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Autore: Giughi10    24/01/2022    0 recensioni
A volte il destino ci porta su percorsi che sono diversi da ciò che ci aspetteremmo. Quando ci si accorge di ciò si può provare a ribellarsi oppure vedere dove conduce la strada.
Le avvertenze devono essere lette come avvisi preventivi: alcune parti le ho scritte partendo da eventi personali che mi avevano turbata, quindi potrebbero risultare spiacevoli per altre persone.
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Atena, Nuovo Personaggio, OC (Original Character)
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
- Questa storia fa parte della serie 'De Bello Sancto'
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Il sole scaldava la sabbia dell’arena. Gli fermò i riccioli con una fascia, prima di posargli le mani sulle spalle e massaggiarle. Il suo sguardo non si era discostato per un secondo dall’avversario, mentre stringeva fasce di cuoio attorno alle nocche. “Sei troppo teso.” “Il tuo futuro non dipende da questo incontro.” “Non dire sciocchezze.” “Non dirne tu.” Strinse le dita attorno alle sue spalle, prima di lasciarlo. Il ragazzo avanzò nell’arena, i piedi nudi che affondavano leggermente nello strato di sabbia. Entrò nel cerchio che era stato tracciato a terra e si pose in guardia. L’avversario lo superava di tutta la testa, i muscoli gonfi pronti a colpire. Sul viso aveva stampato un ghigno. Alzò le braccia per farsi scudo e sentì la violenza del primo pugno disperdersi lungo il corpo. La zona colpita pulsava dolorosamente. Il sorriso sulla faccia dell’avversario si allargò, lo sguardo di un lupo che ha messo la preda con le spalle al muro. Si voltò con esasperata lentezza e squadrò il ragazzo, che era indietreggiato, la guardia ancora alta. Il secondo pugno gli sfiorò l’orecchio, mentre si chinava per evitarlo. Scattò oltre il suo braccio e gli diede una gomitata al fianco, sufficiente a permettergli di ristabilire le distanze. Scansò un altro colpo, approfittando per dargli un montante sotto il mento: la testa scattò all’indietro. Si allontanò nuovamente, portandosi all’estremità dell’arena. L’uomo si ricompose, asciugandosi un rivoletto di sangue dovuto alla lingua morsa. Osservò il sangue per qualche secondo, prima di rivolgersi verso di lui: il suo sguardo era rosso d’ira. Si scagliò con tutta la sua forza contro il ragazzo. Quest’ultimo evitò la carica all’ultimo istante e lo colpì tra le scapole, sfruttando lo slancio della corsa per farlo cadere a terra, oltre la linea. Grida esultanti per la vittoria gli riempirono le orecchie mentre riprendeva fiato. Sentiva le gambe tremare leggermente e le braccia intorpidite dove era stato colpito. Frastornato dal chiasso e dall’adrenalina che stava velocemente scemando, oltrepassò il suo avversario e si diresse verso l’entrata dell’arena. Un’ondata di energia iraconda gli fece irrigidire i muscoli. Prima che potesse reagire sentì il rumore tremendo di artigli che tagliavano la carne. “Che stai facendo?” “Quel bastardo ha vinto con l’inganno! Sa di non poter vincere altrimenti, lo sappiamo tutti!” “Ha vinto perché hai perso la calma: sfruttare le debolezze del proprio avversario dimostra solo che sa usare la testa, a differenza tua.” “Lo difendi solo perché è tuo fratello! In fondo è per questo che è potuto rimanere per tutto questo tempo!” Il suono di un forte ceffone fece calare il silenzio. “Tu invece credi di essere degno di diventare Cavaliere? Ti fai travolgere dalla rabbia e attacchi alle spalle un tuo compagno. Rifletti sui tuoi errori, prima di guardare gli altri.” Si allontanò, non volendo sentire nient’altro.

Osservava il panorama dallo strapiombo su cui si arrampicava la Decima Casa. Sotto di sé poteva vedere il rigoglioso bosco che circondava la montagna e che man mano lasciava spazio all’arena, alle terme, al villaggio. Era seduto nell’ombra della grande statua di un capricorno che lasciava cadere nel vuoto una cascata d’acqua sorgiva. Alle pendici del monte si era formato un ruscello, che attraversava i terreni del Grande Tempio e si gettava nel mare turchese. “Eccoti.” Si sedette accanto a lui, il braccio in grembo. Osservò il sangue che si era coagulato attorno a quattro lunghi tagli: “Mi dispiace.” “Non è colpa tua.” Bagnò un telo nell’acqua e iniziò a pulirgli la ferita. “Però Baar ha ragione: non dovrei rimanere.” “Tu rimani.” Non alzò lo sguardo: non ne aveva bisogno per immaginare l’espressione inflessibile sul suo volto. “Non riesco ad usare il Cosmo, a cosa potrei essere utile?” “Sei utile.” Indicò con un cenno del capo l’arco che giaceva poco lontano, sull’erba rada. Sospirò, continuando a medicarlo. “Potresti diventare il Cavaliere del Sagittario, dovresti solo credere in te stesso e allenarti di più.” Si morse l’interno del labbro e strinse una benda attorno alla ferita. Si alzò e prese arco e faretra, sotto lo sguardo d’onice del fratello. “Alberto, ti voglio bene.” Annuì piano e iniziò a scendere la scalinata di marmo. Trattenne le lacrime mentre un doloroso groppo gli ostruiva la gola, rendendogli difficile respirare. Chiuse gli occhi, cercando di calmarsi. Sentì dei passi che si dirigevano verso di lui. Riconobbe la chioma bionda di Matilde, che le ricadeva raccolta in una treccia sulla larga spalla. Teneva per mano una bambina di a malapena dieci anni. “Stai bene, Alberto?” La sua voce bassa e materna rimbombava appena a causa della maschera che le celava il volto. “Sì, Matilde. Dimmi, chi è la nostra ospite?” Gli occhi inespressivi intagliati nell’ulivo lo fissarono, come se non potesse credere che avesse fatto quella domanda. “M-Mi chiamo Sofia.” Si strinse alla mano grande e callosa della donna, fissandosi i sandali. Si piegò sulle gambe, portandosi alla sua altezza: “È uno splendido nome. Io mi chiamo Alberto.” Estrasse dal tascapane una pagnottina con datteri e uvetta e gliela porse. Incrociò i suoi occhi grigi e li vide rossi e gonfi. Le sorrise dolcemente e la piccola strinse il pane tra le dita. “Se avessi bisogno di me, mi troverai sotto quella statua, proprio dove inizia la cascata. Benvenuta, Sofia.” “G-Grazie.” Matilde le carezzò il palmo e riprese a salire le scale con lei. Le osservò allontanarsi, prima di continuare la propria strada.

