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Autore: Adeia Di Elferas    26/01/2022    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Caterina aveva controllato le lettere che le erano state appena recapitate. Erano passate tutte, ne era certa, per le mani di Fortunati che, poi, gliele aveva fatte ricevere tutte assieme. Eppure, malgrado quel passaggio obbligato, il piovano non si era dato pena di allegare nemmeno una riga scritta di proprio pugno.

Da quando era partito per Cascina, la Tigre aveva sentito crescere dentro di sé un'insofferenza crescente. Stava ritardando anche la visita a Giovannino, e nemmeno lei sapeva dire quale fosse il motivo esatto del suo temporeggiare. Passava le giornate in modo inconcludente, cercando di dare udienza a tratti a un figlio, a tratti a un altro, ma senza prestare loro veramente attenzione. Si sforzava di stare vicina a Bianca, senza, comunque, rendere palese a chi non ne era al corrente, il suo stato. Si occupava con diligenza della corrispondenza, intrecciando sempre di più quella sottile rete che Fortunati stesso l'aveva invogliata a coltivare.

Alla sera, però, ciò che le pesava di più, era tornare in stanza e trovarsi sola.

Il più delle volte aveva preso l'abitudine di restare nella sala delle letture per qualche ora, dopo cena, in compagnia di un po' di vino e di qualche libro che, per quanto non le interessasse molto, riusciva a distrarla per un po'. Tuttavia, quando tornava in stanza, il letto vuoto le sembrava un inferno. Aveva aspettato tanto, dopo la prigionia a Roma, prima di avere di nuovo un uomo, ma da quando aveva trovato in Francesco un amante, oltre che un amico e un confidente, privarsene le sembrava la peggiora delle violenze che potesse infliggersi.

Anche quel pomeriggio di inizio aprile, mentre passava tra le mani le lettere che le erano appena state date, non vederne nemmeno una sua le diede una stilettata nella pancia. Non capiva il perché di tanto apparente distacco. Alternava momenti in cui si convinceva che il piovano, semplicemente, non volesse risultare troppo assillante, a momenti in cui si convinceva che l'uomo si fosse pentito di aver infranto i suoi voti per lei e stesse cercando un modo per dirle che dovevano smettere ciò che avevano intrapreso.

Sulla scrivania, dopo un paio di minuti, c'erano due piccole pile di lettere. Da una parte quella che la Leonessa riteneva posta 'privata', e dall'altra quella più impegnativa, quella dei grandi affari di Stato.

Cominciò da quella privata. Un paio erano messaggi di suoi vecchi soldati, che, con parole malinconiche, le richiamavano alla mente gli anni ruggenti del suo governo in solitaria. Poi ce n'era una di Bernardino da Cremona, che le raccontava della sua nuova condotta e di come lui, Giorgio della Barba e Niccolò Piccinino, figlio di Giovanni Giacomo, stessero muovendo contro Gaspare Sanseverino, che si era dato alla 'sacchetta senza denaro' nel mantovano, e stava diventando un problema per l'ordine pubblico.

Nel leggere le parole del cremonese, Caterina ripensò a un altro uomo di Cremona, Baccino, che ancora restava a Roma, con un discreto lavoro, certo, ma tremendamente lontano da lei e dal mondo che avevano condiviso.

Trovò poi una lettera di Scipione Riario, che le chiedeva novità sui fratellastri, e le domandava quando potesse andare a trovarla.

Infine, tenuta da lei accuratamente per ultima, restava una spessa missiva di Giovanni da Casale.

La soppesò, come se dovesse stabilirne la portata, e poi la fissò, riconoscendo nelle poche parole d'indirizzo, la grafia precisa e trattenuta di Pirovano. Era da oltre due anni che non lo vedeva.

Per la frazione di un secondo, fu sul punto di rompere il sottile sigillo e leggerla. Stava per farlo, dicendosi che non sarebbe cambiato nulla, che, qualsiasi cosa lui le avesse scritto, per certo non l'avrebbe indotta a perdonarlo e a fare come se non fosse successo nulla.

