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Autore: moganoix    23/01/2022    0 recensioni
Felix, Changbin, Chan:
Un minuto semidio, un alchimista perso nelle nuvole, un soldato senza macchia e senza paura (forse).
A causa di un'arcana profezia, al secondo tocca uccidere il primo sotto la supervisione del terzo, ma non tutto andrà per il verso giusto...
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["Affinché nostra Madre Terra fiorisca
Felicità, ogni cent'anni, appassisca."]
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!!Chanlix/Changlix!!
Genere: Angst, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti, Triangolo
Capitoli:
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“… e narrasi che di letitia promessa
Lo scarno mondo così nutrirsi debba
Uomini saldaron col ciel tal scommessa:
Affinché nostra Madre Terra fiorisca
Felicità, ogni cent’anni, appassisca.”
 
Yongbok chiuse gli occhi, inspirò l’acre odore del fumo e delle scintille che zampillavano allegre nella tiepida aria notturna di metà settembre, lasciando che ogni stilla di eccitazione scivolasse via in un brivido di misteriosa spensieratezza. Era sempre così, quella storia lo metteva ogni volta di ottimo umore, specialmente se veniva dopo ad una grassoccia cena di compleanno, il ventesimo per l’esattezza, e se era solennemente declamata da quell’abile lingua lunga di suo cugino Jisung, il cantastorie più scapestrato, e coinvolgente (anche se Yongbok non l’avrebbe mai davvero ammesso), del villaggio. Falò, carne arrostita al fuoco, sidro ed un tantino di birra e Jisung riusciva magicamente a trasportare tutti i suoi ascoltatori in un articolatissimo sogno di musica, feste, banchetti, duelli all’ultimo sangue, intrighi amorosi e tradimenti. Memoria alla mano, il trovatore apprendeva e cantava le gesta di migliaia di eroi, ma ogni anno, a metà settembre, Yongbok lo pregava di narrargli per l’ennesima volta la sua favola preferita, quella che, in lunghe rime di scarso valore poetico, abbozzava rudemente, con criptica fantasia, la storia della loro Nazione. Jisung, come al solito, ogni volta che Yongbok avanzava con occhi dolci la sua richiesta, storceva il naso. Conosceva la potenza delle parole, il potere persuasivo dei versi e la diafana musicalità di quelle rime tanto grezze, ma annuiva sempre alle richieste del cugino, scacciando il senso di inquietudine che le tonanti frasi del poema gli incutevano ogni volta che gli si incastravano in gola. Sorrideva a Yongbok mentre intonava perfettamente ogni nota, ogni accento, recitava per il coetaneo nel modo in cui questo desiderava. Vent’anni erano lo sbocciare della giovinezza e Yongbok lavorava sempre sodo con i suoi genitori, gli doveva un piccolo regalo di compleanno, così quella sera, sotto gli occhi giganteschi ed adoranti del festeggiato, mise ancora più passione nei lunghi recitativi. Yongbok lo guardava affascinato, totalmente perso nelle liriche dell’altro, fino a quelle ultime, ambigue, sillabe: “Affinché nostra Madre Terra fiorisca/Felicità, ogni cent’anni, appassisca”.
Ecco, quello era il momento in cui Yongbok più si emozionava. Il pathos racchiuso nei tristi versi conclusivi lo mandava letteralmente in estasi, quel morboso appassisca, che Jisung soleva sussurrare dopo aver pomposamente declamato il precedente fiorisca, lo trafiggeva in pieno petto e provocava in lui una lenta catarsi dell’anima. Chiudeva gli occhi, li riapriva, sbatteva le lunghe ciglia e pettinava indietro con la mano diafana il ciuffo di lunghi capelli corvini. Solo alla fine, dopo aver preso un profondo respiro, volgeva lo sguardo a Jisung e, appena quest’ultimo posava a terra il suo amato liuto, scattava verso di lui per abbracciarlo stretto. Condividevano infine una fetta di crostata di albipesche e terminavano la serata chiacchierando e festeggiando con la loro famiglia.