La notte era rinfrescata dalla brezza notturna e il cielo era completamente terso, facendo risplendere le stelle nella loro luce più pura. Si voltò sentendo i timidi passi dietro di sé. Sorrise e picchiettò piano con la mano accanto a sé. Sofia lo raggiunse, nascondendo il viso nelle ginocchia. Le carezzò la schiena. “Mi odiano.” “Non potrebbero mai.” “Invece possono! Non sono chi loro vogliono che sia…” Si rannicchiò, soffocando un singhiozzo. Le avvolse il braccio attorno alle spalle e la avvicinò a sé. “Ero seduta su questo gigantesco trono, lo scettro che mi avevano dato era così pesante e loro si sono inginocchiati davanti a me… a lei. Poi hanno visto che ero io e sono cambiati. Non lo hanno fatto vedere ma l’ho sentito! Era una sensazione terribile!” Le lacrime le scivolavano sulle guance: gliele asciugò in una carezza: “Posso capire, piccola.” Schiaffeggiò via la sua mano: “No che non puoi! Non senti il loro Cosmo!” La sua voce si era fatta stridula, ma si ruppe quando incrociò i suoi occhi: “Purtroppo, piccola, non serve il Cosmo per sapere quando deludi qualcuno.” Abbassò lo sguardo, il viso bruciante di vergogna: “Scusami…” “Tranquilla, gufetta, non è successo niente.” Le porse un fazzoletto, che lei usò per asciugarsi la pelle. “Non so se riuscirò ad essere lei.” “Non devi essere lei: devi essere te stessa. Impareranno ad amarti per ciò che sei.” “E se non lo facessero?” “Sarebbero degli idioti.” Gli occhi sgranati gli strapparono una risatina: “Sofia, dacci un po’ di tempo: quando le persone si creano un’immagine è difficile cambiarla. Sii un po’ paziente con noi.” “E tutto andrà bene?” “E tutto andrà bene.” “Promesso?” “Promesso.” Lo abbracciò: la strinse tra le braccia, cullandola piano.

“Non ti concentri abbastanza.” “Non ci riesco se tu mi distrai.” “Credi che in battaglia potrai avere tutto il silenzio che vuoi?” “No, ma…” “E allora concentrati.” “Posso allenarmi da solo.” “Ti ho lasciato allenarti da solo e guarda i risultati che hai ottenuto.” “Forse non posso riuscirci e basta.” “Se pensi di non farcela è ovvio che non ci riuscirai.” “Sono anni che provo!” Il braccio del fratello scattò verso l’alto, come se stesse fendendo l’aria con una lama: il masso davanti a loro si ruppe in due metà. “Io non dubito di poterlo fare.” “Tu non hai mai dovuto mettere in dubbio niente!” “Che ne sai?” La rabbia nella sua voce gli provocò un brivido lungo la schiena. Fissò la roccia, senza il coraggio di muoversi mentre Santiago lo scrutava. “Per oggi basta così.” Si voltò con un movimento secco e si allontanò, i passi pesanti. Ne guardò la schiena, dritta e rigida come una tavola. Si guardò le mani, sfiorando i calli per le ore passate ad esercitarsi con l’arco. Sospirò e riprese la posizione. Chiuse gli occhi, cercando all’interno del proprio corpo quell’energia che univa i suoi compagni. Immaginò il percorso che dal cuore pompava quella forza distruttrice in ogni muscolo, per poi accumularsi nelle mani. La scarica di dolore gli mozzò il fiato, il sangue caldo che macchiava le fasce di lana. Il suo corpo non nascondeva nessuna forza donata dalle stelle, era solo un ammasso di carne! Continuò comunque a colpire la pietra: ad ogni pugno le accuse del fratello gli rimbombavano nelle orecchie.