Poi, però, quando il sigillo era già spezzato, la donna ebbe uno scatto: saltò in piedi e, come se quella lettera scottasse già di per sé, la gettò di colpo nel camino acceso. La guardò mentre le fiamme la intaccavano, attese di vederla ridotta in cenere e, solo allora, si rimise alla scrivania.

Si asciugò una lacrima dalla guancia, non capendo se fosse legata al dolore che provava nel sapere di aver perso per sempre Giovanni da Casale già nel gennaio del 1500, o se fosse dovuta alla rabbia che ancora covava verso di lui per averla tradita.

Con un paio di lunghi respiri, spinse di lato tutte le missive rimaste aperte, ripromettendosi di rispondere a ciascuna prima di sera, e si cimentò con quelle dal tono più ufficiale.

Le prime due, arrivate contemporaneamente, ma inviate a quasi una settimana di distanza l'una dall'altra, erano di Benedetto Balear Riario. Fondamentalmente in entrambe l'uomo assicurava del grande successo della sua missione per perorare la causa della Tigre presso il re di Francia, ringraziava ancora per le camicie ricevute, si lagnava di non aver avuto di recente lettere scritte dal pugno di Caterina, e, infine, chiedeva se la donna fosse disponibile a confezionare nuove camicie, per certi uomini di grande importanza, che andavano blanditi per averne i favori.

La Sforza pensò che, con l'aiuto della figlia, qualche camicia si sarebbe ancora potuta fare e in quanto alle lettere scritte di suo pugno, ne avrebbe fatte partire ben due, giusto per dimostrare la sua buona volontà.

Passò dunque a una lettera di Domenico Campana, un frate dell'Ordine Predicante a cui Fortunati le aveva consigliato di rivolgersi tempo addietro. Siccome risiedeva al momento a Innsbruck, e aveva buoni rapporti con il piovano, e un certo interesse alla causa sforzesca, sembrava la persona giusta tramite cui prendere contatti con l'Imperatore.

La Leonessa sapeva bene che, in qualità di sorella della moglie dell'Imperatore, avrebbe potuto benissimo rivolgersi direttamente a Massimiliano, tuttavia aveva ritenuto più praticabile e saggia quella via traversa. Sapeva bene quanto Bianca Maria e il marito faticassero a far funzionare il loro matrimonio, tanto da passare buona parte dell'anno in due corti diverse. Forse, facendo leva sulla parentela con la consorte, non avrebbe trovato la simpatia dell'Imperatore.

Frate Domenico, invece, pareva molto sicuro del proprio ascendente. Nella brevissima lettera che le aveva inviato le riportava le parole, molto amichevoli, che un certo Paolo Bilia aveva riferito a Massimiliano, parlando proprio di Caterina. E poi trascriveva, entusiasta, le frasi piene di ammirazioni che l'Imperatore aveva usato per confermare le lodi appena sentite. Insomma, le lasciava ben sperare in un appoggio di un certo spessore. In chiusura, Campana le diceva di attendere sue notizie e disposizioni.

La Tigre la lesse più volte, cercando, invano, un accenno a Bianca Maria. Non sapeva se essere felice di non leggere il suo nome – data la sua scarsa affinità con Massimiliano – o se sentirsi triste per lei, vedendola così esclusa da ogni affare, perfino quello che riguardava una sorella.

Per la risposta a quel frate, Caterina voleva ragionare bene. Voleva prima chiedere consiglio e avere più chiara la situazione di Firenze e non solo. Se davvero Domenico Campana aveva un dialogo abbastanza diretto con l'Imperatore, nella sua prossima lettera doveva riassumere molte cose, sia in modo esplicito, che implicito. Le interessava, ovviamente, avere l'appoggio dei francesi, specie calcolando che Milano ormai era di Luigi XII, ma avere dalla propria parte, in modo chiaro e netto, l'Impero... Ebbene credeva che quel fatto avrebbe spaventato il Borja più di qualsiasi altro. E avrebbe, non trascurabile, tenuto calma Firenze: Lorenzo, davanti a un impegno personale di Massimiliano, non avrebbe potuto fare granché per sobillare ulteriormente la città contro di lei.

