria accentuata dalle luci rossi della sala. «Sarà facile come le evacuazioni scolastiche, anche se metà di loro non ha neanche idea di come sia fatta una scuola.»

«Perfetto» approvò Mori, voltandosi verso Kouyou. «Cosa ne pensi?»

Kouyou sorrise da dietro la manica alzata e si rifletté tutto nei suoi occhi, anche più penetranti e graffianti di quanto sarebbe apparsa la bella bocca delineata dal rossetto. 

«È bello riaverti qui, Dazai.»

«Chuuya-kun, hai qualcosa da esprimere o sei d’accordo?» lo incoraggiò Mori, con un divertimento malcelato che pizzicò in flagrante l’altro giovane Dirigente. 

«Certo. Sono d’accordo» masticò quest’ultimo, perforando il partner con un’occhiata a cui Dazai rimase imperturbabile. 

Il Boss si rivolse all’ultimo Dirigente, che lo liquidò con poco e con una noia che aveva esaurito l’interesse quasi subito, lasciando intendere di essersi pentito ad accordare la propria presenza. 

«C’est bon.»

«Ottimo. Direi che questo piano d’azione può partire immediatamente» sancì Mori, cliccando un pulsante sul tastierino davanti a sé. Pochi secondi e la porta della Sala Riunioni si aprì, permettendo a Hirotsu di entrare e ricevere i fogli con gli ordini. 

«Voglio un rapporto per stasera.» 

«Come desidera, Boss.»

Quando l’uscio si richiuse, Mori tornò a fissare famelico il proprio pupillo.

«Ora, Dazai-kun, avevi anche delle idee su come farci rimettere in affari con le altre organizzazioni?»



 

* * *



 

Un’ora più tardi, Chuuya sbatté a sedere Dazai sul divano del proprio ufficio. Piantò un piede sull’imbottitura della seduta al suo fianco e si piegò in avanti, guardandolo in cagnesco.

«Che cazzo di intenzioni hai!?»

Dazai proferì appena un lamento infastidito.

«Cos’erano tutti quei maledetti piani!?»

«Non urlare, ho un mal di testa atroce grazie alla tua idea di farmi bere fino allo schifo» brontolò l’ex detective, massaggiandosi le tempie con una smorfia. 

La riunione si era conclusa da neanche dieci minuti e Chuuya aveva trascinato lo Sgombro dove potevano discutere, lontano dalle orecchie degli altri Dirigenti. Far esplodere la tensione accumulata non lo aiutò a mitigare la voglia di colpirlo, ma si trattenne per il bene della conversazione. Avrebbe potuto sempre prenderlo a calci più tardi. 

«Rispondi» intimò a denti stretti. 

Lo sbuffo di Dazai gli arrivò sul viso, prima che questi reclinasse la testa sulla spalliera. 

«Come Dirigente della Port Mafia do il mio apporto all’organizzazione. Sto portando delle soluzioni semplici e indolori per arginare i danni di Red Hood.»

Il divano fu spinto indietro di qualche centimetro dalla pressione che Chuuya scaricò sul piede ancora puntellato sul bordo. Lo stridore non fu felice, ma accurato nel rispecchiare le sue minacce e il suo malumore.

«Oda» sibilò. «Chiamalo col suo cazzo di nome e non fingere che non ti interessi.»

Dazai gli concesse di nuovo la sua totale attenzione, ritirando su la testa. Tuttavia lo occhieggiò con un’espressione lungi dalla serietà. 

«Devo ancora abituarmi a sentirlo pronunciato da te» mormorò, accennando un sorrisetto e un’inflessione vagamente incuriosita. «Potresti chiamarlo anche tu Odasaku.»

Chuuya artigliò l’aria a monito e Dazai vocalizzò il sospiro di gola, roteando gli occhi per tutto quel dramma. 

«La Port Mafia non può fermare Odasaku e chi sta con lui senza rischiare gravi perdite o danni. Hai provato sulla pelle di cosa è capace e non sappiamo quanti piani alternativi possa avere in mente Dostoevskij in caso decidessimo di agire contro. Non vogliamo un altro Conflitto della Testa di Drago, no?»

Il suo sguardo scivolò di lato, senza guardare qualcosa di definito, soltanto le buie prospettive nella propria mente. 