“Sapevo di trovarti qui.” Non distolse lo sguardo dalla piazza, che risplendeva di luci: la musica arrivava fin lassù. “Dovresti festeggiare con loro.” “Andrea sa che sono fiera di lui.” La ragazza prese dolcemente le mani di Alberto. “Mi dispiace non renderti altrettanto fiera, gufetta.” “Non dire sciocchezze: sono fiera di ciascuno di voi.” Gli baciò delicatamente le fasciature. “Ricordo quando mi arrivavi a malapena alla cintura. Sei cresciuta tanto, eh?” “E tu invece sei invecchiato.” La guardò lievemente indispettito: “Ho ventiquattro anni!” “Esatto.” Liberò le mani e le solleticò i fianchi: Sofia prese a ridere e dimenarsi. “Rimangiati ciò che hai detto o non smetterò!” “Mai!” Nel tentativo di liberarsi inciampò nella veste bianca: si aggrappò a lui e lo trascinò nell’erba. Quando vide la sua espressione preoccupata le scappò un risolino: “Alberto, non sono fatta di ceramica.” L’uomo si sciolse in un sorriso intenerito. Gli allontanò qualche ricciolo ribelle dal viso e alzò lo sguardo al cielo. “Sono già cinque anni che ci conosciamo. Il tempo sembra volato.” Annuì, mentre osservava le dita di Sofia che tracciavano distrattamente le costellazioni. “Allora perché sento di essere sempre lo stesso?” “In parte lo sei.” “Intendi l’incapace di sentire il Cosmo?” Lo guardò, le iridi grigie splendenti come argento lucido: “No, Alberto. Intendo l’uomo gentile che non si è dimenticato chi sono.” “Però sono anche il ragazzo che non potrà mai essere come i suoi compagni.” “Ti vogliono bene, Alberto.” “Non dubito di questo. Ma non sono come loro, non lo sarò mai. Non mi peserebbe se potessi dimenticarmene. Però è impossibile farlo, se mio fratello è il Cavaliere del Capricorno, un potente Cavaliere d’Oro.” Gli prese la mano e la strinse. “È tanto chiedere che anche io…” La voce gli tremò, chiuse gli occhi: “Mi accontenterei, lo giuro, anche solo di poterlo percepire. Anche una volta sola…” Si sedette sulle ginocchia, chinandosi poi sull’altro. I suoi capelli neri li avvolsero come una cortina di seta. Posò la fronte contro la sua, prendendo il suo viso tra le dita. Alberto sentì una sensazione di calore spargersi come miele dorato lungo il corpo dai punti in cui Sofia lo toccava. Chiuse gli occhi e si lasciò immergere in quel mare luminoso e caldo. Ne bevve a grandi sorsate, come un assetato nel deserto. Quando quella marea si allontanò, lacrime di commozione gli scivolavano copiose sulla pelle. Sfiorò la mano di Sofia con la propria. “Grazie.” Lei tornò a stendersi al suo fianco, le dita intrecciate alle sue. Ascoltarono la musica ovattata. “Devo chiederti un favore.” “Tutto quello che desideri, gufetta.” “Ieri sera nei miei sogni ho incontrato il Cosmo di Sagittario. Vorrei che tu lo trovassi e addestrassi.” “Io?” “Sei il miglior arciere che conosca. E so che guarderai oltre.” Le sorrise: “Sai di più su di lui?” “Si chiama Nadir, e ha due occhi neri come il carbone e i capelli sono più ricci e arruffati dei tuoi. Vive a Tunisi, rubando tra i suq. Ciò che mi ha colpita è stato il suo sguardo: chiedeva disperatamente di avere una famiglia. Gli ho promesso che avrebbe avuto il miglior fratello maggiore del mondo.” Ridacchiò vedendolo arrossire. Inclinò il capo quando l’imbarazzo divenne tensione: “Santiago non sarà felice della notizia.” “Non devi per forza dirglielo.” “Quindi dovrei partire lasciandolo senza spiegazioni?” “Credo sia la cosa migliore che tu possa fare. Deve accettare il fatto che tu devi trovare la tua strada.” “Ma lui è mio fratello.” “Dimmi, Alberto: tu stai bene con Santiago?” Si morse il labbro: “No, non sto bene.” Gli sorrise rassicurante, gli occhi scintillanti come perle: “A volte dobbiamo allontanarci dalla nostra famiglia, non è per forza un cambiamento negativo.” Alberto volse lo sguardo alle stelle: “Non so se ce la faccio.” “La scelta è tua: fa’ ciò che vuoi. Ascolta…” Si alzò e gli tese le mani: le prese e si sollevò a propria volta. Lei gli prese gentilmente il polso e gli fece indicare un punto nel mare, lucido e scuro come vino: si intravedeva una striscia di terra tra le onde, ricoperta dal bosco. “Su quell’isola un tempo gli aspiranti Cavalieri venivano sottoposti alla prova finale per ottenere l’Armatura. Potreste stare lì e, qualsiasi cosa succeda, sarete abbastanza vicini da poter tornare in un lampo.” Sorrise vedendo lo sguardo commosso dell’altro. “Partirò domani mattina: meglio non perdere tempo.” “Allora ti lascio riposare. Buonanotte Alberto.” Le strinse la mano: “Sofia, potresti chiedere scusa a Santiago da parte mia?” “No, non c’è nulla di cui scusarsi. Ma gli dirò che stai bene.” Annuì piano: “Grazie, Sofia. Buonanotte.”

L’aurora apriva le sue avvolgenti ali rosate nel cielo, portando con sé i primi lucenti raggi del sole. Le onde lambivano pigramente la spiaggia. Si avvicinò e seguì il suo sguardo: all’orizzonte si vedeva la montagna, avvolta in una nebbiolina rada. Nel grigiore della roccia le Case risplendevano come perle e la gigantesca statua della dea Athena sembrava la punta affilata di una lancia. “Te la senti di andare?” “Credo di sì.” Si sollevò, pulendo i pantaloni dalla sabbia. “E se non ci riuscissi?” “Ti allenerai e proverai ancora quando sarai pronto. Ma hai bisogno di qualcuno migliore di me che possa guidarti.” “Nessuno è migliore di te.” Ridacchiò: “Ci sono limiti a ciò che posso insegnarti.” “Ma resterai con me, vero?” Gli carezzò la schiena, sorridendogli con affetto.

Il Tempio era rimasto esattamente come lo aveva lasciato. Condusse Nadir attraverso i campi di addestramento, incrociando gli allievi che si stavano riunendo. Il ragazzo si guardava attorno con gli occhi lucidi. “È come nei tuoi sogni?” Scosse piano il capo: “Questo è reale.” Si fermò davanti alla scalinata, un brivido di eccitazione gli percorse la schiena facendogli tremare le gambe. “Ehi, guardate chi è tornato!” Alberto lo spinse delicatamente in avanti: “Perché non mi precedi? Io rimango con loro a parlare per un po’.” Si voltò e osservò il gigante che si stava avvicinando: il suo sorriso era falso come quello di un mercante. Un’altra spintarella lo portò a guardare Alberto dritto negli occhi: “Forza, vai: ti raggiungo subito.” Si avviò. “Non vuoi farci conoscere il tuo amico?” “Lascialo fuori da questa storia, Baar.” Non aveva mai sentito un tono così duro uscire dalle sue labbra: sembrava un'altra persona. Affrettò il passo, a disagio. Sapeva che Alberto aveva avuto problemi al Grande Tempio ma non era mai riuscito a scucirgli più di qualche parola: quanto desiderò aver insistito! Però dovette ammettere che nemmeno lui aveva detto chissà quanto del suo passato al maestro e quest’ultimo non aveva mai fatto pressione per sapere. Era come un accordo che si era instaurato naturalmente tra loro. Ripensò a quando gli aveva allungato la mano, con quel sorriso gentile che non pretendeva nulla: dopo tanto tempo si era sentito il cuore leggero. Era talmente immerso nei suoi pensieri che quasi non si accorse dell’uomo che presiedeva all’entrata della Prima Casa. “Bentornato.” Il saluto, calmo e profondo, gli fece alzare lo sguardo. Era diverso da come lo aveva conosciuto, ma negli occhi verdi bruciava la stessa luce di sempre. Era un po’ più giovane di Alberto e i capelli rossicci erano tenuti indietro grazie a due trecce fermate dietro la nuca. “È bello rivederti con noi: sei venuto con Alberto, vero?” Annuì, mentre si avvicinava. L’uomo guardò verso l’inizio delle scale, guardingo come un ariete che cerchi lupi nei pressi dei pascoli. “Vado a salutarlo, tu procedi pure.” Vedendo la sua espressione angosciata gli sorrise rassicurante: “Non temere: ha avuto la meglio su di lui quando aveva la tua età.” Ascoltò i suoi passi che si allontanavano e attraversò il portone di ulivo.