Pensando ancora alle parole di frate Domenico, la milanese aprì l'ultima missiva. Lo scrivente, da Mantova, era Luigi Ciocca, l'uomo di fiducia della Marchesa di Mantova con cui aveva già avuto modo di scambiare più di un messaggio e tramite il quale sperava di consolidare l'appoggio del Gonzaga.

Fin dalle righe, però, la Leonessa si trovò a non gradire particolarmente il tono di Ciocca. Se fino a quel momento le aveva sempre riferito apertamente tutto quanto, adesso le dava l'impressione di voler mettere le mani avanti per qualche motivo.

Innanzitutto, le spiegava come lui le scrivesse di nascosto, affinché non ne sapesse nulla né Firenze, né Mantova. Non voleva, infatti, che nessuna delle due potenze fosse al corrente del fatto che lui le rivelasse tutto ciò che accadeva e tutto ciò che lui veniva a sapere dai Commissari del signore di Pesaro, dal Conte Filippo de Rossi, dal Conte Guido Torelli, del Visconti, della corte di Mantova...

Quell'elenco, troppo lungo e con troppi nomi di cui, in realtà, la Tigre non aveva ricevuto da lui alcuna notizia, la innervosì particolarmente. Le sembrava un modo per farle capire che l'immenso rischio che Ciocca si stava accollando non era una cosa da poco, e che, in un modo o nell'altro, andava ripagato.

Proseguiva lodandosi da solo per come, prima di riferirgliele, verificasse di persona ogni notizia e poi, con piaggeria crescente, almeno secondo la Sforza, le ricordava di come stesse cercando, con tutti i mezzi, di 'rimetterla nello Stato'.

A una prima, superficiale lettura, le parole di Ciocca avrebbero potuto avere un suono rassicurante, quasi lusinghiero. La Leonessa, però, aveva passato buona parte della sua vita a interpretare ciò che stava realmente sotto a certe parole e quindi aveva capito anche troppo bene il vero intento dello scrivente.

Battendo la punta delle dita sulla scrivania, nervosa, la donna ragionò e ragionò ancora. Sentiva crescere dentro di sé una rabbia prepotente, scatenata da quel sentirsi presa in giro, da quell'accorgersi di come Ciocca la credesse una sprovveduta, capace di mettersi nelle sue mani senza riserve, pronta a elargirgli chissà quali favori in cambio. Poi, la rabbia, seppur sempre molto vorace, lasciò lo spazio a un secondo tipo di ragionamento, più fino.

Grattandosi un orecchio, immaginando di discutere i suoi dubbi con Cesare Feo, che era stato per molto tempo il suo Castellano, o con Luffo Numai, che le aveva sempre e solo dato ottimi consigli in quei frangenti, la Sforza arrivò a una conclusione che, una volta raggiunta, le parve scontata.

Ciocca aveva assunto quell'atteggiamento perché c'era stato qualcosa – qualcosa di cui non aveva fatto cenno nella lettera – che lo aveva convinto che lei davvero avrebbe potuto tornare a contare qualcosa e non nel giro di chissà quanti anni, ma a breve.

Premendosi le mani sugli occhi, provando a individuare i motivi che avevano spinto l'uomo di fiducia della Marchesa di Mantova a giungere a quella valutazione, la Tigre ripassò mentalmente quasi tutto quello che le era successo negli ultimi due anni e ciò che, tramite Fortunati e Lucrezia Medici, aveva saputo del mondo esterno.