Tutti gli anni Yongbok viveva la stessa festa di compleanno, tutti gli anni l’epopea della Nazione gli veniva personalmente narrata solo per suo capriccio personale (sua madre e suo padre preferivano le liriche d’amore, gli zii e gli altri cugini i racconti di guerra, e ognuno sarebbe stato più contento nell’ascoltare storie di grandi eroi vissuti al di là del tempo), tutti gli anni la crostata era la medesima, dolce frolla ricoperta della succosa polpa dei frutti del loro giardino. Tutti gli anni Yongbok poteva definirsi felice, soprattutto da quando, due anni prima, suo padre gli aveva dato il permesso di ubriacarsi (non che prima non lo avesse mai fatto con Jisung ed i suoi amici). Ma i vent’anni erano speciali, era l’età a cui la gente del suo paese era solita sposarsi, quella in cui si iniziava davvero a lasciare il nido per affacciarsi, soli, alla crudele visione del mondo, ed il giovane sentiva già che a lui sarebbe stato riservato un destino particolare. Tutta la regione (tutta la Nazione stessa, a quanto dicevano quei pochi mercanti e viaggiatori che facevano tappa al villaggio) era relegata da secoli ad una condizione di povertà perenne. La terra bastava a stento a far sopravvivere i pochi individui che la abitavano, la ricchezza dei contadini e degli allevatori stava tutta nelle fiabe che Jisung recitava e nella loro umile, spontanea, fresca, innocente felicità.
Yongbok era convinto che la felicità fosse l’apprendere la gratitudine, e non poté affatto essere grato ai genitori quando, molto più tardi, dopo che ormai tutti gli zii ed i loro figli si erano ritirati nelle loro abitazioni a festeggiamenti terminati, lo presero entrambi per mano e lo scortarono, gli occhi vacui e colmi di timore recondito, su retro della casa, verso la stalla dei cavalli, dove, ritti, impalati, si ergevano come statue due alte figure incappucciate. La fiaccola che una delle due magre silhouette stringeva tra le mani era appena sufficiente per permettere al giovane festeggiato, ancora brillo a causa del forte sidro che Jisung si era premurato di fargli assaggiare, di distinguere il ricco porpora delle tuniche e lo stemma reale finemente ricamato sul petto e sulla bisaccia che entrambi portavano a tracolla. Yongbok aggrottò le sopracciglia, borbottò un lamento, ma prima che potesse effettivamente provare a domandare che cosa stesse succedendo e a chi appartenessero quelle lunghe sagome dall’aura gelida, una voce profonda, dal timbro seghettato, scalfì, ovattata, le sue orecchie.
“È lui?”
Percepì i suoi genitori annuire, per poi sentire la stessa voce puntualizzare indispettita: “È ubriaco.”
“Era la sua ultima serata con noi, meritava di divertirsi un po’…” mentre la voce del padre, solitamente possente e cavernosa come la propria, si faceva timida come lo squittio di un topolino in gabbia nel misero tentativo di difenderlo (difenderlo da chi, esattamente? Da che cosa?), Yongbok concentrò quel poco di lucidità che gli rimaneva sui movimenti freddi e misurati dei due sinistri individui. Non erano soldati, troppo magri per esserlo, e da sotto i leggeri mantelli non traspariva alcun strano bozzo riconducibile ad un’eventuale armatura. Non erano armati, al massimo potevano nascondere un coltello legato alla cintola, le loro mani, che si spostavano abili e sottili, con movimenti frettolosi, nell’aria tiepida di settembre, non avrebbero potuto reggere nient’altro.
Le loro mani. Yongbok notò che le mani di entrambi erano adombrate da un motivo scuro, linee dalla trama studiata che si accavallavano dal polso fino alla punta delle dita, lasciando il palmo immacolato. Ci mise un momento a comprendere che non erano semplici giochi di luce, ma tatuaggi scavati con il fuoco nella loro pelle. Comprese allora che quelle figure non erano soldati, ma adepti dell’Ordine regale dei Filosofi, studiosi semileggendari che il ragazzo aveva solo visto in un paio di occasioni durante le ricorrenze nazionali più importanti. Certo non ne aveva mai visti due da così vicino, ma di sicuro aveva sentito narrare le loro gesta migliaia di volte, proprio quella sera Jisung aveva intonato di fronte a lui e a tutta la famiglia l’epopea mistica di cui gli antichi predecessori e fondatori dell’Ordine erano protagonisti indiscussi.