Le pareti della Nona Casa erano circondate da un colonnato dalle forme slanciate e la facciata era decorata con due scene in bassorilievo: a sinistra della porta un satiro giocondo applaudiva il canto e la danza delle Muse, a destra lo stesso satiro galoppava un focoso stallone, l’arco teso verso una preda e lo sguardo attento del cacciatore. “Dove credi di andare?” Fissò negli occhi l’uomo che gli si era posto davanti: aveva gli stessi capelli di Alberto, nonostante fossero ben più corti, per il resto era una maschera d’acciaio. “Da Athena.” “Non te lo permetto.” Prima che potesse replicare l’uomo chinò con violenza il capo, in un gesto forzato. Gli sembrò di intravedere i contorni di una donna con il capo coperto da un elmo che teneva piegato il collo del Cavaliere con la mano, un’espressione severa a incresparne i lineamenti. “Mi dispiace.” bisbigliò, oltrepassando le colonne.

Il Santuario era avvolto nelle profumate volute d’incenso, il pavimento a mosaico ritraente la volta celeste faceva risuonare appena i suoi passi lungo le colonne. Entrando i suoi occhi vennero catturati dal trono di marmo su cui era seduta una fanciulla: i lunghi capelli neri lucevano contro il candido peplo drappeggiato, nella mano stringeva uno scettro che raffigurava Nike e lo guardava con splendenti occhi grigi. Si sentì mancare il respiro e si inginocchiò. La ragazza gli sorrise e gli si avvicinò: “Mi devo scusare per il comportamento di Santiago.” Gli porse la mano per aiutarlo ad alzarsi: la prese con delicatezza e si sollevò. “Non dovete preoccuparvi.” “Invece sì.” Lo abbracciò piano e Nadir si sentì avvampare. “L’importante è che tu sia a casa.” Gli occhi gli divennero lucidi e la strinse. Dopo qualche istante si separò rispettosamente, ancora rosso sulle guance: “Volevo chiedervi se potevo provare ad ottenere l’Armatura d’Oro del Sagittario.” Annuì: “Ti ha aspettato per tanto tempo.”

“Hai sentito? Il ragazzo che è venuto con il fratello di Capricorn vuole avere l’Armatura del Sagittario.” “Secondo me non ci riuscirà: quello là non era nemmeno capace di usare il Cosmo, come potrebbe aver insegnato ad un allievo come farlo?” “Non dovreste parlare male dei vostri compagni.” Si irrigidirono immediatamente, voltandosi verso il ragazzino che li aveva apostrofati: sorrideva con innocenza ma i suoi occhi brillavano di una ferocia leonina. “S-Scusate Sommo Andrea!” Scosse piano il capo, facendo ondeggiare i boccoli biondi e si allontanò, l’armatura dorata che tintinnava ad ogni passo. Lo osservarono di sottecchi raggiungere gli altri Cavalieri d’Oro, che avevano un posto riservato negli spalti, appena sotto quello di Athena. Erano al completo e scrutavano assorti l’arena, dove si stavano finendo di allineare dodici scuri: la lama di ciascuna presentava un foro. L’Armatura del Sagittario risplendeva al bordo dell’anfiteatro, nella forma di un centauro con l’arco stretto nel pugno. Nadir le si avvicinò e tese con fare reverenziale la mano: la statua si animò e pose l’arma tra le sue dita. Allontanatosi di qualche passo iniziò a studiare l’arco. Risatine serpeggiarono per tutti gli spalti: il ragazzo lo aveva preso dalla parte sbagliata, con i flettenti curvati verso l’esterno. L’ilarità si spense progressivamente, mentre i polpastrelli carezzavano il metallo con familiarità, saggiandone la fattura con movimenti esperti. Un sorriso illuminò il viso di Nadir, come se avesse ritrovato nell’arma una vecchia amica. Prese i flettenti con le mani e premette la parte centrale contro l’addome. Una leggera onda ambrata avvolse il metallo, che si piegò formando un arco ricurvo dalle linee eleganti. Straordinariamente mantenne la posizione anche quando il ragazzo allentò la pressione. Tra le dita della mano destra si formò un sottile filo di puro Cosmo dorato, che andò poi a fermare all’estremità inferiore. Poggiò quest’ultima contro la parte esterna del piede destro e fece passare la gamba opposta tra l’arco e la corda, spingendo il metallo contro la coscia. Tese con delicata fermezza il flettente superiore verso di sé e vi assicurò la corda, tendendola. I suoi movimenti erano sicuri e naturali e nonostante ciò tradivano un’attenzione maniacale. Impugnò l’arma e si volse verso l’Armatura, che estrasse dal coprispalla destro una freccia d’oro e gliela porse. La incoccò e si portò davanti alle scuri. Sollevò l’arco, tese la corda e scoccò: l’asta oltrepassò leggera gli anelli di bronzo e si conficcò nella pietra. Nel silenzio attonito si sentirono i pezzi dell’Armatura del Sagittario vibrare, per poi scomporsi e avvolgere il corpo del suo Cavaliere. Le risate gioiose di Andrea ruppero definitivamente la tensione, mentre si scapicollava giù dalle gradinate e correva ad abbracciare il compagno. “Sapevo che ce l’avresti fatta!”