«La soluzione migliore per tutti al momento è retrocedere e lasciare il campo libero. L’opinione pubblica potrà continuare a puntare il dito contro la Port Mafia, respirando il proprio polverone, mentre Odasaku avanzerà. Ma ci saranno meno vite sulla linea di fuoco.» 

Chuuya aveva davvero troppo mal di testa per capire cosa stesse dicendo. L’istinto gli stava urlando qualcosa, eppure non lo afferrava. Così preferì afferrare lo Sgombro per la camicia e riavvicinarlo al proprio viso. Quanto sarebbe facile picchiarlo, pensò, ma ingoiando il proprio stesso disgusto per quella opzione. 

«Stai facilitando l’arrivo di Oda qui» accusò, rammentando quanto poco mancasse al cerchio finale, a quel cappio di sangue ormai inevitabilmente stretto intorno alla gola della Port Mafia. C’era però qualcosa che lo stava disturbando molto di più di quell’inevitabile destino. 

«Mori-san non sembra preoccupato... che cazzo c’è sotto!?»

In passato, non era stato raro pensare che il Boss della Mafia e il Demone Prodigio potessero condividere un legame anche genetico, da padre e figlio. Un medico dalla dubbia moralità spuntato dal nulla e un quattordicenne che viveva nella sua ombra. A Chuuya quella possibilità era sempre risultata un dettaglio superfluo.

I legami familiari erano l’ultimo vincolo che poteva unirli in una vita dove le promesse avevano valore nella misura in cui l’opportunità vinceva sulla fragilità dell’idealismo. Ciò che era successo quattro anni prima con la Mimic era stato l’esame per quell’ipotesi strampalata, qualsiasi fossero stati i risvolti. 

Nonostante questo, Chuuya non poteva ignorare come la pasta che modellava Dazai contenesse gli stessi ingredienti con cui Mori piegava le proprie labbra per mettere in guardia il mondo, prima di muovere un pezzo sulla scacchiera. E questo era un tratto del suo partner che gli dava il voltastomaco.

Il suo sangue è nero

Si stava creando un divario, una spaccatura profonda, tra l'affermarlo a parole e il sentirlo sottopelle.

«… ti avevo accennato che abbiamo un accordo. Ora sei curioso?»

Chuuya irrigidì la mascella. Era inutile continuare a ignorare i serpenti che sibilavano ai suoi piedi. 

«Parla.»

Dazai ammorbidì le labbra, ma non ci si affacciò alcun sorriso. 

«Quando Odasaku arriverà qui, l’ordine sarà di catturarlo vivo. Dopo mi occuperò io di lui.»

Non ci volle un genio per fare due più due. 

«Hai preso il posto di Ane-san a capo della squadra torture?»

«Hai unito i puntini, Lumaca?»

Chuuya lo lasciò andare, tirandosi in piedi, senza mai smettere di guardarlo anche se la sua mente aveva iniziato a pensare a quei possibili scenari.

«Credi che riusciremo semplicemente a catturarlo?»

Dazai fece spallucce, risistemandosi comodo. 

«Sto pensando a un centinaio di alternative diverse. Allo stato attuale, Flawless è come un terzo occhio sempre vigile sul futuro. La sola intenzione di attaccarlo lo fa scattare, ma ci sono vari modi per aggirare quei dieci secondi senza per forza fargli crollare un palazzo addosso.»

I pugni stretti del rosso parlarono per come stesse prendendo l’intento di Dazai di gestire la questione, ma la sua concentrazione continuò a vacillare tra le ipotesi, come quella dell’ex detective nel vagliare i dati in loro possesso. 

«In più ora c’è da tenere conto di quell’arma a risonanza direzionale e la tuta di Odasaku, che non sappiamo fino a che punto è in grado di difenderlo dalle abilità. E di che tipo? Solo offensive e brutali come la tua?»

Dazai lo disse picchiettandosi il labbro inferiore con un dito, meditandoci sopra seriamente. 

«Io sono rimasto invisibile, anche quando l’ho attaccato, quindi presumo abbia una portata molto ravvicinata. O forse è un modello ancora incompleto? Ma anche fosse un esperimento, quante altre armi anti-abilità potrebbero avere dalla loro? Dovremmo scoprirne l’origine, prima di tutto…»

Non ricevendo neanche un verso frustrato in risposta, Dazai si accorse che il partner non lo stava calcolando. L’opportunità fu ghiotta. Si sporse in avanti, le dita sul mento in una posa spregiudicata e da volpe. 

