Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: 22Mavi    27/01/2022    0 recensioni
Avrebbe atteso gli altri, guidandoli nei movimenti, lasciando che Levi evitasse di sporcarsi le mani, come odiava; avrebbe soppresso l’euforia e la furia come aveva sempre fatto, evitando di far trasparire il suo attaccamento alla questione e l’importanza che aveva per lui. Avrebbe bruciato dentro, folgorato dal suo stesso sangue, mentre la porta scricchiolava sui cardini, e….
Nulla. Nemmeno con tutta l’urgenza che il caso suggeriva riuscì ad immaginare cosa ci fosse dentro quella cantina.
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Erwin Smith
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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ALL’ALBA VOLANO I SOGNI

Erwin Smith sellava il cavallo con foga innaturale, rivoluzionario della solita accortezza che metteva per non infastidire l’animale; quello se ne rese conto,
e sbuffò un nugolo di polvere e muco in direzione del comandante. Erwin lo ghiacciò con uno sguardo, per fargli capire in fretta che non era il momento di fare storie quello, domandolo una volta e per tutte. Sebbene si conoscessero da dieci anni, infatti, Talamir era rimasto il solito giovane aitante e testardo, motivo per il quale solo un cavaliere abile come Erwin Smith riusciva a condurlo in battaglia. Ma ora, nella luce grigia dell’aurora, il loro complice gioco di arroganze doveva interrompersi: altre erano le priorità, altre le scadenze e ben più gravi i propositi verso i quali avrebbero galoppato.
Il capitano Smith non rinunciò a dare una pacca sulla coscia di Talamir prima di allontanarsi, forse per esorcizzare la stizza che gli aveva dimostrato e tenere a bada anche la coscienza.
A quante piccole cose doveva pensare, nell’arco di quelle decine di minuti. Troppi particolari a cui la sua coscienza aveva dato peso in tutta la vita, che ora si ammassavano, incuranti delle necessità, arroganti ed egocentrici, pronti a rivendicare ogni briciolo della sua attenzione. Eppure, per quanto Erwin non avesse mai ceduto alla tentazione di sé, ora sentiva di doversi dare spazio, di occupare posto nella propria considerazione in quell’ora scarsa che lo separava dal prossimo giorno.
“Hanz!”
“Sì, comandante!” la mano lanciata sul petto dal ragazzo tremava, ma era all’altezza del cuore.
“Siete pronti?” chiese Erwin con calma serafica.
“S…ì….sì comandante.”
“Fra venti minuti voglio tutti in sella, chi non se la sente può andarsene, a cercare la propria fortuna.”
“Ma, comandante… Se lo dicessi agli altri, chi verrebbe?”
“Tu diglielo!”
“Sissignore.”
Hanz si allontanò con le gambe storte e saltellanti, cercando di dare una direzione convinta alla propria andatura. Erwin si accorse che non era pronto, ma cosa poteva fare?
Una pioggia di massi grandi come vasi distrusse una finestra sopra di lui, ed i vetri gli graffiarono il viso e un orecchio. Non avvertì nulla; vide solo i sassi superstiti schiantarsi contro le mura e ridursi in polvere, - triste analogia- pensò.
Nei minuti da dedicarsi rientrava una cosa da fare a tutti i costi, anche se gli fosse valsa la vita: si avvicinò al montacarichi, dove le corde consumate dall’abuso e vessate dalle pietre minacciavano di non reggere più un solo cavallo, figuriamoci un rientro delle truppe.
Chiuse la sbarra ed urlò “Tirami su!” all’addetto sopra le mura, che iniziò a girare la manovella in modo forsennato, sperando in un contrordine generale. Quando la faccia di Erwin comparve dai lisci mattoni tirati a lucido il suo entusiasmo si spense, infrangendosi negli occhi ammonitori del comandante, il quale, evidentemente, gli aveva letto nella mente. Il soldato provò forte vergogna.
Erwin Smith lo superò senza degnarlo di una parola, e tirò fuori il cannocchiale in dotazione. Con rapidi calcoli, ed in base alle descrizioni di Eren, cercò rapidamente le macerie di casa Yaeger, contando a mezza bocca numeri e latitudini per essere sicuro di non sbagliare.
“Dopo il commerciante di ceramica, col negozio giallo, in cima ad una salita di casette…”
Eccola. Non vi erano dubbi che fosse quella. Anche il colore dei calcinacci combaciava.