In tutta franchezza, non trovava nessuna traccia della sua presunta fortuna, e le pareva, anzi, che perfino la città che l'aveva ospitata, Firenze, per colpa di Lorenzo il Popolano, le fosse nemica.

Rilesse di nuovo la missiva e cominciò a chiedersi come rispondervi. Doveva tenersi buono Ciocca, in modo che continuasse a fare da spia per lei, tuttavia, doveva anche fare in modo di capirne di più e provare a farlo sbottonare, a fargli dire, anche per metafore, perché mai fosse così convinto che presto lei sarebbe tornata a governare in Romagna.

“La mia Romagna...” sussurrò Caterina, fissando immobile la parete.

Mai aveva pensato di provare tanta nostalgia per una terra che le era stata imposta con la forza, una terra che le era costata l'infanzia e la felicità. Eppure, ora che metteva tutto su un piatto, si rendeva conto che buona parte degli eventi importanti della sua vita, belli e brutti che fossero, erano legati in modo inestricabile a quella stessa terra che aveva a tratti odiato.

'Il Borja mi avrà anche battuta e umiliata – rimuginò tra sé – ma non sono ancora morta. Ciocca ha ragione, posso ancora tornare a Forlì e riprendermi anche Imola.'

Provò a prendere in mano la penna, ma, ancora prima di intingerla nell'inchiostro, si accorse che la mano le tremava. Era un fascio di nervi. Collera, determinazione, disillusione, voglia di vendetta e senso di rivalsa si mescolavano nel suo petto creando una bolla pronta a esplodere e quindi le sue dita non riuscivano a stringere il calamo abbastanza saldamente da permetterle di scrivere in modo fluente.

Così, pensando che le avrebbe fatto bene prendere un po' d'aria, anche solo quella del cortile, che le pareva stantia, per colpa delle quattro mura che la circondavano, gettò di lato la penna e si alzò di scatto, andando alla porta.

 

“Ma è una mia impressione o da qualche tempo nostra madre è più... Tranquilla?” la domanda era scivolata dalle labbra di Bianca prima che se ne accorgesse.

Lei, Galeazzo e Bernardino erano in una delle sale ad aspettare, fondamentalmente, l'arrivo dell'ora di cena. La ragazza aveva un libro sulle ginocchia, ma non riusciva a concentrarsi, pensando in egual misura a Troilo, che era lontano e che non dava sua notizie da tempo, al bambino che portava in grembo, di nascosto da quasi tutti, eccetto Galeazzo e la madre, e, di rimando, proprio alla madre che, da qualche tempo, aveva cambiato atteggiamento.

“Hai ragione...” convenne Galeazzo, che, invece, se ne stava in piedi assieme a Bernardino a mimare le posizioni principali della scherma: “Forse si sente meglio fisicamente... Ha preso peso e secondo me è meno pallida...”

“Può darsi...” soppesò la Riario, poco convinta.

Bernardino guardò prima il fratello e poi la sorella, indeciso se dire o meno quello che aveva visto nelle stalle il giorno che Fortunati era ripartito per Cascina.

“Anche se – ammise dopo un po' Galeazzo, smettendo per un momento di fingere di parare gli attacchi del Feo – da che è ripartito il piovano è più silenziosa...”

“Nostra madre non è mai stata una donna di tante parole.” fece notare Bianca, mettendo da parte il libro che teneva aperto davanti a sé: “Certo, quando parla, non le manda a dire... Ma in genere parla sempre poco.”

“Vero anche questo.” convenne il Riario, tornando a concentrarsi su Bernardino.

“Tuttavia, non lo so... È come se fosse più distesa... Come se qualcosa che la tormentava avesse in parte smesso di farlo...” riprese la giovane, che non riusciva a trovare una spiegazione a quella variazione nell'atteggiamento della madre.

Da un lato era felice di vederla più calma, ma dall'altro sapeva che dai suoi cambiamenti d'umore poteva derivare qualsiasi cosa, da una cosa bellissima a una tragedia.