«Potremmo giocare la carta della distrazione! Ricordo di un certo vestito rosso fuoco di Capodanno che ti stava così bene. Ane-san penserebbe al trucco e potremmo urlare che c’è una damigella in difficoltà. Ti viene così facile imitare le ragazze! Non sei d’accordo?»

«Cosa?» sfuggì a Chuuya, che si rese conto di aver perso metà del presunto ragionamento su Red Hood. Ciò che lo riportò coi piedi per terra fu lo sguardo furbo dello Sgombro che non la raccontava giusta sulla discussione che avevano cominciato. 

«Tu di sì» lo incoraggiò Dazai con troppa finta innocenza per farci cascare il partner. 

Chuuya si passò una mano sulla faccia. L’aspirina di quella mattina sembrava aver dato solo due pacche sulla schiena al suo malessere post sbronza. 

«Vai fuori di qui. Voglio dormire.»

Dazai sporse il labbro in protesta, spingendosi con fermezza contro lo schienale del divano. 

«Voglio restare qua! È così comodo! Io non ho un divano così comodo!» 

La lagna era l’ultima cosa che serviva alla sua emicrania. Chuuya afferrò Dazai per un braccio o lo trascinò in piedi e fino all’ingresso con poca fatica, anche a fronte della sua ritrosia. 

«Compratelo. Vai a importunare un interior designer e levati dai piedi.» 

«Ma-» 

La porta gli fu sbattuta sul naso dell’ex detective e vibrò sui cardini, chiudendo fisicamente e metaforicamente la discussione. 



 

* * *



 

Sono qui fuori

Atsushi lasciò cadere la spugna dei piatti per terra, adocchiando il mittente e l’anteprima dell’sms sullo schermo del cellulare. Gli sfuggì anche un EHH che represse in un palmo, salvo ricordarsi all’ultimo di avere i guanti sporchi di sapone. 

«Tutto bene?» domandò Kyouka con uno sbadiglio dal futon che aveva già steso. 

Atsushi tossichiò il sapore pungente del detersivo per poi vedere l’arrivo di un secondo messaggio. 

Muoviti o entro

Sapeva che non ci sarebbe stato un altro avvertimento. 

«S-Sì, tutto bene» farfugliò il Ragazzo Tigre, levandosi di fretta i guanti di gomma e guardandosi in giro per trovare una scusa valida. Il sacchetto nell’angolo fu la salvezza. 

«Vado a portare fuori la spazzatura e faccio un salto al konbini! Non abbiamo abbastanza zuppa di miso! Tu non aspettarmi alzata!» e afferrata l’immondizia si catapultò fuori.

Non dovette neanche fare un passo per trovarsi di fronte il Mastino della Port Mafia. 

«Che accidenti ci fai qui!?» sbottò Atsushi, buttando due occhiate laterali e moderando di colpo il tono per non farsi sentire dai vicini. Erano pur sempre nel complesso abitativo dell’Agenzia. 

L’occhiataccia risentita con cui Akutagawa lo ricambiò per Atsushi fu ingiustificata, e mettergli sotto al naso il cellulare con il suo messaggio di quella mattina - Più tardi devo parlarti - lo confuse solo di più. 

«Non hai specificato dove e quando» chiarì spazientito il mafioso. «Sei un incompetente.»

Atsushi incassò, arrossendo vagamente per l’imbarazzo. 

«Avevo la testa altrove, sono successe un po’ di cose.»

Akutagawa lo giudicò solo un istante, ma poi ripose il cellulare nella giacca. 

«Allora? Parla.»

«Non qui» sospirò Atsushi. Mollò il sacchetto della spazzatura a lato della porta e si frugò nelle tasche, contento di non averle svuotate. Dal mazzo di chiavi ne scelse una, anche se la contemplò con titubanza. 

«… vieni con me.»


L’appartamento di Dazai presentava l’ordine di una casa abbandonata. 

Atsushi aveva voluto dare una sistemata, nella speranza di una gradita sorpresa, ma la presenza di un po’ di polvere non rese giustizia a quel desiderio. Andò ad aprire la finestra per arieggiare un po’ e tenere le mani occupate. 