“Ecco dov’eri, fratello mio.” Si voltò e fissò Alberto: “Che vuoi?” “Mi chiedevo perché non fossi a festeggiare con noi.” “Non trovo nulla per cui festeggiare.” Gli si avvicinò, un sorriso conciliatorio sulle labbra: “Su, non dire così.” Santiago si volse ad osservare il panorama notturno oltre il burrone, appoggiato alla statua del capricorno con le braccia conserte. Sospirò piano: “Almeno scusati con Nadir.” “Cosa?” “Ho saputo come ti sei comportato: il minimo che puoi fare è scusarti con lui.” “Non ci penso nemmeno.” “Santiago, non ti rendi conto di ciò che hai fatto?” “Lo rifarei senza esitare.” Un risolino nervoso gli sfuggì: “Non dirai sul serio?” Cercò i suoi occhi, che si ostinavano sull’orizzonte scuro. Un cupo silenzio calò tra loro, riempito dall’eco della musica alle pendici del monte. “Santiago, so che è difficile. Ma Nadir è un ragazzo meraviglioso, ti affezionerai sicuramente se gli concedi una possibilità, e..” “Non ci penso nemmeno! Non con il bastardo che ha preso il tuo posto!” Ora se ne stava ritto, i pugni chiusi lungo i fianchi. Irrigidì di riflesso la postura e lo sguardo: “Quel posto non è mai stato mio, Santiago. Ti prego, non puoi essere così cieco da non comprenderlo.” “E tutti i sacrifici che ho fatto per permetterti di rimanere qui? Quelli non valgono nulla?” “Sai perfettamente che non dimentico ciò che hai fatto per me.” “E invece mi sembra proprio di sì! Anche perché probabilmente non ne sai un bel niente!” Santiago fece un passo verso di lui: “Hai idea di quanto abbia dovuto faticare?” “Non osare...” Il maggiore ignorò il suo commento a mezza voce: “Facile per te parlare, ingrato incapace! Non hai mai dovuto sostenere aspettative così alte!” “Se non quelle che mi mettevi tu sulle spalle.” “Dovevo lasciare che tu sprecassi il tempo che avevo guadagnato per te sputando sangue?” “Credi che non ne abbia sofferto anch’io? Credi che non mi sentissi distrutto quando non riuscivo ad essere ciò che volevi io fossi? Ma tu non hai mai accettato che io fossi diverso da te!” “Credi che qualcun altro lo avrebbe fatto? Chi pensi che ti avrebbe difeso da Baar, quel giorno, se non ci fossi stato io?” “Non avrei avuto bisogno di difendermi se non fossi stato costretto a rimanere qui.” “Sei l’unica cosa che mi è rimasta della nostra famiglia!” “Questo non ti giustifica, Santiago!” Non seppe cosa ribattere: strinse maggiormente i pugni, sbiancando le nocche, abbassò lo sguardo. Gli si avvicinò e gli prese piano una mano, aprendola: “Mi sei mancato, fratello mio. Ma avevo bisogno di allontanarmi, di capire quale potesse essere davvero il mio valore, e quale il mio ruolo.” Si voltò verso i falò e sorrise amorevolmente: “E li ho trovati. Ho accettato che non sarò mai un Cavaliere, ma ho potuto essere una guida per Nadir. E, nel bene e nel male, tu sei stato parte del percorso che mi ha portato fino a lui e ad affezionarmici come se avessimo lo stesso sangue.” “TI prego, non sparire più così.” Sospirò piano: “Mi dispiace, ma non riesco a rimanere qui.” “Perché?” “Perché sarei infelice. Non ho nient’altro da insegnare a Nadir, e non vi posso essere utile in un altro modo.” Santiago liberò la mano dalla sua: “Quindi alla fine è a causa sua tutto questo.” Chiuse gli occhi prendendo un profondo respiro: “Non ricominciare.” “Se tu non avessi dovuto andare ad addestrarlo saresti rimasto.” “Ne sarebbe valsa la pena se ti avessi portato ancora più rancore e disprezzo di quanto te ne porto ora?” “Qualsiasi prezzo, pur di tenerti al sicuro.” “Non ho bisogno di essere protetto. Sono stato via tre anni e sono tornato vivo e vegeto. Santiago, tu eri felice quando vivevo qui? Perché io non lo ero.” “E lo eri mentre stavi con quel moccioso?” “Sì.” “E allora vattene.” “Perché devi sempre fare così? Perché non puoi semplicemente accettare le mie scelte? Non siamo più ragazzini, cresci un po’.” “Parlò l’uomo che aveva paura di parlarmi sinceramente.” “Credi che non mi vergogni come un cane per averti nascosto la mia partenza?” “Eppure non ti viene nemmeno per un attimo in mente di chiedermi scusa?” Un violento ceffone gli fece piegare il capo: “E tu, per avermi portato a non potermi fidare di chi è carne della mia carne? È inutile che ci giri intorno, Santiago: la colpa è tua! Se me ne sono andato e se me ne andrò, l’unico da incolpare sei tu! Se ho desiderato di non averti come fratello, è per causa tua! Non mi pentirò mai di essermene andato e di essermi lasciato alle spalle un pezzo di merda come te!” Si allontanò, sotto lo sguardo attonito dell’uomo.