La fissò per alcuni secondi poi, con ancora il cannocchiale attaccato alla faccia, chiuse gli occhi: immaginò di scostare travi e massi con Levi, Eren e gli altri, sentì l’ansia dell’annunciazione montargli dentro mentre raschiava il fango secco e la polvere dalla botola della cantina, ora prostrata, vergine e pura, alla violenza della sua curiosità; fantasticò di trovarla intatta, della foga forsennata con cui l’avrebbe aperta e si sarebbe fiondato per le scale, probabilmente sfondando la porta con una spallata.
Troppo emotivo per un comandante. 
Avrebbe atteso gli altri, guidandoli nei movimenti, lasciando che Levi evitasse di sporcarsi le mani, come odiava; avrebbe soppresso l’euforia e la furia come aveva sempre fatto, evitando di far trasparire il suo attaccamento alla questione e l’importanza che aveva per lui. Avrebbe bruciato dentro, folgorato dal suo stesso sangue, mentre la porta scricchiolava sui cardini, e….
Nulla. Nemmeno con tutta l’urgenza che il caso suggeriva riuscì ad immaginare cosa ci fosse dentro quella cantina. Pagava ora il prezzo di anni di misurazioni e compostezze, sentiva ora il rantolo funereo della propria immaginazione soffocata dalla responsabilità e dal riserbo, oltre che dall’imposta volontà di non legarsi a nessuno che, probabilmente, sarebbe presto morto. Questa linea di difesa gli aveva salvato il cuore dalle centinaia di spedizione infruttuose, dalle migliaia di cadaveri raccolti a fatica dai solchi enormi di piedi nel terreno, eppure gli aveva distrutto la fantasia.
La sua teoria, cioè quella di suo padre, rimaneva lì, vigile e significativa, ma aveva smesso ormai da tempo di assomigliare ad un sogno, diventando sempre più fredda dottrina.
Richiuse il cannocchiale con uno scatto nervoso che nessuno gli aveva mai visto fare, e tornò sul montacarichi ordinando al soldato, che era rimasto tutto il tempo imbambolato a guardarlo, di riportarlo giù.
“Ma, comandante, lei può…” 
Erwin, che gli dava le spalle, si girò di scatto come un felino ferito, e mancò poco che non mostrasse i denti: incenerì quel proposito con la sola forza del suo onore, mentre il montacarichi stava già scendendo.

Ora, sempre per se stesso, doveva sopprimere la rabbia che gli montava dentro, in modo che i posteri non l’avrebbero tramandata: se infatti questa risoluzione poteva sembrare un’attitudine al comando e un’iniezione di fiducia nei soldati, in realtà Erwin la stava applicando per se stesso. Non avrebbe mai permesso ad un’insurrezione infantile di insozzare la sua impeccabile carriera, il suo lascito, la sua leadership. Eppure stava diventando così difficile trattenere le urla, gli occhi strabuzzati dall’ingiustizia, il malumore della propria sconfitta personale. Doveva essere tutto veloce: più lo sarebbe stato, meno avrebbe fatto male. Lanciò uno sguardo ad ovest, riuscendo ad individuare un puntino nero sovrastato dalla sagoma di un gigante che lo lasciava stare; Levi era pronto. 
Qualcuno notò l’agitazione nei suoi movimenti, ma non gli diede peso: tutti erano travolti dall’imminente attacco, trascinati in se stessi e rinchiusi nella propria coscienza, una forma di prigione di cui la morte era unica secondina.
Quando furono tutti in sella, raccolti in mezzo alle case distrutte dalla pioggia di pietre, motivò i soldati in modo impeccabile, avvertendo, per la prima volta, le bugie che stava dicendo: aveva parlato altre volte senza credere troppo in ciò che diceva, ma ora che veniva strappato dal suo sogno, dalla sua ragione, sentì come quelle bugie riguardassero anche lui, così vicino ad adempiere la propria missione. 
Non riusciva ad accettare il destino beffardo che lo voleva sconfitto ad un passo dal proprio sogno, quando molte altre volte sarebbero valse una come l’altra: invece no, era proprio questa la sua ora, e tale doveva rimanere. 
Dopo aver motivato i soldati gridò come un ossesso e partì alla carica per primo.
Non voleva dare tempo al rimpianto. Più veloce era, prima sarebbe finita.