“Siete davvero certi che la profezia riconduca a lui?” la madre di Yongbok, incerta, si era fatta avanti con occhi già ricolmi di lacrime.
“Cento anni fa i miei antenati hanno fallito nella loro missione, ma questa volta siamo convinti di essere giunti alla soluzione dell’enigma. Le carte, le stelle, tutti i calcoli ci portano a pensare che sia Lee Yongbok il nuovo erede della profezia.”
Parlavano come se Yongbok non fosse lì ad ascoltarli, come se non potesse, in alcun caso, dire la sua, e così, il cervello in pappa per il sidro di Jisung ed il cuore a mille a causa della situazione orrendamente straniante, finì per starsene zitto davvero, tutte le domande, i perché e le lamentele penosamente conficcate in gola. Senza che se ne rendesse conto, il padre lo aiutò a montare su un cavallo già perfettamente sellato e preparato per quello che pareva sarebbe stato un lungo viaggio. Yongbok tremava di terrore, salì sul cavallo e questo, immediatamente, cercò di scrollarselo di dosso, impaurito dal modo febbrile in cui le sue membra, completamente fuori controllo, si agitavano. Senza essersene reso conto, aveva spalancato gli occhi e cominciato a fissare i genitori con sguardo sbigottito, la pupilla fuori dalle orbite, i capelli sciatti e tremuli mentre le mani tentavano in tutti i modi di mettere ordine in quel groviglio di sudore e nodi, la bocca appena spalancata in un sordo lamento disperato. Il ragazzo si chiese che cosa esattamente dovesse fare, forse avrebbe dovuto seguire i due Filosofi, forse non sarebbe più tornato, forse i suoi genitori lo stavano vendendo come schiavo, forse avrebbe dovuto dire loro addio. Avrebbe dovuto ringraziarli, non a tutti capitava di fare da schiavo ad un egregio e sicuramente rinomato Filosofo e la paga sarebbe stata migliore di quella che si poteva aspettare.
Sua madre gli prese una mano e gliela spostò tremolando sulle briglie, raccolse poi il suo viso con le proprie mani e lo guardò negli occhi: “Io e papà siamo fieri di te, Yongbokie… Segui questi signori e ci farai tutti felici…”
Yongbok voleva urlare e, appena i due incappucciati cominciarono a fare pressione affinché si muovesse e li seguisse senza fare storie, scoppiò in un pianto amaro. Il cavallo scalciava, senza alcuna torcia o lanterna era difficile seguire il sentiero che li avrebbe portati (o, almeno, il ragazzo così credeva) fino al palazzo reale. Cavalcava a capo basso, la schiena curva sulla sella sgualcita che minacciava di slacciarsi ad ogni capriccio del cavallo, domandandosi in quale guaio i genitori lo avessero davvero cacciato. Erano pur sempre sua madre e suo padre, volevano il suo bene, ma quell’ultimo addio pronunciato dalla donna più importante della sua vita lo aveva scosso. Forse anche su di lei il sidro aveva avuto strani effetti, forse avrebbe davvero dovuto ringraziarla per quello sguardo carico di religiosa, estranea, venerazione con cui aveva lentamente snocciolato le ultime sillabe.