«Di cosa vuoi parlare, Jinko?» incalzò di nuovo Akutagawa sentendo il silenzio prolungarsi troppo. Non gli stava dando fastidio, ma se si fermava a pensare di stare da solo con il Ragazzo Tigre senza uno scopo sentiva qualcosa fargli pressione sulla nuca. Era il nemico. Ed era arrivato al punto di doverlo ripetere per ricordarselo. 

«Come sta Dazai-san?»

Akutagawa ebbe l’impulso, per l’ennesima volta, di scappare. Stava evitando quel problema, che portava il nome del suo Maestro, in modo troppo ostentato per riuscire a passare ancora inosservato. Atsushi però era distratto dal guardare fuori dalla finestra per accorgersi della ritrosia che emanava. 

«Non devi più preoccuparti di lui» replicò piatto, grattando un fondo che non gli stava lasciando altre possibilità di fuga. «È tornato a essere quel che era.»

Fu un’aggiunta illusoria. Le parole suonarono stonate alle sue stesse orecchie. Aveva visto Dazai così poco - una delle volte talmente ubriaco da non riconoscerlo - che era una frase priva di fondamento. 

Un uomo con l’identico nome e aspetto di Dazai Osamu siede lì nel posto occupato un tempo dal più giovane Dirigente della Port Mafia, ma non è lui.

«La mafia non è il suo posto…» mormorò Atsushi, dando voce a quel pensiero martellante a cui si aggrappava con convinzione, anche se non riusciva mai a infonderne nel tono quanto avrebbe voluto. 

«Credi a quello che ti fa stare meglio, Jinko, ma Dazai-san è nato per stare nella mafia.»

Era come sentire qualcun altro parlare. Akutagawa non stava esitando nell’esprimere quella che chiunque altro avrebbe etichettato come realtà dei fatti. Tuttavia, tentennava nella fermezza con cui credeva a quella voce che era la sua. 

Atsushi abbassò lo sguardo dal cielo per portarlo sul mafioso. Anche se Akutagawa sostenne con ostinazione la sua occhiata, non poté non notarci del tradimento che non seppe ricollocare. 

«Quindi sono davvero uno stupido a pensare che il passato non c’entri nulla con quello che una persona può diventare» sussurrò, in qualcosa che forse nell’intento sarebbe voluta essere un’accusa a ciò che gli era stato detto sulla Moby Dick, ma che uscì fuori come una sconfitta amara. 

Akutagawa si sentì punto sul vivo, ma sopportò in silenzio. Loro due non parlavano, tentavano di uccidersi. Le discussioni tra di loro erano accese e si esaurivano nel colpirsi a vicenda, quindi non capì perché gli stesse importando restare calmo e chiarirsi.

«Dazai-san non è una persona qualsiasi. Lui non ha niente a che vedere con quello che ti dissi» replicò alla fine, con una stizza di fondo fastidiosa per la banalità con cui stava cercando di rimediare.

Atsushi si prese qualche momento, ma alla fine non proseguì con l’argomento. Si mosse verso la libreria e fece scorrere lo sguardo sui libri finché non si fermò sull’ultimo, più voluminoso, e lo tirò fuori. 

«Mentre riordinavo la stanza l’ho fatto cadere per sbaglio» spiegò, aprendo la copertina. Mostrò all’altro ragazzo come le pagine fossero state incollate e ritagliate all’interno, creando un vano nascosto, una sorta di scatola. «Dazai-san lo aveva riempito di bollette scadute… e una scatoletta di granchio.» 

Akutagawa scelse di non esprimersi in merito, preferendo concentrarsi sul contenuto attuale che Atsushi riversò sul basso tavolino al centro della stanza. Ci piovvero sopra un paio di matite, una gomma consumata, una manciata di fotografie tenute da un elastico e alcuni fogli piegati in quattro. 

Il Ragazzo Tigre riprese a parlare, concentrato sul riordinare le varie cose. 

«Ranpo-san ha scoperto che c’è un’organizzazione di cinque persone dietro quello che sta succedendo.»

I fogli che spianò sulla superficie del tavolo avvalorarono le sue parole, tra schemi e nomi, fittizi e non. 

«Oda-san e Dostoevskij sono due… più altri tre individui. Uno si sta occupando di rubare delle chiavi, un altro procura informazioni e poi c’è il loro capo. Queste sono le persone che stanno agendo sul campo.»

«Jinko» lo fermò Akutagawa, aggrottando la fronte. «Perché mi stai dicendo tutto questo?»