“Dove vai?” Gli sorrise quando la domanda sfumò in un sonoro sbadiglio: “Nadir, dovresti dormire: siete rimasti svegli quasi tutta la notte.” “Non hai risposto alla mia domanda.” Gli carezzò i capelli: “Vado via.” Il ragazzo, improvvisamente perfettamente sveglio, lo strinse: “Ti prego, non andare…” “Non ho motivo di restare.” “Hai me… o non sono un motivo sufficiente?” Gli diede una piccola schicchera sulla punta del naso: “Questo non pensarlo mai: sei il mio fratellino, ora e per sempre, e sei importante per me. Ma non posso più essere il tuo maestro, e qui non c’è nessuno a cui possa insegnare.” “Mentre… mentre andando via troveresti a chi insegnare.” “Esatto: aiuterò tanti ragazzi e ragazze come te, che non hanno ancora trovato la loro strada.” “Vuol dire che avremo fratelli e sorelle?” Annuì: “In tutto il mondo conosciuto, forse anche oltre.” “Mi prometti che tornerai a trovarmi?” “Te lo prometto, anche se sarò sempre con te.” “Posso accompagnarti fino al mare? Un’ultima passeggiata insieme.” “D’accordo.” Si incamminarono insieme lungo un sentiero che attraversava l’inospitale scogliera fino al lembo sabbioso dove erano approdati il giorno prima. Il sole iniziò a mostrare le sue dita rosate nel cielo, mentre attraversavano l’isola. Improvvisamente Alberto spinse Nadir nella pineta, dietro folti cespugli di biancospino, facendogli cenno di rimanere in silenzio. Si sentì un leggero tintinnio tra i singulti dei gabbiani e attraverso gli alberi poterono intravedere una figura avvolta in un’armatura nera. Alberto prese per le spalle il ragazzo e lo guardò con ferma decisione negli occhi: “Va ad avvisare gli altri: corri e non voltarti.” Il bisbiglio fece scattare il corvino, che si allontanò silenzioso tra il mirto e l’alloro. L’uomo prese l’arco, lo incordò e incoccò una freccia. Aspettò acquattato ad osservare lo Specter che si avvicinava. La Surplice che lo ricopriva aveva due corte ali che si articolavano dalle scapole e scintillava nella luce rosata. “Non credo proprio che tirerai quella freccia.” Dei tentacoli di metallo scuro sbucarono dal terreno e gli strinsero le braccia al busto in una presa ferrea che gli tolse il fiato. “Guarda, Celeno, cosa ho trovato!” Lo sollevò mentre usciva dalla boscaglia, per poi farlo cadere sul terreno. “Fineo, non si trattano così i giocattoli, quante volte te lo devo dire?” Una mano guantata gli prese il mento e lo sollevò: vide il volto di una giovane donna dagli occhi gialli di rapace, la pelle bianca come la luna piena. Le lunghe e folte ciglia scure si abbassarono mentre lo scrutava con uno sguardo malizioso, un sorriso da predatrice sulle labbra sottili. “Un così bel giocattolo al servizio di quella sgualdrina, che peccato. Purtroppo non avremo molto tempo per divertirci perché abbiamo una missione, quindi non perdiamo un istante, d’accordo cucciolotto?” Le sputò sulla guancia. Lei si pulì il viso mentre i tentacoli si stringevano ancora attorno a lui, sollevandolo di peso. “Ehi, non si trattano così le signore! Dovrò insegnarti un po’ di buone maniere con i miei vermi.” Il timbro gutturale dell’uomo che lo teneva intrappolato gli giunse all’orecchio, mentre l’estremità di un tentacolo si portava davanti al suo viso: un occhio arancione lo fissava, circondato da tre spuntoni che si agitavano come zampe di insetto. Nel riflesso del bulbo di vetro poté scorgere degli occhietti piccoli infossati in un muso scheletrico. Si sentì serrare il collo, impedendogli ogni movimento, e quelle zanne acuminate gli morsicarono la carne della gota, tra le risatine cupe dello Specter. “Nemmeno un gemito, Fineo… Che delusione! In genere urlano di terrore!” “Beh, questo è comunque un seguace di Athena, sarà stato addestrato a sopportare un po’ di dolore!” “Hai ragione, che sbadata! Umani di questo genere devono essere rotti prima di sentirli gridare.” Il guanto della sua Surplice si allargò in tre artigli. La donna sorrise complice a Fineo, che fece sollevare le braccia del prigioniero. Lei gli prese un polso e vi posò le labbra. “Sei un arciere, vero?” Sussurrò, lanciando uno sguardo all’arma caduta per terra: “È quasi un peccato privarti di mani così belle.”  Si voltò su un fianco, una sete violenta che le accendeva lo sguardo, e alzò la mano artigliata. Quando la calò un raggiò di energia scaturì da essa e tagliò all’altezza dei polsi. Si morse la lingua pur di non emettere un suono, mentre osservava i fiotti di sangue e le dita contratte in spasmi di dolore. “D’accordo, non è così facile come credevo… A questo punto, però, voglio solo vederti disperato, cucciolotto.” Si allontanò di qualche passo dal sentiero, verso la scogliera: osservò per un paio di istanti il mare e un sorriso selvaggio ne deformò i lineamenti. “Fineo, prendi quel masso, dovrebbe essere abbastanza grande. Bravissimo, ora usa uno dei tuoi vermi per legarglielo attorno alla vita!” “Ma dovrò strapparlo dalla mia Surplice!” “Non fare storie: dopo ti darò il mio sangue per ripararla. Muoviti! Oh, quanto adoro gli umani: si affannano così tanto ma non possono nulla contro chi è più potente di loro, non è vero cucciolotto? Stai per morire eppure non puoi fare nulla per salvarti.” Gli carezzò i capelli: “Forse potrei essere clemente se mi implorerai.” Scostò il capo con un gesto brusco e lei rise: “D’accordo, d’accordo. Ci rivedremo nell’Ade.”

Ebbe appena il tempo di prendere un respiro prima che l’acqua del mare lo avvolgesse. Sentì la roccia colpire la sabbia del fondale e volse lo sguardo alla superficie, scintillante e chiara. Cercò di mantenere la calma, ma il suo cuore non voleva saperne di rallentare. Dell’acqua gli riempì il naso e sentì al gola chiudersi. Nadir doveva aver raggiunto il Grande Tempio, doveva aver avvisato qualcuno. I suoi compagni non potevano essere lontani, e avevano la forza di sconfiggere i due Specter. Però avrebbero capito che lui era lì? Il sangue doveva essere sufficiente per essere notato, o almeno così sperava. La vista gli si iniziava ad offuscare, i suoni arrivavano ovattati e i polmoni bruciavano. Provò invano a liberarsi dal nodo, tirando il metallo. Forse, se avesse distrutto quel sasso… Chiuse gli occhi, cercando di attingere al Cosmo, a quella forza vitale insita in ogni essere vivente. Aveva visto centinaia di volte i Cavalieri e gli apprendisti provare quell’esercizio, lui stesso lo aveva eseguito per tanto tempo. Sapeva che dentro di sé vegetava la forza di sbriciolare la terra e il cielo, il potere di una stella che esplode. Doveva solo raggiungerlo e convogliarlo ad un’estremità del suo corpo: da lì sarebbe bastato un calcio o un pugno e lui sarebbe stato libero. Non erano poche le volte in cui aveva sentito di come il Cosmo si fosse risvegliato in momenti di difficoltà: doveva capitare anche ora, anche a lui. L’acqua gli riempì i polmoni.