Il giovane ebbe l’accortezza di rimanere in silenzio per tutto il resto del viaggio, che, a differenza di quanto potesse aspettarsi, durò meno del previsto. Yongbok temette il peggio quando vide le due figure infilarsi con viscida sicurezza nei meandri della foresta che circondava la parte nord del villaggio. Aveva sempre posseduto un pessimo orientamento e, nonostante le lamentele dei genitori, non aveva mai avuto abbastanza tempo (o voglia) di esplorare quei magici boschi. Si diceva che fossero abitati da creature particolari, driadi, elfi, piccoli e dispettosi troll, ma Yongbok, stretto al proprio cavallo, non riusciva che ad udire il greve pulsare del proprio cuore battere a ritmo con gli ululati dei lupi e gli agghiaccianti ringhi degli orsi e dei cinghiali. Pietrificato dalla paura, quasi mandò il proprio animale a sbattere contro gli stalloni dei due Filosofi, i quali, nel mentre, si erano fermati nel bel mezzo di una piccola radura di forma circolare. Lo fecero scivolare giù dal suo destriero e con solenne calma, entrambe le mani di uno di essi sulle spalle del ragazzo, lo accompagnarono al centro dello spiazzo erboso. Gli concessero di sedersi, le gambe di Yongbok non lo avrebbero retto un minuto di più. Tutta la mitezza della brezza notturna del leggero settembre pareva essersi dileguata per lasciare spazio alle sghignazzanti raffiche di vento tipiche di novembre inoltrato. Il giovane non sapeva se stesse tremando per il freddo o lo sgomento.
“Tra poco arriveranno gli altri, Lee Yongbok.”
La voce che poche ore prima aveva conversato con sua madre tornò a graffiare, pungente, le orecchie dell’interpellato, e solo a quel punto, allora, quest’ultimo riuscì timorosamente a farsi avanti: “I miei genitori mi hanno venduto? Volete uccidermi?”
“C’era davvero il caso di portarlo via da casa così?” la voce del secondo Filosofo, che fino a quel momento era rimasto chiuso in religioso silenzio, si intromise con impertinenza.
Il primo, che dal tono con cui parlava sembrava più anziano, rispose solo al confratello, ignorando completamente i dubbi di Yongbok: “Gli ordini sono ordini. Tra poco il saggio arriverà e potremo cominciare il rito.”
Il solo tono con cui il vecchio sillabò quell’ultima parola fece rabbrividire Yongbok, il quale, completamente inerme, non poté fare altro che raccogliere le ginocchia al petto indifeso e fissare con occhi giganteschi le due ampie figure che incombevano su di lui. Prese il viso tra le mani, per poi nasconderlo tra le ginocchia e tirare indietro i capelli; si chiese se fosse meglio credere ai suoi genitori e prestarsi a quel fantomatico “rito” (iniziava a sospettare che non fossero davvero Filosofi reali, ma folli ciarlatani appartenenti ad un qualche tipo di setta demoniaca) o scappare, correre il più possibile e finire inevitabilmente massacrato da un branco di lupi. Prima che però potesse anche solamente provare ad allontanarsi, avvertì un frettoloso scalpitare di zoccoli farsi sempre più vicino. In una manciata di secondi, altri due Filosofi raggiunsero la radura. Uno di essi, notò Yongbok, portava un mantello più finemente decorato rispetto agli altri e sulle sue mani aveva inciso un tatuaggio decisamente più particolareggiato, segno del fatto che, probabilmente, apparteneva ad un rango più alto dei suoi compagni. Yongbok lo squadrò da capo a piedi, si strinse nel proprio consunto mantello e tentò di nascondersi sotto il cappuccio ormai troppo piccolo per lui. Il tessuto era talmente vecchio da aver assorbito, negli anni, l’accogliente sentore dell’erba fresca dei campi che i genitori coltivavano, del grano appena raccolto, delle mele mature, era