Atsushi strinse un foglio, sgualcendolo. Con un respiro profondo si calmò. 

«Dazai-san mi ha detto che era un addio. Non posso chiamarlo per riferirgli quello che abbiamo scoperto.»

Quella che stava diventando di prepotenza una sensazione familiare - che non era pietà, ma era più il bisogno di tendere la mano verso quel Ragazzo Tigre sciocco e traboccante di speranze - si arrampicò dentro Akutagawa, dallo stomaco al petto, stringendo lì dove ci sarebbero dovuti essere solo i suoi polmoni marciti da un’infanzia troppo umida. 

«Pensi gli interessi? Credi che si metterà a fermare i cattivi?» 

Akutagawa era conscio di star calcando la mano, ma avrebbe voluto - di nuovo, per colpa di quell’annidarsi di sentimenti che pulsavano senza permesso nella sua cassa toracica - vedere Atsushi recidere il cordone ombelicale con Dazai. 

«Se riuscissimo a trovare un modo per… per ostacolarli nel loro piano, Dazai-san potrebbe aiutare Oda-san e salvarlo…»

«Vuoi impedire a Dazai-san di compromettersi» tradusse Akutagawa, privo di inflessione. «Prima che le sue mani si sporchino di nuovo di sangue e non possa più tornare da voi.» 

Atsushi lo guardò negli occhi con ostinazione.

«È così sbagliato volerlo?»

Fu uno sguardo pesante da reggere, ma il mafioso aveva cominciato da tempo a distinguere quei sentimenti che lo animavano e non più a trovarli nidi insensati di illusioni. Respirò pesantemente, stupendosi del proprio equilibrio tra pensieri e sensazioni. 

«Continui a voler salvare tutti.»

Neanche Akutagawa capì perché lo avesse detto, perché sentisse di appartenere a quell’insieme senza recinti netti. Pensò alla loro promessa e si diede dell’idiota. 

«Credi che Dazai-san voglia essere salvato?»

Credi che io voglia essere salvato?

«Oda-san una volta lo ha fatto. Ha salvato Dazai-san. Lo ha cambiato.»

Akutagawa scosse la testa con biasimo, cercando di non farsi entrare quelle stupidaggini in testa. 

«Non parlare di cose di cui non sai niente.»

«Devo provarci!» insistette Atsushi con un piccolo scatto, per poi tornare seduto per terra, guardando da un lato.    

«Voglio… provarci.» 

Provarci.

Era da quando si era imbattuto per la prima volta nel Ragazzo Tigre che Akutagawa assisteva a quei tentativi. Provare a salvare le persone per acquisire una ragione per vivere, un diritto a vivere. Provare a essere una persona migliore per avere il proprio posto nel mondo. Provare a proteggere ciò che gli era caro. 

Era un concetto che Akutagawa non poteva stringere. Nella malavita, i tentativi ti uccidevano o rimanevano cicatrici sul tuo corpo. Esisteva solo il riuscire, il portare a termine un obiettivo. O la morte, perché la vergogna era un fardello pesante. 

Jinko viveva di speranze e baratri di solitudine. Akutagawa conosceva solo questi ultimi, ma quella dannata luce nello sguardo del Ragazzo Tigre era diventata impossibile da non osservare anche per lui, sempre vissuto in un posto così oscuro da non avere ombre. 

«Quindi mi hai chiamato per farti da ambasciatore?» 

Atsushi cercò di non tradire il momento, esprimendosi solo in un assenso del capo. 

«Sai, Jinko…» cominciò il mafioso, sospirando con pazienza. Le sue mani scivolarono fuori dalle tasche del cappotto per permettergli di sedersi a terra. Sospettava sarebbe stata una cosa lunga. 

«Fai sembrare tutti i tuoi discorsi altruistici, ma è soltanto egoismo.»

La bocca di Atsushi aveva la replica sulla punta della lingua, ma qualcosa nella sua testa riuscì a fermarlo prima che rovinasse la tregua che si respirava nell’aria. Si limitò ad accigliarsi un poco. 

«Vorrei che questa storia finisse bene…» borbottò, tornando a guardare i fogli sul tavolino. 

Anche lo sguardo di Akutagawa si focalizzò su questi, un modo come un altro per non pensare alla situazione che si era creata. 

«C’è di mezzo quel Libro… non ci sarà mai pace finché qualcuno lo vorrà.»