“Sì, sì, in effetti è molto più...” Galeazzo non sapeva che termine usare e, nel momento stesso in cui tacque per cercare le parole giuste, il silenzio venne riempito dalla voce strascicata di Ottaviano.

Da stare sulla porta aveva origliato gli ultimi scambi di battute dei fratelli e così si sentì molto sveglio e intelligente nel commentare: “Ma siete tardi? Nostra madre ha un uomo. Non ho dubbi. Si calma così solo quando passa la notte a...”

“Taci!” lo rimproverò subito Bianca, fulminandolo con lo sguardo: “Non dovresti nemmeno azzardarti a nominarla, nostra madre, con la vita d'inferno che le hai fatto fare.”

“Mentre tu colpe non ne hai mai avute, vero?” la pungolò il maggiore, sollevando un sopracciglio.

Quella inattesa allusione al silenzio assenso che la Riario aveva dato, molti anni prima, alla congiura che aveva portato alla morte di Giacomo Feo, ferì profondamente la ragazza che, riagguantando il libro, l'aprì a caso e fece finta di riprendere la lettura.

Bernardino non aveva colto alcuni dei sottintesi di quel breve scambio, ma sentiva crescere dentro di sé lo stesso una forte agitazione. Sapeva cosa aveva fatto Ottaviano, ricordava benissimo tutto...

Galeazzo parve intuire i suoi pensieri, tanto che gli mise una mano sulla spalla, come a volerlo trattenere, nel caso in cui avesse in mente di passare alle vie di fatto per far tacere il primogenito della Tigre.

“Vi lascio ai vostri passatempi da bambini – borbottò Ottaviano, che nel giro di un paio di giorni avrebbe compiuto ventitré anni – ho di meglio da fare...”

Nessuno lo trattenne, nemmeno per litigarci, e così, dopo un ultimo sguardo annoiato su tutti loro, il Riario si allontanò, lasciandoli di nuovo soli.

“A volte è veramente irritante...” fece Galeazzo, lasciando la presa sulla spalla del piccolo Feo e scuotendo il capo.

“Solo a volte?” chiese Bianca, senza sollevare gli occhi dal libro.

Bernardino, invece, stava ancora pensando alle parole del fratellastro. Poteva essere vero, quello che aveva detto? La loro madre era davvero più tranquilla perché aveva un amante? Era Fortunati, l'amante in questione? In fondo li aveva visti baciarsi...

“Io...” cominciò a dire il Feo, prima di fermarsi un attimo e poi sussurrare, incerto: “Io credo di aver visto nostra madre baciare il piovano nelle stalle, il giorno che lui è partito...”

Galeazzo, come a chiedere conferma che una cosa simile fosse possibile, guardò Bianca e questa, sollevando repentinamente gli occhi dal libro, fissò Bernardino: “Credi di averli visti, o li hai visti?”

Il ragazzino sollevò un po' le spalle. Era spesso in soggezione nei confronti della sorella, che aveva sempre visto molto più grande di lui e abbastanza distaccata nei suoi confronti, benché non l'avesse mai e poi mai trattato male, a differenza di Cesare e Ottaviano.

“Io... Sì, io li ho visti.” confermò, riportando alla mente non solo l'immagine di Fortunati che baciava la Tigre, ma, soprattutto, quella della Tigre che restituiva il bacio a Fortunati: “Ne sono sicuro.”

I due Riario, a quel punto, si guardarono l'un l'altro a lungo, come se in quello scambio silenzioso fosse sottesa una fitta conversazione segreta con cui stavano cercando di stabilire se davvero la loro madre avesse sedotto un uomo come il piovano.

Bernardino restava in attesa, non riuscendo a capire se avesse fatto bene o male a riferire quell'episodio ai fratelli. Lui stesso, in tutta sincerità, non sapeva dire se quei baci fossero per tutti loro una cosa positiva o negativa.