pregno di tutto ciò che lui considerava casa, per questo si mise ad urlare quando i tre Filosofi lo circondarono e glielo strapparono di dosso insieme alla fine casacca che ancora odorava di arrosto e sidro, lasciandolo a petto nudo. Gridava pietà, prometteva di sottomettersi ai loro voleri, si sarebbe volentieri piegato a fare lo schiavo a corte se lo avessero desiderato, avrebbe pulito le stalle dei cavalli e le luride stanze dei cortigiani di basso grado, avrebbe lucidato scarpe e lavato biancheria con le sue stesse innocenti lacrime se solo glielo avessero chiesto, tutto pur di non morire ammazzato nel bel mezzo della foresta. Nessuno pareva stare ad ascoltarlo, due dei tre individui lo presero per le braccia e lo fecero malamente mettere in ginocchio, il terzo era in piedi dietro di lui pronto ad afferrarlo nel caso fosse riuscito, in qualche assurdo modo, a liberarsi. Il quarto, il capo, che fino a quel momento era rimasto leggermente in disparte, si avvicinò allora al ragazzo, che continuava invano ad urlare ed a dimenarsi, per studiarlo. Yongbok poteva sentire fissi, pesanti come macigni, gli occhi dell’uomo gravare sulle proprie spalle, scivolare tra le pieghe della sua pelle, fare il solletico ai pori e violare la carne sotto di essi, scavando fino spolpare le ossa da ogni singola fibra che costituiva il suo corpo. Si sentiva nudo sotto quello sguardo, nudo, solo, ad affogare nel proprio pianto con la sola forza delle proprie inutili grida. Le bestie coprivano ogni rumore, al villaggio lo avrebbero scambiato per un cinghiale ferito, umile preda di un lupo temerario. Dopo qualche secondo smise anche di dibattere le braccia, la morsa dei due sconosciuti su di esse era troppo stretta, quasi gli mancava il fiato e le mani, per la scarsa circolazione, già gli formicolavano. Domandò – pregò – che lo riportassero indietro, se avevano dato del denaro in cambio ai genitori li avrebbe ripagati in qualche modo, ed era già pronto a vedere l’alta sagoma che gli stava di fronte estrarre il crudele coltello da sotto l’ampia tunica, puntargliela alla gola e premere proprio lì dove la carne era soffice ed ancora, per poco, innocente.
Invece, con immenso sollievo e sbalordimento del giovane, a pochi passi da lui, il Filosofo si tolse il cappuccio e si chinò di fronte a lui, prostrandosi ai suoi piedi. A terra, gli occhi chiusi, la barba grigia ora visibile che sfiorava il terreno e la bocca che sporgeva verso le ginocchia del giovane per poterle baciare, tutto ciò a cui Yongbok sembrava di assistere era lo strisciare di un verme. Rimase in silenzio, pietrificato, per un paio di secondi, poi, reagendo d’istinto, sollevò di scatto una gamba e scaraventò indietro il vecchio sotto lo sguardo esterrefatto degli altri. I due Filosofi che lo tenevano per le braccia fecero per scaraventarlo a terra e bloccarlo, bocconi, con le mani dietro la schiena, ma la voce roca del vecchio si levò rantolante prima che potessero muovere un solo muscolo: “Lasciatelo!”
L’anziano Capo si prese qualche interminabile secondo per recuperare fiato e riprendersi dal lancinante dolore che Yongbok gli aveva procurato (il ragazzo pensò di avergli colpito il naso o, almeno, un occhio), per poi riavvicinarsi al suo prigioniero ed inchinarsi nuovamente di fronte a lui, questa volta con meno fervore ed una sorta di teso timore reverenziale nei modi: “Mi perdoni, mio signore…”
Yongbok, appena comprese che quell’epiteto era diretto a lui, non poté fare altro che adirarsi maggiormente. Puntò il peso sulle ginocchia e, tentando di darsi abbastanza slancio con esse, cercò di gettarsi in avanti per sputare contro il Filosofo.