Entrambi assorbirono la verità di quelle parole in un silenzio riflessivo quanto spinoso, ma che non li avrebbe portati a qualche risposta. 

«Allora… cosa devo riferire a Dazai-san delle vostre scoperte?»



 

Akutagawa non si accorse di essersi addormentato fino a quando non si svegliò intorpidito e dolorante. La posizione era scomoda, piegato sul tavolino con la testa su un braccio che non sentiva più. 

Non volle muoversi subito. Osservò l’oscurità, facendo mente locale e ricordando di trovarsi insieme a Jinko nell’appartamento che era stato del Dazai detective. Avevano passato delle ore a parlare di quello che l’Agenzia aveva scoperto e il tempo li aveva lasciati a loro stessi. 

Quando Akutagawa si alzò non lo fece per dovere o perché dovesse andarsene. Un verso soffocato, più simile a singhiozzo, attirò la sua attenzione. Alzò la testa di scatto, lo sguardo a perlustrare l’appartamento buio finché un secondo suono, di parole soffocate, gli diede la direzione da seguire. 

Non fu davvero sorpreso di trovare Atsushi nell’armadio. Memore di quanto era avvenuto una settimana prima, fece scorrere l’anta senza esitazioni. 

Tra il futon e gli altri oggetti che Dazai teneva stipati, il Ragazzo Tigre si era ritagliato una nicchia nell’angolo. La luce era poca per distinguere i dettagli, ma il mafioso delineò la sua figura con le ginocchia raccolte al petto e la fronte affondata su queste. A fargli aggrottare la fronte fu il mormorio, di cui fece fatica a cogliere il filo. 

«… Non è giusto… non le avevo rubate… le avevano gettate via…»  

«Jinko…» 

Atsushi si irrigidì e così fece di riflesso Akutagawa, quasi sul chi vive. Il suo inconscio era pronto a qualche rappresaglia, uno scatto improvviso, ma il Cane della Mafia si accorse invece di come l’altro ragazzo si stesse conficcando le unghie nelle gambe con forza.  

«Jinko!» 

Un lampione e una fetta di Luna rendevano la notte in quella stanza meno cieca e aiutarono Akutagawa a scrutare il viso del Ragazzo Tigre, a renderlo consapevole del rossore agli occhi e delle lacrime che aveva pianto. Lo sgomento non era qualcosa a cui era abituato e che sapeva gestire, così rimase a fissare quello sguardo offuscato che stava sovrapponendo realtà e incubo. 

«Non voglio provare di nuovo dolore» sussurrò flebile Atsushi. «Non avevo rubato le caramelle… stavo facendo quello che mi avevano chiesto… stavo pulendo e le ho solo trovate… quel bambino ha mentito… non è giusto… sono stato punito, ma non avevo fatto nulla… come potevo conficcarmi quel chiodo nel piede da solo…» 

Un singulto spezzato lo fece tremare. 

«Non voglio più provare quel dolore…»

Ryuunosuke restò in silenzio e immobile. La consapevolezza arrivò insieme a un vago senso di disgusto per come nella sua testa quelle parole stessero prendendo delle sembianze realistiche, delle rappresentazioni infuse di sentimenti non così lontani e che poteva sentire alla stregua di unghie sulla pelle. 

Erano i ricordi di Jinko sull’orfanotrofio, autentici e ancora così vividi da scivolare dentro Akutagawa, negli anfratti sigillati dal tempo e dalla volontà, andando a solleticare una vita passata che il mafioso non aveva mai negato, ma che non aveva alcuna intenzione di riportare a galla. 

Sentì il dolore del Ragazzo Tigre come qualcosa che, in forma diversa, era appartenuta anche a lui. Questo lo spinse ad abbassarsi, a inginocchiarsi davanti ad Atsushi. 

«Il Direttore del tuo orfanotrofio è morto» gli ricordò, con una fermezza nella voce che suonò di una nota consolatoria, quasi gentile, che Akutagawa non immaginava di possedere. «Non può più farti del male.»

Atsushi scosse la testa, stringendo gli occhi. 

«Lui è sempre con me! Non se ne va!»

Gli occhi di Akutagawa lo guardarono come avrebbero fatto le mani se lo avessero toccato, ossia senza irruenza o esasperazione. Con comprensione.  

«È un fantasma che scomparirà.»

Nella risata amara che risuonò nell’appartamento abbandonato Atsushi stava affogando qualsiasi speranza. 