Nel momento in cui la pietra del gigante-bestia lo colpì allo stomaco, spappolandogli gli organi interni, qualche soldato vicino a lui lo sentì rantolare “La cantina!”, ma nessuno ne fu realmente convinto.

Dall’immagine della pietra al cielo terso sopra Shinganshina passò un attimo: tale fu la sua percezione del tempo, nonostante stralci di discorsi, urla, lacrime e minacce avevano attraversato la sua testa, eteree e sconnesse. Non riusciva ad aprire del tutto gli occhi: solo uno spiraglio bastò a capire di essere ancora vivo e di essere adagiato su un tetto del distretto. L’olezzo di corpo bruciato gli penetrò l’anima e diede vita al suo malessere, quasi avesse innescato il dolore fisico attutito dall’incoscienza. Si sentiva debole come non aveva mai saputo di poter essere. 
Ora, viaggiò la mente, ora poteva entrare nella cantina.
L’avvento di questo pensiero era arrivato tramite una serie di riflessi d’inconscio, che avevano ricomposto la siringa nella sacca di Levi, il frastuono della voce di Yaeger che diceva che Berthold era lì, inerme per essere mangiato, l’assunto che queste due cose insieme producevano, ovvero poter ricevere l’iniezione, mangiare Berthold, e poter entrare nella cantina. Solo non riusciva a spiegarsi lacrime ed urla, men che meno quell’olezzo di corpo bruciato che gli devastava l’anima. Aveva sentito tante volte quell’odore da risultargli quasi familiare, non capiva perché ore stridesse tanto nella sua anima, strapazzandogli i nervi morenti. 
L’istinto di poter coronare il suo sogno sembrava l’unica cosa a cui pensare, ma non lo fu: di colpo, nella sua immaginazione, comparirono i soldati schiacciati da enormi sassi volanti, le carni compresse insieme a quelle dei cavalli, il nitrito di morte di Talamir dopo diciassette anni di onorato servizio, la furia con cui i giganti cadevano in titanici spruzzi di sangue, segno che Levi stava riuscendo ad avanzare, e che lo sconclusionato piano aveva funzionato.
La mano tremante di Hanz, che sicuramente non ce l’aveva fatta.
Tutti questi particolari degni di attenzione gli sovrastarono la coscienza, facendo sparire del tutto il pensiero della cantina. All’improvviso, la rabbia che aveva provato fino a poco prima di essere colpito si tramutò in stanca tristezza; consapevole di ciò che aveva mandato a fare ai suoi soldati, dell’enormi sofferenze che il loro spirito aveva patito per raccogliersi nell’ultimo slancio di coraggio, egli dimenticò se stesso, ma stavolta non per volontà imposta o per comandare. Successe perché Erwin aveva finalmente capito la sbornia del suo sogno, l’estrema, ridondante ambizione egoistica che l’aveva mosso in quegli anni, nei giorni, e soprattutto nell’ultima ora prima dell’alba. 
Quante vite si erano infrante sullo scoglio della sua fame di verità?
Di fronte a questa consapevolezza egli si ricongiunse con i dettagli, liberato dall’ossessione che se stesso produceva, in un gioco labirintico che finiva in quella cantina.
Gli occhi non funzionarono abbastanza per piangere, né poté articolare abbastanza la bocca per parlare a Levi, che sapeva essergli vicino per via del profumo di pulito che emanava in tutta quella distruzione.
Di colpo, si ritrovò bambino, e la stessa curiosità che gli aveva mosso la vita fece alzare la mano dal banco in terza fila, e si sentì chiedere:
“Maestro, mi dica, come hanno fatto quegli uomini a sapere che fuori dalle mura non c’è nessuno?”
Nel cielo limpido rivide le macerie di casa Yaeger, la botola che stavolta aprì con furia felice, correndo per le scale e sfondando la porta sui cardini, trovandosi di fronte la risposta che suo padre non aveva saputo dargli, così semplice e terribile: non lo sapevano.
Il momento in cui la capì fu lo stesso di quando desiderò di averla scordata, e sperò di non avere abbastanza tempo per tirare le somme della propria vita alla luce di essa.
Intanto, l’olezzo di bruciato era sparito, ed Erwin sentì Berthold gridare disperato.
Esalò l’ultimo respiro che si levò verso l’alba ancora colmo di sogni, slegato dal peso della verità.
Per fortuna Levi lo aveva salvato.
  
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