Aris si bloccò al fianco di Desiderio. Il terreno era macchiato di sangue e un paio di mani erano abbandonate tra gli aghi di pino. Una traccia rossa si gettava oltre la scogliera. Si scambiarono uno sguardo di intesa prima che Desiderio si tuffasse tra le onde. Poco dopo una colonna di ghiaccio si alzò dal mare, riportando il Cavaliere sulla scogliera. Tra le braccia teneva il corpo di Alberto. Lo distese a terra e Aris vi si inginocchiò accanto. Desiderio si pose davanti a lui, alzò le mani sopra il suo petto ed esse si circondarono di una luce opalina. Le spostò verso il collo, risalendo la gola. Aris aprì delicatamente la bocca di Alberto, permettendo al compagno di estrarre l’acqua dai polmoni. Aris strappò lembi del proprio mantello e li legò attorno alle ferite per non farle infettare e per fermare l’emorragia, mentre l’altro iniziava a premere contro il torace dell’uomo. Appena Desiderio si allontanò Aris lanciò una scarica del proprio Cosmo attraverso il corpo di Alberto, cercando di far pompare il sangue. Le bende si inzupparono, ma il corpo rimase immobile. Il massaggio riprese, mentre a nuove bende si aggiungeva il Cosmo scarlatto. Continuavano ormai da alcuni minuti quando vennero raggiunti da Matilde. La donna prese il posto di Desiderio, che aveva iniziato ad ansimare per lo sforzo. Desiderio si allontanò di qualche passo per lasciare loro spazio e notò Nadir, che fissava il volto cereo di Alberto con gli occhi lucidi. Quando il giovane si accorse del suo sguardo, lo ricambiò: lacrime presero a scorrergli sulle guance. Tornò a guardare il tentativo di soccorso. Aris man mano diventava sempre più pallido e gli occhi si velavano di stanchezza, mentre la fronte di Matilde si imperlava di sudore e i muscoli delle braccia le tremavano. Eppure non avrebbero mai diminuito i loro sforzi, nessuno di loro, prima di essere completamente stremati. Si inginocchiò per sostituirsi a Matilde. “Basta così.” La voce soffocata di Athena li fece voltare verso la ragazza. Stringeva lo scettro come se fosse l’unica cosa che la teneva in piedi, l’ampio peplo che veniva mosso dalla brezza marina. “La sua anima si trova già sotto l’ala nera di Ker, non possiamo fare nulla se non permettergli di raggiungere l’Elisio.” Una lacrima solitaria le brillò sulla guancia.

Enea si stava lavando le mani in un catino quando sentì i passi di Santiago avvicinarsi. “Vorrei vedere mio fratello.” Enea gli rispose a voce bassa, quasi un sussurro: “Non ho ancora completato il lavoro quindi fa solo ciò che senti di poter fare.” Abbassò lo sguardo sul telo che copriva il corpo, le conche vuote dopo i polsi. Strinse piano un pugno e sollevò un lembo, scoprendo il volto immobile di Alberto. Enea gli aveva dato le spalle, mentre si asciugava le mani. Toccò piano la guancia illesa, per poi carezzarla. La pelle era fredda, leggermente umida, le labbra pallide. Scoprì il suo corpo fino al bacino: sulle braccia e sul torace spiccavano i segni violacei dei lividi dove era stato stretto, uno più scuro, nerastro, sull’addome. Sfiorò con le dita il braccio fino al moncherino cauterizzato. Il sangue e il sale marino erano stati lavati via. “Come riesci a farlo?” Enea non si voltò, prendendo da un armadietto un piccolo vasetto. “Non è il primo e non è l’ultimo.” “Ma non pensi al fatto che… Non ti pesa che sia Alberto?” “Certo che mi pesa.” Prese un pettine e si sedette sul bordo del tavolo di marmo. Avvolse un braccio attorno alle spalle dell’uomo e lo sollevò, facendolo appoggiare contro il proprio petto, ogni movimento studiato e attento. Iniziò a districargli i nodi, delicato come se Alberto stesse semplicemente dormendo. “Quante volte…” “Chi se ne importa di quante volte io abbia preparato un morto. Ognuno di loro era una persona e io ne sono stato l’ultimo custode su questa terra. Il loro corpo, la loro storia, i loro sogni, tutto si conclude con me. Questi momenti sono sacri, e unici. Alberto non è il primo cadavere, ma il suo peso, i suoi muscoli, i più piccoli segni della sua pelle, ogni cosa è prima e ultima. Nessun altro sarà come lui.” Posò il pettine e prese il vasetto, aprendolo. Lasciò cadere qualche goccia d’olio sui ricci e iniziò a massaggiarli finché non furono lucenti. “Già il fatto che ti abbia permesso di essere qui è un onore, Santiago. Ti concedo qualche minuto da solo con lui.” Santiago osservò Alberto, immobile, mentre Enea usciva. Si chinò e strofinò piano la fronte contro la sua. Serrò gli occhi, sentendoli inumidirsi. “Eri tutto ciò che mi era rimasto… Quanto sono stato stupido.” Prese il suo viso tra le dita: “Mi dispiace. Mi dispiace, Alberto.” I singhiozzi gli soffocarono la voce in gola, ma non riuscì a piangere. Poco dopo raggiunse Enea all’esterno: gli bisbigliò un ringraziamento e tornò verso la propria Casa.