«Perché dovrebbe scomparire?»

Il silenzio fu lungo, inevitabile. 

Akutagawa non si sentì in una posizione stabile per capire lui stesso quanto il suo cervello stesse elaborando. Si umettò le labbra. 

Dazai lo aveva cresciuto per affrontare il nemico, per non temere l’avversario, per eseguire ordini. Non c’era stata alcuna parte dedicata alla condivisione con gli altri. Al gestire sentimenti che si mischiavano nello spazio vitale di due persone. Nessuna lezione, solo i dubbi nell’osservare chi lo aveva sempre circondato e tentare di imparare da sé. Ma non era mai stato il primo dei suoi pensieri. Non era mai stata un’abilità che aveva ritenuto utile.  

Pensò a se stesso, e poi a tutto quello che aveva sempre trovato sbagliato in Jinko. 

«Quel fantasma scomparirà perché tu stai andando avanti. Non ti sei fermato. Vuoi salvare Dazai-san. Vuoi salvare la città.»

Prese fiato, artigliando l’aria per sfogare la difficoltà. Nessuno gli stava chiedendo di farlo. Che senso aveva? 

«Hai scelto cosa vuoi, Jinko, e il Direttore non è parte di questa scelta. Hai avuto un incubo, nulla di più. Sei…» 

Varrà anche per me? 

«Sei più forte di un ricordo doloroso.» 

Atsushi smise di tremare e infliggersi dolore. Non alzò la testa, non subito. Prese un respiro profondo per spingere giù, dentro di sé, quelle parole. Le ripeté, piano, ma non trovò la forza di alzare il viso, di rendere ancora più reale quello che era stato solo un suono confortevole nello spazio di qualche secondo. 

Fu una sensazione di protezione e invincibilità, già provata in un passato recente, a fargli cercare lo sguardo di Akutagawa. 

Rashoumon lo aveva appena avvolto. Non stretto per smuoverlo, per trascinarlo contro la propria volontà. Lo aveva vestito, come era accaduto nello scontro contro Ivan Gončarov. 

«Conosco meglio di chiunque altro di cosa sei capace, Jinko. Per questo voglio superarti.»

Non c’era rabbia, non c’era negatività, non c’era odio in quello che disse Akutagawa. Se quelle parole avessero avuto una forma, sarebbero state una mano tesa per rialzarsi. 

«So anche di cosa siamo capaci insieme» continuò il mafioso, osservando i lembi di stoffa della propria giacca calzare addosso a Jinko. Non si sentì vulnerabile senza ed era un’emozione a cui ancora non sapeva dare forma o nome. 

«Se questa città… se Dazai-san ne avrà bisogno, dovrai ricordarti di questo

Nel dirlo, Rashoumon si strinse addosso ad Atsushi. Non fu una morsa o un avvertimento. Era sicurezza. Una certezza fondata sull’esperienza, coronata da un’informe fiducia, ancora traballante nello stare in piedi, ma con un peso specifico reale. 

«Qualsiasi dolore del tuo passato tornerà, se gli permetterai di avere ragione. Non puoi cancellare i ricordi, ti troveranno sempre… ma questo non significa che non potrai essere diverso. Impara ad affrontarli per quello che sono: una parte di te, ma non il tuo presente.»

Mentre Akutagawa si alzava, Rashoumon tornò serpeggiando addosso a lui. Insieme alla sua abilità, qualcos’altro lo raggiunge, da dentro. Era il baluginare di una fiammella che rischiarò una consapevolezza nuova. 

Si ricordò perché fosse andato lì e si voltò per andare a raccogliere dal tavolino i fogli scarabocchiati da Atsushi. 

Li avrebbe portati a Dazai e sarebbero stati la scusa per affrontarlo, senza scappare. 

«Akutagawa.»

Atsushi era in piedi. Aveva un profilo completamente diverso rispetto alla persona che aveva cercato di sparire nell’antro dell’armadio. Le scie delle lacrime sul suo viso non erano più solchi di dolore, ma strade percorse e lasciate alle spalle. 

Si guardarono negli occhi e Ryuunosuke ci vide ancora ombre a dibattersi. Non si cambiava per delle parole, non subito. Tuttavia, la nebbia si era diradata. Trovare le proprie debolezze e scenderci a patti era un percorso personale. Lui - ammise tra sé - ne sapeva qualcosa, col senno di poi. 