Il giudizio dei fratelli sulla veridicità della sua storia era ancora palesemente sospeso, quando proprio la Tigre si affacciò nel salone: “Che state facendo?” chiese.

Non aveva un reale motivo per passare da lì, dato che voleva andare nel cortile, né aveva posto quella domanda con particolare interesse. Aveva solo sentito le voci dei figli e aveva pensato che, se avesse trovato con loro frate Lauro, ne avrebbe approfittato per chiedergli di seguirla fuori, in modo di poter parlare di ciò che la tormentava con qualcuno, che avesse una minima visione politica.

Bianca, con un libro in grembo, e Galeazzo e Bernardino in piedi davanti a lei tacquero a quella domanda. Soprattutto, tutti e tre temevano che la madre avesse sentito il loro discorso di poco prima ed erano certi che quell'innocente domanda, che state facendo, fosse solo un modo per iniziare a riprenderli.

“Se non avete nulla da fare – riprese invece la Sforza, abbastanza irritata dal loro silenzio prolungato – potreste impegnare questo tempo studiando il latino o ripassando la scherma...”

Ancora una volta, nessuno parlò. Con uno sbuffo, la donna domandò se qualcuno di loro avesse visto Bossi, e solo Galeazzo farfugliò qualcosa sul fatto che forse il frate fosse con Sforzino nella biblioteca per discutere di teologia.

Non avendo voglia di distogliere il suo sesto figlio dai suoi studi, la Tigre fece una smorfia di insoddisfazione e poi salutò Bianca, Galeazzo e Bernardino dicendo solo: “Se qualcuno mi cerca, sono in cortile.”

Una volta che se ne fu andata, lasciati passare alcuni minuti, per essere certi che non tornasse sui suoi passi, i due Riario e il Feo dovettero ammettere a voce alta che, forse, era vero che la Leonessa avesse un uomo e che quell'uomo fosse Fortunati.

“Spiegherebbe anche perché è tornata a essere così nervosa da che lui è partito.” commentò Bianca, che pure ancora stentava a immaginarsi il piovano come amante della madre.

“Se è così – concluse Galeazzo, incrociando le braccia sul petto – mi auguro solo che vada meglio di altre volte.”

 

Caterina stava per arrivare a una delle porte che dava sul cortiletto. Stava ancora ripensando alle parole scritte da Ciocca, e si stava chiedendo se i suoi figli non stessero parlando di lei, quando era entrata nel salone, visto il silenzio tombale dietro cui si erano trincerati. Pensava anche a Fortunati, al modo in cui le mancava la notte e anche il giorno, al sentimento strano che provava nei suoi confronti, che non poteva chiamare amore, ma che le dava ugualmente una certa dipendenza, benché avessero ridotto le distanze veramente da pochissimo tempo. E pensava anche al gioco pericoloso che stava intraprendendo senza quasi accorgersene, camminando sul filo tra nemici e sedicenti amici, senza capire davvero cosa ci fosse in palio: solo la sua vita, anche quella dei suoi figli, il futuro dell'Italia..?

Sentiva lo stomaco stretto e il cuore veloce, e in un primo momento non riconobbe la figura un po' ricurva che stava parlottando con una delle serve. Capì che si trattava di Ottaviano solo quando lo vide afferrare con forza un braccio della ragazza che cercava di divincolarsi.

Quando la serva si accorse di lei, sibilò qualcosa in direzione del Riario e questi, voltandosi come se temesse di trovarsi davanti il diavolo in persona, lasciò all'istante la presa.

Caterina fece un cenno imperioso alla serva, che non attese un momento di più, andandosene quasi di corsa, e poi si parò davanti al figlio. Questi, benché fosse più alto, parve rimpicciolirsi, premendosi contro allo stesso muro contro cui fino a poco prima gli era sembrato tanto semplice immobilizzare una giovane donna.