“È uno scherzo?! Riportatemi indietro! Riportatemi a casa adesso!” il tono frustrato di Yongbok faceva a pugni con l’aria minacciosa che avrebbe tanto voluto sfoggiare. Sentiva agitarsi in lui sentimenti del tutto contrastanti, aveva allo stesso tempo voglia di urlare, di piangere, di fare a botte con quegli esseri tanto forti e tanto gracili e di rannicchiarsi a terra e supplicare che, piuttosto, lo lasciassero lì ad aspettare di essere divorato dai lupi dinnanzi agli occhi divertiti degli elfi e delle driadi. Avrebbe fatto a pugni anche con questi ultimi, poi li avrebbe pregati di riportarlo indietro dagli stessi genitori che lo avevano venduto. Mangiava lacrime su lacrime, e se prima non riusciva ad esprimersi a causa della paura, ora la voce non ne voleva sapere di uscire se non sotto forma di straziante grido d’aiuto. I due Filosofi che lo tenevano per le braccia furono costretti a rafforzare la presa, il terzo gli stringeva le mani e i piedi da dietro la schiena. Ancora una volta, nessuno dei tre gli rispose. Il quarto, il Capo, per la terza volta raggiunse il ragazzo e, senza alcun ulteriore preambolo, appoggiò con sacro ardore una mano sul petto del ragazzo, proprio sopra il cuore, e tre dita sulla fronte, premendo forte sia sul primo che sulla seconda. Recitò a labbra strette qualche parola in un astruso dialetto, fine e secco alle orecchie del giovane, abituato agli aspri e burberi accenti delle compagne, e per un istante parve non accadere nulla. Un’atmosfera irreale regnava sovrana e schiacciava, lugubre, i cuori dei cinque uomini; solo in quell’unico, e ultimo, momento di pace Yongbok si rese conto di non riuscire più avvertire né gli alti ululati degli animali della foresta, né il frinire dei grilli tardivi, lo scroscio rassicurante del venticello tra le foglie o le risate dei folletti nascosti tra i fiori selvatici ed i cespugli di more. Non riusciva a percepire nemmeno i propri pensieri. Ogni persona, ogni essere, ogni albero, o filo d’erba, o roccia inanimata, iniziava a liquefarsi, le sue stesse mani si sgretolavano ed ogni singolo atomo danzava libero nel gelido respiro della notte, le dita dei piedi prendevano ad allungarsi sempre di più, ecco che scavavano nel terreno e salutavano i lombrichi indaffarati, i vermiciattoli luridi di argilla, bussavano alle case delle talpe assonate e davano la buonanotte ai loro intrepidi cuccioli, solleticavano i fragili embrioni della terra, incoraggiavano ogni singolo filo d’erba a crescere alto, rigoglioso, a nutrirsi degli ultimi, avvolgenti, generosi raggi di sole di fine estate. Metteva radici, i piedi erano ormai solido, genuino legno di faggio, ed il profumo delle due floreali caviglie attirava a sé gli insetti riuniti in religioso silenzio al cospetto del loro Dio, pregando il loro Signore. Si infilavano tra le sue gambe, reclamavano il calore del dio e ne pretendevano la carne soffice e materna. Le anche sottili erano fonte inesauribile di latte, ed ecco che giunsero ad abbeverarsi lucertole, lepri, piccoli cerbiatti sotto lo sguardo fiero dei genitori che osservavano a distanza intessendo le lodi della nuova divinità, piangendo di gioia e di orgoglio. I loro figli sarebbero cresciuti sani, avevano tastato e bevuto latte dal grembo di madre natura. Gli uccelli accorsero per ultimi e contemplarono il petto del giovane, soffice grano appena raccolto del colore delle stelle. Yongbok li vedeva planare verso di sé, bucargli i polmoni con il becco affilato e sfrecciare via, soddisfatti, verso la luce. Volse allora anche lui gli occhi alla luce e volò via con i colibrì, con i gabbiani, con i pettirossi, con le aquile possenti, si immerse nel sole, lasciò che gli bruciasse la pelle, i capelli, gli occhi, le labbra soffici, e lo ringraziò con la devozione che il figlio deve al Padre. Prese il viso del sole tra le mani e si sporse a baciarlo, e lo baciò con così tanta passione che finì per deglutirlo, e rise allora alla sensazione di solletico che i raggi del Padre gli provocavano trastullando giocosamente le pareti del suo stomaco. Venne allora la luna, gli chiese dove fosse il Padre e Yongbok si fuse con lei. Le baciò il capo, sollevò il suo corpo minuto e lo ingoiò a sua volta. Si sporse quindi verso il cielo, scoppiò in lacrime perché aveva dovuto uccidere sia il padre che la madre, ma poi sorrise ed iniziò a salire gli ampi gradini che lo avrebbero condotto verso di esso. Toccò il cielo, pensò che fosse freddo, disse allora alle stelle di splendere di più e scese di nuovo in terra, dove tutti gli animali del mondo aspettavano la sua benedizione. Uno ad uno li benedisse ed entrò in piena comunione con ognuno di essi, baciò le formiche, baciò i bruchi, baciò gli elefanti, e vide allora, in fondo all’interminabile fila, le driadi, gli elfi, i troll, i folletti, le fate, i satiri inchinarsi di fronte a lui. Corse loro incontrò e li abbracciò, ricordando allora di quando loro erano lì ad assistere, impotenti, mentre lui aveva avuto paura. Pianse di gioia, il mondo bevve avido dalle sue lacrime e visse, e per cento anni almeno avrebbe riccamente vissuto. Yongbok si chiese di che cosa potesse aver avuto paura. Era morto, era rinato, mancava un’ultima cosa, ci avrebbe pensato il vecchio.