«Akurtagawa, senti… se… se tu…»

«Smettila di tentennare.»

Atsushi si zittì, ma senza mai abbassare la testa. Prese un respiro con cui raddrizzò le spalle. 

«Se tu fossi cresciuto in quell’orfanotrofio, ecco… non avresti permesso agli altri bambini di metterti sotto…»

Non avresti permesso agli altri di farti del male

Akutagawa non si aspettò quel discorso, ma lo accolse con un sorrisetto raro, perspicace, un lascito inconsapevole di Dazai. 

«Certo che non glielo avrei permesso, Jinko. Avrebbero avuto paura di me.» 

Atsushi fece un passo in avanti. 

Un passo che in un altro momento della loro esistenza, fuori da quella stanza, lo avrebbe portato a sanguinare dolorosamente, a chiedersi cosa ci fosse che non andasse in quel ragazzo poco più grande, allievo anche lui della persona che lo aveva salvato, ma così sbagliato

Eppure, in quel nero che lo vestiva ma non sembrava più ammantarlo di ferocia e morte, Atsushi stava vedendo gli altri colori che appartenevano ad Akutagawa. 

«Se tu fossi cresciuto in quell’orfanotrofio…» ripeté, con una malinconia che non aveva prove per esistere, ma che gli scivolò fuori dalle labbra con il sollievo di una verità confortante. 

«Tu non mi avresti mai denunciato al Direttore.»

Tu… forse… mi avresti visto in maniera diversa, a modo tuo. 

L’imbarazzo lo colse nell’assenza di risposte e nel realizzare appieno cosa avesse ipotizzato. Qualcosa che non sarebbe mai potuto essere, ma che aveva sentito il bisogno di rendere reale almeno a parole. Si sentì sciocco, ma anche bene. 

Nello spazio di qualche minuto aveva immaginato come sarebbe stato un passato in cui lui e Akutagawa crescevano insieme. Sebbene fosse pura fantasia, non riuscì a vedere lui e il mafioso come amici, ma neanche come nemici, e questo fu il punto di conforto.

Il rumore della porta che si apriva lo riportò alla realtà. Akutagawa non era più davanti a lui e ne vide solo le spalle, incorniciate dall’uscio. 

«Ah-» si lasciò sfuggire il Ragazzo Tigre, la mente in blackout. «Io… intendevo…»

«Lo so.»

Nello stomaco, e poi un po’ più su nel petto, Atsushi avvertì una pressione diversa, che non fece male, ma che lo fece stringere in se stesso per la scarica calda che lo attraversò. 

Guardami… 

Ma Akutagawa si infilò le mani in tasca, avviandosi. 

«Vai a riposarti, Jinko.» 


Senza che Atsushi se ne accorgesse, l’ultimo sguardo, prima di scendere le scalette e andarsene, il mafioso lo scambiò con Kyouka. 

La ragazza era in tenuta da notte, addossata al muro di fianco alla porta dell’appartamento da cui era appena uscito. Il pugnale nella sua mano brillò minaccioso, ma da parte dell’ex assassina non ci fu nessuna intenzione di ingaggiare battaglia. 

Non si dissero nulla. Non ce ne fu bisogno e non vollero attirare l'attenzione del Ragazzo Tigre. Però l’espressione di Kyouka lo raggiunse a parole ugualmente. 

I tuoi occhi non sono più quelli di quando ti ho conosciuto. 

Un tempo l’avrebbe uccisa soltanto per quella insinuazione non verbale. 

Quella notte, Akutagawa fece i conti col significato intrinseco.



 

To be continued



 

Grazie delle letture che regalate a questa storia *love*
Fatemi sapere cosa ne pensate! 

Continuo a ripetere ai quattro venti che siamo vicini al finale. Si può dire che dal prossimo capitolo entriamo nelle fasi finali? Non saprei, ma inizia una serie di parti che amo moltissimo e mi sta prendendo bene scrivere. 

Non scrivo altro qui che ho appena avuto una piccola crisi emotiva/esistenziale delle mie e sono a corto di pensieri, quindi vi ricordo soltanto che ho aperto un IG dedicato a questa storia (e le collaterali, e BSD in generale): NoLongerFlawless.fanfic

Al presto! 

Nene


Prossimo capitolo → When our worlds collide (parte 1) 

 
   
 
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