La Tigre risentì ancora una volta le raccomandazioni di Fortunati, che le aveva ribadito più e più volte di non scontrarsi con il suo primogenito, perché era cruciale far sì che non desse loro problemi aggiuntivi.

Tuttavia, quando schiuse le labbra, in parte per la precedente collera che non riusciva a far smontare e in parte per ciò che aveva appena visto, non riuscì a trattenersi più di tanto: “Stacci molto attento.” gli disse, con tono freddo: “Metti incinta anche questa contro la sua volontà e sarà peggio per te. Non c'è più Giovanni a difenderti.”

Quell'accenno al Medici, a come si fosse prodigato, alla nascita di Cornelia, per proteggere non solo la bambina, ma anche la di lei madre e perfino Ottaviano, l'unico, in quella storia, che avesse delle colpe, fece contrarre i muscoli del collo del Riario.

“Andrai a Milano.” rivelò senza tanti preamboli la donna: “Farò sì che tuo fratello Cesare passi a prenderti e poi andrete a Milano, Venezia, e ovunque servirà.”

“Per... Per fare cosa..?” balbettò il giovane uomo, non trovando quella punizione commisurata all'aver cercato un po' di svago con una delle serve.

“Per fare quello che ti dirò io.” tagliò corto la Leonessa.

“Ma... Ma io non ne sono in grado...” fece lui, mettendo da parte ogni parvenza di dignità e sperando che quell'appello bastasse a far cambiare idea alla madre.

“Lo so benissimo. Sei una zavorra da quando sei nato.” Caterina teneva gli occhi verdi puntati contro di lui e le sue spalle, larghe, ma meno forti di un tempo, sembravano incombere su Ottaviano come una lapide squadrata: “Gian Piero ti aiuterà. Mi basta solo che tu non faccia danni.”

Mentre il figlio deglutiva, cercando di digerire quella novità, la Sforza aggiunse tra sé: 'E prima che scopri che tua sorella è incinta e che io ho un religioso come amante'.

“Domani è il compleanno di Giovannino.” fece poi la Leonessa: “Quindi starò in convento con lui per qualche giorno. Appena tornerò, farò in modo che tu parta.”

Detto ciò, la milanese distolse lo sguardo e si allontanò, diretta al cortile, il passo veloce e la mente già altrove.

Ottaviano si appoggiò una mano sul petto. Sentiva il cuore battere veloce come quello di un cardellino. Che cosa aveva in mente davvero sua madre?

Da un lato l'affascinava l'idea di partire. Avrebbe potuto fare quello che voleva, prendere contatti con chi voleva, e avrebbe visto posti nuovi, vissuto magari ospite da questo o quel parente alla lontana... Aveva viaggiato sempre poco, ma ricordava abbastanza felicemente di quando, da ragazzino, aveva lasciato a volte la Romagna.

Dall'altro lato, però, la sola idea di lasciare quella villa lo atterriva. Temeva che qualcuno lo volesse uccidere, che potesse capitargli qualcosa durante il viaggio, che venisse coinvolto in qualcosa di più grande di lui. Aveva paura del giudizio negativo di sua madre, nel caso in cui si fosse dimostrato del tutto inadatto a svolgere i compiti che lei voleva riservargli. Aveva letteralmente il terrore di dover difendere in prima persona la propria incolumità... Non aveva mai imparato davvero a usare le armi...

E poi, nulla, davvero nulla, gli toglieva dalla mente il pensiero che sua madre avesse architettato qualcosa per toglierselo di torno una volta per tutte in modo da uscirne del tutto pulita.

Appoggiato con la schiena al muro, lentamente si lasciò scivolare fino a trovarsi seduto in terra. Si prese la testa tra le mani e, sgranando gli occhi, si chiese perché mai non fosse morto ancora prima di nascere. A quel modo, forse, sarebbe stato tutto più semplice, sia per lui, sia per sua madre, la spietata Tigre di Forlì.

 

   
 
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