La ragazza, vestita in nero, attraverso le porte della Casa del Cancro ancora avvolta dalle ombre della notte. Tra le braccia portava un rotolo di stoffa finissima e candida. Osservò in silenzio Enea mentre attingeva con un pennello un pigmento rosato da un barattolino e lo stendeva con delicatezza sulle labbra di Alberto. Sul tavolo dietro di lui erano allineati una serie di contenitori simili a quello che teneva tra le dita, ognuno con un pennello a fianco. Si sollevò e dopo qualche secondo di assorta contemplazione, iniziò a riporre i propri strumenti ordinatamente dentro una cassapanca. Si voltò finalmente verso di lei: “Somma Athena…” Lei si avvicinò e posò il sudario sul tavolo. “Ve la sentite, mia signora?” La ragazza lo guardò: aveva gli occhi gonfi e cerchiati di nero ma vi bruciava una fiamma che non si sarebbe fermata davanti a nulla. Le porse ago e filo. “Ti chiedo solo di rimanere con me.” Annuì e la aiutò a sedersi. Aveva conosciuto molti volti della Dea, e sapeva riconoscerli quando li vedeva su quello dell’umana in cui si era reincarnata, ma quello gli era sconosciuto. Dalla notte dei tempi aveva pianto la morte dei suoi Cavalieri, da sola e in silenzio mentre tesseva i sudari in cui sarebbero stati bruciati. Ma, nonostante l’amore per gli uomini la spingesse a prendere vita come una di loro, mai si era avvicinata davvero alla fisicità della morte. Per lei c’era sempre un corpo immortale a cui tornare, un’anima che non si sarebbe mai spenta. E aveva pur sempre la certezza che i suoi Cavalieri sarebbero tornati da lei. Ora vedeva divampare dentro il suo animo l’orrore: una volta che Alberto fosse stato cremato e le sue ceneri sepolte, non lo avrebbe più rivisto, per tutta l’eternità. Le sue dita erano ferme, raccolte in grembo. Si portò dietro di lei e posò le mani sulle sue: lentamente i tremori si calmarono. La lasciò, permettendole di inserire il filo nella cruna. Le rimase al fianco mentre ricuciva insieme i lembi di pelle. Quando ebbe completato il lavoro di sutura le carezzò rispettosamente una spalla. “Siete stata molto coraggiosa.” “Glielo dovevo. Ora è pronto, vero?” Annuì. “Bene, avvolgiamolo nel sudario.” “Non volete prima esporre il corpo?” “Vorrei che la sua anima potesse riposare il prima possibile nell’Elisio.” “Come desiderate, mia signora.”

La pira era stata preparata con fascine di ulivo, tra le quali erano stati posti vasi di miele e anfore d’olio. Tutto attorno i Cavalieri e gli allievi aspettavano in silenzio nella grigia quiete dell’alba: l’unico suono, ritmico e basso come il battito cardiaco, veniva dalle Armature d’oro. Vino scuro come sangue venne versato ai piedi di un altare mentre un capretto dal vello nero vi veniva sgozzato. La salma venne adagiata con delicatezza da Santiago, mentre Nadir vi appoggiò vicino l’arco e la faretra. Presero le torce e diedero fuoco alla legna, che diffuse un fumo aromatico e fragrante. Accompagnati dal risuonare delle Armature d’oro e dallo scoppiettio della fiamma, iniziarono a cantare. Conoscevano quelle parole senza averle imparate, ricordi di vite passate, di innumerevoli lutti. Cantarono delle azioni virtuose del compagno e del dolore che la sua perdita aveva fatto cadere sui loro cuori. L’olio e il miele iniziarono a consumarsi. Cantarono invocando la pietà e la rettitudine dei Tre Giudici, che giudicassero quell’uomo per la vita che aveva vissuto e non per lo schieramento che lo avrebbe avuto come loro nemico. Il fumo faceva lacrimare loro gli occhi. Invocarono la benevolenza delle Erinni, che non si trovassero mai a tormentare un’anima d’eroe. L’odore di carne bruciata diede loro un familiare voltastomaco, strozzandone le voci. Cantarono dell’Elisio e dei suoi prati fioriti e del cielo limpido e delle acque che mai avevano lavato via una goccia di sangue. Il sole percorse il cielo mentre il vento disperdeva il fumo tra le nuvole lievi. Singhiozzi ruppero l’armonia del canto. Le braci dello stesso colore del tramonto ardente vennero spente con il vino e le ceneri raccolte in un’urna bianca e dorata. Il reliquiario venne posto alla Dea, che lo tenne delicatamente in grembo. Alla luce delle stelle vegliarono raccontandosi storie: tracciarono con le dita le forme delle costellazioni narrando gli eventi dall’origine del tempo. L’Aurora li colse e rammentò loro che il momento dell’addio non poteva più essere revocato. Si diressero verso il cimitero, nella luce morente. Scavarono nel terreno morbido e scuro una piccola fossa e Athena vi depose l’urna, gettando poi sopra di essa la prima manciata di terra. Vi posero dinnanzi una piccola stele come le altre di cui era punteggiato il prato bagnato di rugiada.
 
Santiago stava risalendo la scalinata. Si era trattenuto alla tomba anche dopo che tutti si erano allontanati, chiuso in un silenzio ostinato e impenetrabile. All’ombra di una colonna della Nona Casa scorse Nadir, accovacciato con il capo nascosto nelle ginocchia raccolte al petto. Nel sentire i suoi passi il giovane alzò il viso, le guance umide. Si avvicinò e si sedette accanto a lui, mentre l’Armatura si staccava dal suo corpo e si ricomponeva accanto a quella del Sagittario, poco lontano. Il ragazzo era stato uno dei primi a ritirarsi. “Sai… non volevo piangere. Non perché mi importasse di cosa avrebbero detto gli altri… Ma non avrei mai sopportato che Alberto mi potesse vedere. Ora riposa nell’Elisio, dopo aver bevuto le dolci acque del Lete: non mi ricorderebbe nemmeno se volesse.” Premette una mano contro le labbra, gemendo piano di dolore mentre le lacrime sgorgavano senza sosta. “Mi dispiace, mi dispiace tanto.” singhiozzò: “Non sono riuscito a fare nulla.” Lo avvolse piano nel mantello e gli fece poggiare il viso contro il proprio petto, una mano attorno alle sue spalle: “Non è colpa tua.” Asciugò piano gli occhi contro i suoi ricci: “Perdonami.”
 
 
Note dell'autrice
Questo è il brano più lungo che io abbia scritto negli ultimi anni. È stata una bella fatica, specialmente perché la situazione di Alberto e Santiago parte da situazioni spiacevoli che ho vissuto e vivo con la mia famiglia. Quindi non è stato affatto semplice trasporre ciò che provo e renderlo congruo al passato e al presente dei due fratelli protagonisti.
Spero ugualmente che vi sia piaciuto e che vogliate lasciarmi il vostro parere, che per me sarebbe molto prezioso.  

 
   
 
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