Scorse infine gli uomini, ultimo dilemma della natura, miglior creazione e peggior incubo del mondo, e andò loro incontro con fare deciso, sciogliendosi in un mare di amore per avvolgerli meglio nel proprio abbraccio fraterno. Yongbok era vecchio quanto lo era la terra a cui dava la vita, eppure bruciava di passione per quegli esseri che fino a poco prima appartenevano alla sua stesse specie. Si inchinò di fronte all’anziano Filosofo e lo guardò con occhi raggianti.
“Di che cosa avevi paura?” domandò il grinzoso Capo.
“Non lo so,” rise Yongbok, mentre delicati cespugli di erica facevano a gara a chi per primo sarebbe riuscito ad infilarsi nel ripiego caldo delle ginocchia del ragazzo “mi dispiace, questa storia ormai l’ho sentita così tante volte”
Affinché nostra Madre Terra fiorisca/Felicità, ogni cent’anni, appassisca” il vecchio sorrise bonariamente, citando i versi della profezia “Lee Yongbok, tu rinasci oggi per il bene del mondo, per il bene dell’uomo, per il bene della Nazione e di coloro che ami ed ha sempre amato. Lee Yongbok, oggi rinasci vecchio come il mondo, rinasci con la consapevolezza che regnerai cent’anni e saranno cent’anni di prosperità. Rinasci per noi,” si mise allora in ginocchio “rinasci come dio buono e giusto e noi ti venereremo.”
Yongbok raccolse in sé l’animo degli alberi, sentì il legno sui denti, l’erba bucargli le viscere, i versi degli animali iniziarono subito dopo a riverberargli in gola. Con voce bassa, distorta, ma calda ed avvolgente, il viso ed i capelli che spendevano dell’etereo colore della luce, comandò: “Dimmi chi sono.”
Il vecchio deglutì e con il viso rigato da lacrime di gioia, in un palpito sospirò: “Lee Yongbok oggi rinasci vecchio come il mondo, e rinasci con il nome di Fonte della Felicità.”
Il ragazzo aprì gli occhi – da quando li aveva chiusi? –, respirò a fondo polvere di stelle, e all’improvviso era di nuovo immerso del buio della notte autunnale, circondato dai quattro Filosofi. Si prese un momento per respirare, volse gli occhi al cielo e salutò sua Madre, la luna, e solo al quel punto, con un misuratissimo ed elegante inchino, si presentò ai quattro uomini sbalorditi.
“Io sono la Fonte della Felicità,” sorrise, e solo grazie a quel tenero sorriso la notte parve d’improvviso risplendere. Un ronzio di delicate, molli, lucciole avvolse la radura. I capelli biondi del giovane risplendettero e, come al suo solito, non riuscì a resistere alla tentazione di pettinarsi indietro quel ciuffo che mai aveva intenzione di stare come avrebbe dovuto.
“Io… Io sono Felix.”
   
 
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